L’industria fossile ha fatto di tutto per trarre beneficio dai soldi del Recovery Fund, ma la Commissione europea ha fermato l’assalto, come rivela il nuovo rapporto Ripresa e Connivenza, pubblicato oggi da ReCommon.

Il fondo da 750 miliardi di euro istituito dall'Unione europea a luglio del 2020 rappresenta un'occasione unica per gettare le fondamenta della transizione ecologica del Vecchio Continente e dell'Italia in particolare. Proprio al nostro Paese spetta la fetta più cospicua delle risorse, ben 191,5 miliardi, a cui si aggiungono i 13 del ReactEU.

I giganti del gas, energia fossile, sono però di disposti a tutto pur di ostacolare il passaggio a un modello energetico diverso, indispensabile per limitare la crisi climatica.

La prima mossa dell’industria fossile ha lasciato il segno all'interno del regolamento europeo sul dispositivo di Ripresa e Resilienza: le lobby sono riuscite a far inserire un cavillo attraverso cui il gas può beneficiare dei fondi, se ritenuto necessario a rimpiazzare un combustibile fossile più inquinante.

Stessa strategia che l'industria aveva utilizzato in passato spacciando il gas come la soluzione per accelerare il phase-out dal carbone, ottenendo così la realizzazione di migliaia di chilometri di gasdotti che hanno reso l'Europa totalmente dipendente dal metano, un gas serra molto più potente persino dell'anidride carbonica.

Oggi le compagnie fossili celebrano idrogeno e "gas rinnovabili", come il biometano, che sono solo un tentativo di rebranding del gas, finalizzato a prolungare la vita delle infrastrutture fossili e sbarrare la strada alle fonti energetiche pulite.

L'idrogeno viene presentato come il rimedio ottimale per decabornizzare l'industria pesante, come acciaierie e siderurgia, e il comparto dei trasporti. La realtà però è che circa il 90 per cento dell'idrogeno prodotto in Europa deriva dal gas, che è il vero motivo per cui piace così tanto ad Eni e Snam, società controllate dal ministero del Tesoro, mentre l'idrogeno verde – prodotto da fonti rinnovabili - costituisce solo meno dell'1 per cento.

Quello dell'idrogeno pulito è dunque un mito, che fa il paio con la cattura dell'anidride carbonica (CCS), presentata da Eni come la soluzione per decarbonizzare la produzione di idrogeno da metano, stoccando sotto il fondale del mare la CO2 che si sprigiona durante il processo.

È da decenni che il settore prova a sviluppare progetti di CCS, facendo leva su ingenti fondi pubblici, ma la tecnologia non ha mai dato i risultati promessi. Senza contare i rischi ad essa associati, come quello di innescare terremoti.

Incontri e temi delle lobby

(AP Photo/Petros Karadjias, File)

Proprio su questi temi si è concentrata l’azione di lobby sul Recovery Plan portata avanti dal comparto fossile italiano.

Dalla scorsa estate, l'industria fossile ha avuto almeno 100 incontri con i ministeri chiave incaricati di redigere il piano: una media di oltre due riunioni a settimana.

Eni, la principale multinazionale fossile italiana, ha guidato l'attività lobbistica con almeno 20 incontri ufficiali. Sfruttando le sue relazioni privilegiate con lo Stato, il Cane a sei zampe è riuscito a far sì che le successive versioni del Recovery Plan collimassero sempre più con il suo piano industriale.

Stesso numero di incontri anche per Snam, la società che controlla la rete di gasdotti in Italia e nel resto del continente europeo. Se per Eni l'idrogeno rappresenta l'espediente per continuare a produrre gas, nel caso di Snam serve a prolungare la vita delle sue infrastrutture e svilupparne di nuove, come le decine di stazioni di rifornimento a idrogeno per treni e camion incluse nel Pnrr, utili solamente a rallentare un reale cambio di modello nel settore dei trasporti, già attualmente tra i più inquinanti in assoluto e che con l'idrogeno rischierebbe di diventare ancora più energivoro. 

Le aziende fossili hanno contesto anche molte delle normative ambientali, ottenendo lo smantellamento capillare di quei pochi strumenti legislativi a cui le comunità potevano ricorrere per opporsi ai progetti imposti sui loro territori. Il decreto Semplificazioni, recentemente approvato dal consiglio dei Ministri, è l'ultima di una serie di riforme volte ad accentrare sempre più i poteri decisionali e colpevolizzare il dissenso, persino quello istituzionale.

Non solo vengono dimezzati i tempi di rilascio delle Valutazioni di Impatto Ambientale (fino a un massimo di 175 giorni), ma si consente alla presidenza del Consiglio di esautorare le amministrazioni locali e centrali in caso di opposizione ai progetti inseriti nel piano.

Nel nuovo assetto di governance è persino previsto un ruolo per le società partecipate come Eni, che faranno parte del nuovo "Servizio centrale per il Pnrr" istituito presso il ministero dell'Economia, al quale è affidato il ruolo di coordinamento e controllo del Piano e dei relativi investimenti.

Ministri in ascolto 

Durante tutto il periodo di stesura del piano, il ministero dello Sviluppo Economico (Mise) guidato dal leghista Giancarlo Giorgetti ha rappresentato un ingranaggio chiave del raccordo tra governo e industria fossile. Dal luglio 2020 all’aprile 2021, l'ex responsabile della direzione generale per l'energia, Gilberto Dialuce, oggi consigliere del ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani, ha avuto 41 incontri con i rappresentanti delle aziende fossili, di cui la maggior parte con Eni e Snam. Il Mise ha giocato un ruolo fondamentale nell'elaborazione della strategia italiana sull'idrogeno.

Il vero punto di fusione tra il comparto fossile e il governo si è poi raggiunto proprio attraverso il ministero della Transizione ecologica (Mite). Cingolani ha spalancato le porte all'industria fossile, con cui il ministero ha avuto oltre tre incontri a settimana, di cui 18 con la presenza del ministro in persona. In poco più di un mese, Cingolani ha ricevuto l'amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi e quello di Snam Marco Alverà ben quattro volte, al fine di discutere dei progetti da inserire all'interno del Recovery Plan.

Il feeling è evidente. Non solo Cingolani ha più volte espresso posizioni pro-gas, ma al suo fianco siede la leghista Vannia Gava, storica sostenitrice dell'industria fossile con alle spalle una lunga battaglia per sbloccare le trivellazioni nell'Adriatico. Gava è stata nominata come sottosegretaria del ministro, che di recente le ha affidato deleghe importantissime tra cui quella per l'economia circolare e ai rifiuti.

Periodi caldi

L’interesse delle compagnie fossile per i soldi del Recovery Plan era cominciato già la scorsa estate, quando a Bruxelles si andava ultimando la struttura del fondo.

Fra luglio e agosto, quando c’era ancora il governo Conte 2, Eni ha svolto quattro incontri con il Mise e il ministero dell'Ambiente per promuovere il suo progetto di cattura e stoccaggio dell'anidride carbonica (CCS) a largo delle coste di Ravenna.

Il progetto era stato svelato da Eni nel febbraio del 2020. Allora il Cane a sei zampe era comprensibilmente cauto sulle tempistiche, ritenendo che non sarebbe stato plausibile ottenere le autorizzazioni necessarie prima del 2025. Ma per poter accedere ai fondi del Recovery, i progetti devono essere terminati entro il 2026, e questo avrebbe potuto complicare le cose.

Dopo i quattro incontri con Eni, nel giro di qualche settimana il governo ha accolto un emendamento presentato dal Pd, con primo firmatario il senatore di Ravenna Stefano Collina, semplificando radicalmente l'iter autorizzativo per la realizzazione del progetto. Oggi la compagnia non indica più il 2025 come data per l'acquisizione dei permessi necessari, bensì il 2022.

Un altro momento cruciale si è registrato nel dicembre 2020, con l'avvio delle consultazioni sulla Strategia nazionale per l'idrogeno. Attraverso questo processo, il Mise ha inteso individuare i settori prioritari, nel breve e lungo periodo, per l'utilizzo di questo vettore energetico: un’occasione irripetibile per l'industria fossile per plasmare le politiche energetiche nazionali dei prossimi decenni.

Le prime proposte progettuali per il Pnrr presentate dal ministero dello Sviluppo Economico (Mise) ad agosto 2020, si concentravano sull'applicazione dell'idrogeno nel comparto delle acciaierie, in particolare sull'Ilva di Taranto. Proposta che però ha avuto vita breve, dato che poche settimane dopo è stato l’allora ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli (M5s), a escludere l'idrogeno dal ventaglio di prospettive per lo stabilimento.

Nell'ambito delle consultazioni di dicembre, Eni, Snam ed Enel hanno incontrato i dirigenti del Mise per sei volte in soli otto giorni. Eni ha proposto il settore della raffinazione come prioritario, mentre Snam si è concentrata su quello dei trasporti. La fitta serie di colloqui ha funzionato, dato che la versione successiva del Pnrr includeva tutte le principali richieste del comparto fossile, stanziando circa 2,7 miliardi per progetti presentati da Eni, tra cui il controverso CCS di Ravenna e altri sei riguardanti le raffinerie del Cane a sei zampe.

L’occasione del nuovo governo

Mario Draghi (Alberto Pizzoli/POOL photo via AP)

Tuttavia è nei mesi successivi all'insediamento del governo Draghi che l'azione lobbistica raggiunge il suo apice. L'industria fossile ha preso parte a dozzine di audizioni parlamentari, chiedendo maggiori finanziamenti per l'idrogeno blu e per il biometano. Pretese accolte in toto dai deputati di Camera e Senato nella loro relazione parlamentare sul Piano di ripresa italiano, in cui richiedono di "prevedere opportune risorse per la produzione e l'utilizzo dell'idrogeno blu" e "interventi diretti a promuovere il biometano".

Soltanto una settimana prima della relazione elaborata dal parlamento, Eni aveva acquistato dal gruppo Bolzanese Fri-El ben 21 impianti di biogas sparsi per il territorio nazionale, che intende convertire per la produzione di biometano.

Nel periodo compreso fra febbraio e aprile 2021, il comparto energetico ha organizzato 49 incontri con il ministero per la Transizione Ecologica e quello per lo Sviluppo Economico. Lo scorso marzo, sia Cingolani che la sottosegretaria Gava hanno presenziato a webinar e conferenze sull'idrogeno sponsorizzate dal comparto fossile. In una di queste, Gava ha affermato che in Italia bisogna puntare sull'idrogeno blu.

Persino Arera, l'ente regolatorio per l'energia, ha raccomandato al governo di non puntare eccessivamente sull'idrogeno verde che "rischierebbe di distrarre le risorse destinate alla produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili", e di sostenere invece quello estratto da metano con la cattura della CO2 "impiegabile nel breve periodo a un costo minore". Anche Enea, l'istituto nazionale per la ricerca incaricato di assistere il Mise nella selezione dei progetti sull'idrogeno, ha siglato un accordo con Confindustria chiamato "patto per l'idrogeno".

Nel giro di pochi mesi, tutti gli attori chiave dell'arco istituzionale, dal governo al parlamento, passando per l'autorità regolatoria fino all'ente pubblico di ricerca, si sono schierati con l'industria del gas.

Per comprendere gli effetti materiali di questa pressione sulla stesura del Recovery Plan è sufficiente osservare l'evoluzione del piano nel corso delle versioni che si sono succedute, le quali hanno accomodato di volta in volta al loro interno tutte le proposte avanzate dall'industria fossile.

Nel caso dell'idrogeno, gli investimenti previsti sono saliti da 1 ai 4,2 miliardi inclusi nella versione del Pnrr inviata alla Commissione Europea a fine aprile. A guidare l'incremento erano gli investimenti per i settori hard-to-abate, di cui fanno parte le raffinerie, passati da poco più di 300 milioni a 2 miliardi. All'interno di questa voce è stato ammesso l'idrogeno blu e persino il gas, indicato come necessario a sostituire il carbone nelle acciaierie.

Così si è aperta la porta anche al CCS, indispensabile per produrre idrogeno blu, sebbene non esplicitamente menzionato nel Piano, probabilmente per evitare di riaccendere la protesta montata a dicembre, quando era trapelata la notizia degli 1,3 miliardi stanziati per il progetto.

Non mancava nemmeno il biometano, sebbene fosse stato escluso dal Pnrr inviato al parlamento a gennaio scatenando la reazione delle lobby, che poi hanno ottenuto lo stanziamento di poco meno di 2 miliardi. Una vittoria completa per Eni e Snam.

All'ultimo momento però è intervenuta la Commissione Europea, che ha preteso l'esclusione dal Piano dell'idrogeno blu e del gas. Secondo Bruxelles, è stato necessario richiedere maggiori garanzie al governo italiano riguardo alcune componenti del Piano, per assicurarsi che gli interventi non arrecassero danni all'ambiente. A quanto pare, i funzionari europei non hanno gradito il tentativo del governo di insinuare il metano nelle pieghe del Pnrr.

Una volta arrivato il no della Commissione al gas, il governo ha ridotto significativamente i finanziamenti per l'idrogeno, specialmente quelli per il comparto hard-to-abate, crollati a meno di un quarto di quelli previsti, a dimostrazione di quale fosse il vero obiettivo di Cingolani e del comparto fossile.

La condizione arrivata in extremis da Bruxelles ridimensiona almeno in parte le ambizioni dell'industria del gas, ma non si può ancora tirare un sospiro di sollievo. Anche nell'ultima versione del Pnrr sono state mantenute alcune scappatoie, come la possibilità di produrre idrogeno utilizzando l'elettricità proveniente dalla rete. L'industria vorrebbe spacciarlo come idrogeno verde, anche se chiaramente la produzione attuale di elettricità è tutt'altro che pulita, basandosi su gas e carbone per circa il 70 per cento.

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