I fondi del Piano di ripresa italiano non dovranno andare ai combustibili fossili, gas incluso. L’aut aut di Bruxelles complica non poco il tentativo di Eni di accaparrarsi le risorse del Recovery fund, nonostante il Cane a sei zampe potesse contare sull’appoggio totale del ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani.

A inizio settimana, la Commissione europea ha espresso parere positivo sul Pnrr presentato dal governo Draghi, dando così il via libera all’erogazione dei 191,5 miliardi previsti per l’Italia, di cui una prima parte potrebbe arrivare già in estate dopo l’approvazione del Consiglio europeo. «È una giornata di orgoglio per il nostro paese», ha commentato trionfante il presidente del Consiglio, Mario Draghi, in apertura della conferenza congiunta con la presidente europea Ursula von der Leyen, organizzata lunedì negli studi di Cinecittà, a Roma.

La vera partita

Dietro i proclami autocelebrativi si nasconde però un braccio di ferro tra Bruxelles e palazzo Chigi andato in scena a partire dal 30 aprile, data in cui l’Italia aveva trasmesso il proprio piano, e che ha infine costretto l’esecutivo italiano ha modificare in maniera sostanziale la componente del Pnrr relativa alla transizione energetica, chiudendo le scappatoie che erano state lasciate aperte al gas. Una doccia fredda (anche se non ancora gelata) per Eni, dopo che era riuscita nel tentativo di far includere il cosiddetto idrogeno blu – quello prodotto da metano – nel Piano di ripresa e resilienza, con il beneplacito di Cingolani, il quale si era giustificato sostenendo che «non ci sono ancora abbastanza rinnovabili». Negli ultimi anni, l’industria fossile mondiale si è prodigata nel dipingere l’idrogeno come la panacea di tutti i mali climatici del pianeta, spacciandolo come la soluzione ottimale per la decarbonizzazione dell’economia.

L’idrogeno però non è una fonte, bensì un vettore energetico, la cui produzione richiede a sua volta una grandissima quantità di energia e può avvenire attraverso modalità molto diverse tra loro. L’idrogeno “verde”, ad esempio, si produce mediante elettrolizzatori, ovvero dei macchinari che riescono a rompere la molecola d’acqua tramite il passaggio di elettricità.

Questa è la forma di idrogeno con l’impronta climatica più ridotta, poiché la sua produzione genera il minor rilascio di anidride carbonica rispetto alle altre, non essendo basata sui combustibili fossili. Anche l’idrogeno verde può avere comunque impatti significativi, specialmente quando implica la realizzazione di giganteschi impianti solari o eolici che possono avere ricadute notevoli sui territori, oltre a replicare lo stesso modello energetico centralizzato che caratterizza quello fossile.

Idrogeno blu

Quello su cui punta Eni è invece l’idrogeno blu, che si ottiene a partire da fonti energetiche fossili, principalmente metano, con associata la cattura e stoccaggio dell’anidride carbonica (Ccs) in depositi sotterranei. Essendo il metano un gas serra molto più potente della CO2, questa forma di idrogeno è chiaramente tutt’altro che pulita. Il Ccs, inoltre, è una tecnologia molto rischiosa che negli ultimi decenni ha collezionato quasi solo fallimenti, nonostante gli ingenti finanziamenti pubblici di cui ha goduto. Una ricerca indipendente, completata a dicembre dello scorso anno da un gruppo di ricercatori della Carleton University di Ottawa, ha concluso che l’80 per cento dei progetti di Ccs realizzati si è rivelata un fallimento e gli unici ad essere andati in porto sono quelli dove l’anidride carbonica è stata re-iniettata nei giacimenti al fine di aumentare l’estrazione di idrocarburi.

Un bel paradosso per una tecnologia che dovrebbe favorire la decarbonizzazione. Un altro problema collegato al Ccs è il rischio che l’iniezione di anidride carbonica nel sottosuolo possa innescare terremoti che, anche qualora di modesta intensità, minacciano di intaccare l’integrità del “serbatoio” provocando così il rilascio della CO2 stoccata. La zona di Ravenna, dove Eni intende realizzare il suo mega progetto di cattura di anidride carbonica, è considerata una zona ad alta sismicità, il che giustamente preoccupa molto la popolazione locale e non solo. Il Piano di ripresa preparato dal governo Draghi e inviato a Bruxelles lo scorso aprile prevedeva circa 4 miliardi di finanziamenti per l’idrogeno, di cui la metà per il suo utilizzo nel comparto industriale, come raffinerie e produzione di acciaio, ovvero il settore definiti “hard-to-abate”. E proprio all’interno di questa componente era stata inserita la via d’entrata per il gas fossile.

La versione oscurata

Sebbene la versione del Piano pubblicata da palazzo Chigi sul sito del governo menzionasse solamente l’idrogeno verde, in quella integrale trasmessa alla Commissione europea (e mai pubblicata dal governo) c’era scritto tutt’altro. Nel caso delle raffinerie, si faceva riferimento ad investimenti nell’idrogeno “low-carbon” (un eufemismo indicare quello prodotto da metano) come step intermedio verso quello verde. Mentre per le acciaierie, il Pnrr prevedeva «il passaggio graduale dal carbone al gas, per poi passare all'idrogeno “low-carbon” e infine a quello verde, una volta che questo sarà disponibile». Non ci voleva dunque molto a capire che l’intenzione del governo fosse quella di utilizzare l’idrogeno verde come un escamotage per finanziare quello blu e di conseguenza dirottare investimenti verso gas e Ccs. Nella proposta di decisione redatta dai tecnici di Bruxelles si legge infatti che, nell’ambito delle consultazioni successive alla trasmissione del Pnrr, si è resa necessaria «un’attenzione particolare» su alcune misure, tra cui l’idrogeno, per le quali sono state richieste «prove e impegni specifici per dimostrare che non porteranno a danni significativi» sull’ambiente.

La pressione della Commissione sul governo ha fatto sì che quest’ultimo mettesse infine nero su bianco che «gli investimenti nell’idrogeno saranno limitati all’idrogeno verde e non conterranno idrogeno blu né coinvolgeranno il gas naturale». Non a caso, i finanziamenti previsti per i settori “hard-to-abate” sono stati ridimensionati ad «almeno 400 milioni», circa un quarto di quelli previsti. Parole che non avranno fatto piacere ad Eni, che ambiva ad accaparrarsi fondi per il progetto di Ravenna e per produrre idrogeno blu nelle sue raffinerie ormai sempre più in difficoltà. Non c’è però molto da stare tranquilli. C’è ad esempio il fondo per Importanti progetti di interesse comune europeo (Ipcei), dove l’idrogeno è protagonista assoluto, e che al momento non fa distinzioni di colore. Esistono poi gli Accordi per l’innovazione, ovvero sovvenzioni pubbliche alle imprese a cui il Fondo complementare al Pnrr alloca 1 miliardo di euro, che sono svincolati dai requisiti europei. Così come il Fondo per l’innovazione europeo, a cui Eni ha già candidato il proprio progetto di Ccs di Ravenna. Insomma, le vie del gas sono infinite, e anche quelle del Cane a sei zampe.

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