Siamo abituati al fatto che i deliri negazionisti del cambiamento climatico di personaggi onnipresenti in televisione, sui giornali, tra le stories del Pd che incita goffamente a ignorarli siano parte del dibattito pubblico.

Siamo abituati agli sproloqui di vecchi giornalisti che inveiscono contro Greta Thunberg e contro qualsiasi forma di protesta per il riscaldamento globale, ai programmi radiofonici ascoltati da centinaia di migliaia di persone che demonizzano il dissenso giovanile, ridicolizzando realtà come quella di Ultima generazione, parlando di eco-vandali ed estremismo green.

«Consiglio la lettura soprattutto ai talebani del green», scrive Nicola Porro a proposito di uno dei tanti articoli pubblicati sul suo blog che smontano la narrazione ecologista e catastrofista contemporanea, colpevole di gettare il panico in una situazione perfettamente sotto controllo.

L’ecologia, insomma, non è roba per la destra italiana con i suoi intellettuali organici, che alle auto elettriche preferisce quelle tradizionali, che alla carne sintetica preferisce una cara vecchia bistecca e che, a chi imbratta i monumenti per capriccio, preferisce chi tutela il patrimonio artistico e la tradizione, quella che promuove con grandiose campagne in stile Open to Meraviglia.

Dall’altro lato, il cliché vuole che l’ecologia sia retaggio di una certa cultura new age. Cibo biologico, abiti equi e solidali, lana cotta, fricchettoni con i fiori nei cannoni, vegani che rompono le scatole alle grigliate di Pasquetta, negozi che emanano forte odore di patchouli.

I movimenti come Fridays for Future ed Extinction Rebellion hanno dato una nuova linfa all’immaginario ambientalista, aggiungendo un elemento di protesta giovanile e di rabbia per la poca reattività delle istituzioni nei confronti di un tema così fondamentale, ma restando comunque nel campo semantico del progressismo.

È quel che viene più semplice e intuitivo credere. «Considerare l’ecologia un sistema ideologico progressista e di sinistra è un bias cognitivo», scrive Francesca Santolini, giornalista scientifica esperta di temi ambientali, nel suo saggio Ecofascisti pubblicato di recente da Einaudi.

Ed è un percorso sorprendentemente rivelatore, quello che traccia nella ricostruzione dei rapporti tra l’estrema destra e l’ecologia: nonostante gli stereotipi dentro cui costruiamo le nostre convinzioni, l’idea che l’ambiente possa essere usato da una fazione politica che in apparenza non solo non ha alcun interesse, ma, al contrario, si fa forte del suo machismo antiecologista è molto più sensata e pericolosa di quanto si possa pensare.

Partiamo da un presupposto lontano, un immaginario che conosciamo attraverso la storia che studiamo a scuola, i film, i racconti, le giornate della memoria: «Per quanto possa sembrare incredibile, gli “ecologisti” nazisti trasformarono l’agricoltura biologica, il culto della natura e di temi correlati in elementi chiave non solo della loro ideologia ma anche nelle loro politiche di governo», scrive Santolini.

Blut und Boden, sangue e suolo, il motto nazista che sintetizza l’idea di purificazione della razza anche attraverso un ritorno alle origini, in simbiosi con la natura, tra misticismo romantico e difesa del proprio territorio, potrebbe sembrare distante anni luce da una concezione contemporanea dell’ecologia in termini di difesa dell’ambiente.

Nessuno farebbe mai un’associazione mentale tra il Terzo Reich e i supermercati NaturaSì, nessuno direbbe che la difesa della natura potrebbe essere una scusa per difendere i confini, la razza, la propria nazione e la superiorità di un popolo eletto. Sono immaginari distanti, che nella nostra visione del mondo hanno poco a che vedere l’uno con l’altro, la difesa della razza e la difesa della respirabilità dell’aria, degli ecosistemi, dello sfruttamento degli esseri umani per la produzione, quella degli animali per l’allevamento intensivo. Eppure, la ricerca che troviamo nel saggio di Santolini dimostra che non è così.

Sangue e suolo

Se da un lato abbiamo una destra che perpetra il negazionismo delle origini antropiche del cambiamento climatico, facendo leva sul sollevamento delle responsabilità umane di tale evento e usando questi temi per fare propaganda – pensiamo anche solo a Matteo Salvini e alla sua difesa di casa e macchina, come se l’obiettivo dell’ecologia fosse strapparle dai cittadini – dall’altro esiste un movimento che si estende nel tempo, che affondava le sue origini in teorie tardo ottocentesche, e al quale oggi possiamo dare il nome di ecofascismo.

Il verde dell’ecologia che incontra il nero dell’estrema destra: difendere il rapporto tra la natura e l’uomo in chiave nazionalista, protezionista, sovranista e razzista. Fare ecobordering, ossia chiudere le frontiere ai migranti che mescolano le razze e vengono a esaurire le nostre risorse ambientali, negare di conseguenza la realtà dell’immigrazione climatica, condannare chi pratica il nomadismo in quanto privo di radici, trascurare le relazioni strutturali tra temi climatici e modello di sviluppo capitalista in favore di una ideologia reazionaria e protezionista che abbia come obiettivo quello di pensare solo alla salvaguardia del proprio orto, sia letteralmente che metaforicamente.

Invece di attribuire la questione climatica al consumo eccessivo delle risorse naturali da parte dei paesi più ricchi del mondo, come fa la comunità scientifica all’unanimità, l’ecofascismo, che più che un movimento organizzato è una modalità organizzativa, sposta l’attenzione sulla difesa dei suoli nazionali, della purezza del sangue, ancora una volta Blut und Boden.

In Italia

L’ecofascismo è un laboratorio dentro cui si possono riversare frange verdi di destra del Rassemblement National francese, o del British National Party, dell’alt-right americana che brulica nei forum e nel sottobosco trumpiano, nel partito spagnolo Vox o nel manifesto di un suprematista bianco come il responsabile dell’attentato di Christchurch in Nuova Zelanda o in quello del terrorista di El Paso che ha ucciso ventitré persone per difendere i confini statunitensi dall’invasione messicana, minaccia per le persone e per l’ambiente.

In Italia l’ecofascismo sembra ancora molto distante dalla vulgata di destra che vede il green come un pericolo talebano e gli attivisti come dei pagliacci da usare per nutrire flame televisivi o radiofonici, tra ragazzini che bloccano il traffico e vernice sulle statue contro cui inveire.

Eppure, qualcosa in comune tra questo universo verde-nero e la nostra destra c’è: sentir parlare di difesa dei confini, di chiusura nei confronti della migrazione intesa come invasione – e non come un’emergenza, anche di tipo climatico – e di difesa del suolo nazionale in termini esplicitamente xenofobi e complottisti è all’ordine del giorno.

Finché la difesa della macchina e dei combustibili fossili sarà strumentale per fare propaganda politica, l’avanzare dell’ecofascismo potrebbe essere lontano. Cosa succederà invece quando la questione climatica diventerà davvero un tema che non si potrà più ignorare, e dunque facile da strumentalizzare, a prescindere dal proprio orientamento politico?

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