Stiamo per affrontare nuove elezioni. Non c’è momento più importante per esaminare quali risposte offrano coloro che aspirano a guidare il paese di fronte alle difficoltà nelle quali versa il territorio italiano, ma per giudicarli dobbiamo chiarirci su quale sia il problema.

Gli eventi degli ultimi mesi possono allarmare, ma non dovrebbero stupire. Da anni sappiamo che le temperature estive medie sarebbero aumentate e che gli eventi estremi si sarebbero fatti più frequenti. In Europa, per nostra sfortuna, questi cambiamenti climatici sembrano essere più profondi che nel resto dell’emisfero. Nel Mediterraneo lo sono ancora di più. Secondo gli scenari dei modelli climatici, le anomalie del 2022 rischiano di essere la quasi normalità del 2040.

La siccità in Italia è rappresentata dai sintomi più impressionanti della scarsità d’acqua: i fiumi in secca. Ma è importante ricordare che quanto vi scorre è la differenza tra due volumi enormi: ciò che precipita – ogni anno, circa 300 miliardi di metri cubi di acqua cadono sul suolo italiano – e ciò che evapora o traspira dalle piante.

Infatti, poco meno della metà di ciò che piove viene intercettato prima che arrivi in falda o nel fiume, evaporando e traspirando dagli ecosistemi forestali e agricoli che coprono il 90 per cento del territorio italiano.

Poca acqua, troppa acqua

Dati questi numeri, una diminuzione della pioggia o un aumento di evapotraspirazione può avere un impatto enorme. Quest’anno, sono successi entrambi: le precipitazioni sono sotto la norma, e l’alta temperatura ha aumentato l’evaporazione e la traspirazione, spingendo gli agricoltori a irrigare più del solito e seccando i fiumi.

La siccità poi aumenta la pericolosità di eventuali inondazioni. Quando un territorio è molto secco il suolo può diventare più compatto. In quelle condizioni, l’acqua di forti temporali estivi, invece di essere assorbita dal terreno, gli scivola rapidamente sopra come su asfalto, con risultati che possono essere catastrofici come si è visto nei giorni scorsi nel bresciano.

La soluzione tecnica

Dal punto di vista tecnico la soluzione è una gestione diversa del territorio agricolo e boschivo e delle sue risorse: investimenti in agricoltura di precisione per ridurre la quantità d’acqua usata, una transizione a varietà meno idrovore, una gestione forestale mista che possa meglio regolare il deflusso.

Sono inoltre necessari una riforma del sistema di licenze in modo da adattarla a un clima più variabile, e investimenti in maggiore stoccaggio (bacini di raccolta e dighe) per sostituire quello storico dato da nevi e ghiacciai.

La soluzione tecnica si traduce però in un problema politico, poiché tutti questi interventi si traducono in una trasformazione importante del nostro paesaggio. La superficie del paese è di circa 30 milioni di ettari. Di questi, 16 milioni sono agricoli (di cui 12 coltivati), 11 milioni sono foreste e boschi, mentre solo circa 2 milioni sono sviluppati tra città, infrastrutture e aree industriali. Aumentare la nostra sicurezza idrica significa quindi intervenire sulla gestione di tutto il territorio italiano.

Pubblico e privato

Le amministrazioni pubbliche, principalmente quelle locali, possiedono circa tre milioni di terreni boschivi e meno di un milione di terreni agricoli. Il resto è in mano a individui ed enti privati di varia natura.

Il problema centrale, quindi, è il patto civico tra i bisogni di sicurezza sociale ed economica della collettività e i diritti dei proprietari, regolati da un centinaio di autorità nazionali (tra ministeri, dipartimenti e agenzie), regioni, centinaia di comunità montane e oltre 8.000 municipalità. Qui non si tratta semplicemente di trovare qualche capitolo di spesa per il territorio. Bisogna ripensare la nostra relazione con esso.

In febbraio, il parlamento italiano ha emendato gli articoli 9 e 41 della Costituzione della Repubblica. Secondo la nuova versione dell’articolo 9, oltre al paesaggio e al patrimonio storico-artistico, la Repubblica dovrà tutelare anche l’ambiente, la biodiversità, gli ecosistemi e gli animali, il tutto nell’interesse di future generazioni. Per il nuovo articolo 41, nuovi limiti all’iniziativa privata riflettono una giurisprudenza consolidata sulla tutela di ambiente e salute.

La Costituente

La gestione del territorio ha sempre stimolato una competizione di interessi. Quando, durante la Costituente, Concetto Marchesi e Aldo Moro presentarono la loro proposta di articolo 9, in commissione si aprì un dibattito acceso su due temi.

Il primo fu su quale istituzione avesse le responsabilità di tutela del paesaggio, se lo stato o la Repubblica. Non era questione semantica: invocando la Repubblica si investivano di responsabilità regioni ed enti locali. Il secondo tema riguardò quale termine usare: proteggere, vigilare, o tutelare? La scelta di usare “tutela” invece che “protezione”, come originariamente proposto da Moro e Marchesi, rifletté il desiderio di calibrare il ruolo dell’amministrazione pubblica, che non era semplicemente di definire ciò che andava protetto ma di governare la tensione tra benefici collettivi e diritti individuali.

I costituenti sapevano che la gestione del territorio è un esercizio di potere. Richiede una visione chiara del ruolo dello stato e della sua relazione con i privati. La riforma di febbraio di quest’anno ha, in apparenza, adeguato la carta costituzionale a un ambientalismo europeo diffuso, benigno, che riflette società ricche, affascinate da un’estetica della natura, ma sostanzialmente privo di contorni affilati. Pochi si saranno resi conto di aver costituzionalizzato un problema ben più complesso.

Se il clima del sud Italia convergesse su quello attuale del nord Africa, il problema di tutelare la biodiversità e gli ecosistemi autoctoni diventerebbe drammatico, poiché questi non riuscirebbero a sopravvivere a condizioni climatiche radicalmente diverse.

Ma la tutela della biodiversità intersecherebbe anche l’urgenza di ingegnerizzare il paesaggio per preservarne la produttività economica, la stessa urgenza che oggi investe la gestione dei fiumi del nord. La riforma ha costituzionalizzato il problema della sicurezza idrica italiana.

Torniamo quindi alle elezioni prossime. Nell’Allegoria del buono e del cattivo governo, uno dei primi, straordinari esempi di pittura laica medievale, Ambrogio Lorenzetti rappresenta il governo come un vecchio in trono – una personificazione dello stato che ricorda il famoso frontespizio del Leviatano di Hobbes di tre secoli più tardi. Circondato da virtù e accompagnato dalla Giustizia, amministra su due possibili mondi.

Il buono e il cattivo governo

Il buon governo, su un lato della sala affrescata, produce una città ordinata di attività commerciali e, oltre le mura, un paesaggio rurale disciplinato, con campi demarcati, frutteti e una foresta dietro le colline.

Per contro, gli effetti del cattivo governo sul lato opposto sono quelli di una figura mostruosa, un tiranno in trono, demone cornuto che trascina ciecamente la città verso la rovina e il paesaggio verso un abbandono incolto e pericoloso.

L’obiettivo del buon governo, allora come oggi, è la sicurezza della nostra vita ordinaria, inseparabile dalla condizione del territorio. Compito della Repubblica – compito della politica – è di trovare strumenti che possano guidarne la gestione. Non basta dichiararsi ecologisti o invocare l’agenda ambientale. Bisogna saper negoziare la tensione profonda tra i princìpî di sussidiarietà che accompagnano questi temi e la tendenza a degenerare in un localismo egoista e cieco, tra la centralizzazione di decisioni strategiche e il rischio di non comprendere istanze locali.

Ci aspettano scelte difficili, una competizione tra valori, tra la tutela del passato e la sicurezza del futuro, tra la protezione della biodiversità e l’assistenza alle attività produttive. Saranno scelte forti, che richiederanno una classe politica capace di spiegarne la legittimità, ed una cittadinanza vigile e ingaggiata. Vale la pena ricordarlo in tempo di elezioni.

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