Buongiorno, avete trascorso una buona Giornata della Terra? Cosa avete fatto? Cosa significa per voi? Parliamone!

«Act or Die»

L’Earth Day nasce nel 1970 negli Stati Uniti, fu la prima grande giornata di mobilitazione contro la devastazione ecologica e l’inquinamento. Pochi anni prima era uscito Primavera silenziosa, di Rachel Carson. Erano gli anni in cui la contestazione politica di fine anni Sessanta iniziava a includere la protezione degli ecosistemi: ogni volta che celebriamo la Giornata della Terra celebriamo anche l’atto fondativo dell’ambientalismo contemporaneo.

Ho rivisto questo video di Walter Cronkite, giornalista che era anche «l’uomo più fidato d’America», nello speciale andato in onda la sera del 22 aprile 1970. Ve lo consiglio, è istruttivo. «Act or die», «agire o morire», dice Cronkite in apertura.

Quel giorno la Cbs di Cronkite e la Abc dedicarono praticamente l’intera giornata di programmazione all’Earth Day, con una serietà, una chiarezza e una sobrietà che viste da oggi sono ancora una lezione importante da imparare. La conseguenza fu reale, un’intensa stagione di riforme: la creazione della Environmental protection agency, il Clean air act, il Clean water act, leggi all’epoca all’avanguardia. Questa storia ci insegna il potere delle mobilitazioni di massa, dell’informazione, degli smottamenti culturali che cambiano la società.

Il punto della Giornata della Terra non è solo la Terra, siamo anche noi e il nostro potenziale di cambiamento. Come sempre, ma questa settimana un po’ di più: si può fare, non siamo affatto condannati.

Parigi e oltre, verso il futuro

Parliamo, per esempio, di traiettorie, di aumento della temperatura, di futuro.
Stiamo facendo troppo poco? È vero.
Non stiamo facendo niente? Non è vero.
È sempre utile ricordare che, prima della mobilitazione degli anni Dieci stavamo correndo verso un aumento della temperatura di 4°C entro fine secolo. Un pianeta che ci avrebbe bolliti vivi. Oggi diamo quasi per scontata la correzione dell’accordo di Parigi, al punto che ci sembra più una storia di promesse mancate che una vittoria, ed è vero, ma solo in parte.

Senza quel trattato firmato nel dicembre 2015 le nostre possibilità come specie in grado di sopravvivere attraverso le generazioni sarebbero molto più esigue. Quasi nulle. Era un momento «act or die», per dirla con le parole di Cronkite, e abbiamo agito. È un accordo da vigilare, ma anche una vittoria da custodire, quando le voci dentro la nostra testa o fuori dalla nostra testa ci dicono che è tutto inutile, che abbiamo già perso. Ripetiamo insieme: non è vero. Anzi, non c’è niente di più falso.

L’ansia che sentiamo non viene dalla certezza della condanna, ma dalla possibilità reale e concreta, a portata di mano e di futuro, di farcela. A tal proposito è uscito su Nature uno studio promettente: gli impegni attuali, presi dopo la Cop26 di Glasgow, potrebbero già così tenerci sotto (appena sotto, ma sotto) un aumento di temperature di 2°C. L’obiettivo primario e più desiderabile (riscaldarci di «appena» 1.5°C) è ancora fuori dalla nostra portata, ma i dati di questa ricerca ci dicono che la forbice si sta in qualche modo chiudendo, nonostante tutto.

Ovviamente, questo è vero se quegli impegni messi su carta saranno rispettati. Il problema non sono tanto quelli a breve termine (che ormai sono piuttosto dettagliati) ma quelli a lungo termine, gli annunci di net zero al 2050 (Europa, Usa), 2060 (Cina), 2070 (India), che tendono a essere ancora vaghi e difficili da verificare. In sintesi: c’è ancora tantissimo lavoro da fare, a livello individuale, nazionale, globale, ma il mondo di questa Giornata della Terra è già molto diverso dall’Earth Day del 2014, o del catastrofico 2009 della Cop più deprimente (Cop15, Copenaghen).

Early warning e adattamento: il disastro in Sudafrica

Poi c’è ovviamente la realtà avversa, quella degli eventi climatici estremi. Siamo inevitabilmente distratti dal conflitto in Ucraina, che ha risucchiato quasi ogni residua capacità di attenzione, ma il mondo è ancora una punteggiatura di catastrofi, un rumore bianco di morti e sfollati che non riescono nemmeno a entrare nel nostro campo visivo.

L’epicentro di questa settimana è il Sudafrica. «Siamo una nazione in lutto», ha detto il presidente Cyril Ramaphosa nel dichiarare lo stato di emergenza. Un’ondata di piogge torrenziali ha colpito la provincia orientale del KwaZulu Natal, affacciata sull’Oceano Indiano, stretta tra gli stati di Lesotho e Eswatini. È uno dei disastri naturali peggiori che abbiano mai colpito il Sudafrica: la conta delle vittime ha superato i 440 morti, ma si sta ancora scavando per recuperare corpi. Ci sono migliaia di sfollati, sono crollate le infrastrutture, il porto della città di Durban si è ritrovato paralizzato.

Sono caduti in poche ore, nel picco della tempesta, tra 300 e 400 mm di pioggia, quando, nel mese di febbraio, di solito il più umido da queste parti, si arriva a 100. La metà della pioggia che cade in un anno è arrivata in poco meno di due giorni.

Il disastro del KwaZulu Natal è una storia di vulnerabilità e adattamento. L’Africa meridionale è stata colpita da una sequenza tremenda di eventi estremi in questa prima parte di 2022: tempeste in serie che in pochi mesi hanno fatto centinaia di morti in Malawi, Mozambico, Madagascar.

World weather attribution, l’organizzazione scientifica che analizza quasi in tempo reale gli eventi estremi per verificare se ci sono collegamenti causali col riscaldamento globale, l’11 aprile aveva comunicato che la concentrazione di gas serra nell’atmosfera può essere ritenuta responsabile per l’aumento dell’intensità delle precipitazioni in Africa di questi mesi. In particolare, l’anomalia climatica più evidente riguardava il ciclone Ana, il primo a colpire questi paesi dell’Africa sud-orientale, un evento con un tempo di ritorno (e quindi una rarità) di una volta ogni cinquanta anni, in un clima normale.

Sugli eventi del Sudafrica, invece, dobbiamo ancora attendere i risultati dell’analisi del World Weather Attribution, che arriveranno tra settimane o mesi. (Questo è «tempo reale» sulla scala dell’analisi dei cambiamenti climatici).

Il continente africano supera di poco il 3 per cento delle emissioni globali ma ha pagato in questi mesi la tassa più alta alle conseguenze dei cambiamenti climatici. Non è solo una questione di geografia e di pattern meteorologici, ma anche di comunità non ancora pronte all’impatto, che hanno bisogno di più fondi e risorse per prepararsi a catastrofi che sono ormai la regola e non l’eccezione. «Dobbiamo ricostruire, e dobbiamo ricostruire meglio», ha detto Nkosazana Dlamini Zuma, ministra sudafricana della Cooperazione, «Nessuno dovrà più tirare su case accanto al letto dei fiumi e nelle piane alluvionali, sono aree non più sicure per i residenti».

Il punto è che non si dovrà solo ricostruire quello che è stato distrutto, ma anche ricostruire quello che non è stato ancora distrutto. Quando i paesi più ricchi non riescono ancora a rispettare le promesse del Green climate fund, i famosi 100 miliardi di euro all’anno per la transizione e l’adattamento dei paesi più vulnerabili, parliamo esattamente di questo. La preparazione a un presente di instabilità climatica deve tenere il ritmo della crisi, e per farlo servono fondi.

Un primo moltiplicatore dei danni è stato la fragilità degli insediamenti informali del KwaZulu Natal. Il secondo è la mancanza di efficienti sistemi di allerta precoce, che rappresentano una delle grandi sfide per l’adattamento globale all’emergenza climatica. Secondo i dati dell’Organizzazione meteorologica mondiale solo la metà dei 193 paesi membri dell’Onu ha un early warning system di questo tipo contro gli eventi estremi. L’obiettivo quindi è dotare ogni singolo paese della Terra di tecnologie di allarme climatico entro il 2028, per arrivarci serve un investimento da due miliardi di dollari. Non saranno la soluzione a tutto: il Sudafrica è infatti tra i paesi dotati di un sistema di allerta, ma per le tempeste del KwaZulu Natal non è scattato in tempo, perché non ha funzionato il coordinamento tra dati e modelli dei centri di ricerca internazionali e gli enti di protezione civile locale.

Non servono solo le tecnologie, servono anche anni di formazione e preparazione per far sì che gli strumenti funzionino: è uno dei tanti motivi per cui l’adattamento (e relative risorse economiche) non possono aspettare.

«Ipocrita» contro «scettica»: le elezioni in Francia e il clima

Il 24 aprile si vota per il secondo turno delle elezioni francesi. Macron ha definito Le Pen una «scettica climatica», Le Pen ha definito Macron «ipocrita climatico». Jean-Marc Jancovici della Ong francese Shift Project ha definito così la questione da un punto di vista ambientale: «Dobbiamo scegliere tra “molto male” e “ancora peggio di molto male”».

In realtà, qualunque opinione si possa avere di Macron, la sua distanza da Marine Le Pen sulle tematiche ambientali (e non solo) è abissale. Sul piatto della contesa elettorale ci sono 7,7 milioni di voti andati a Jean-Luc Mélenchon, che aveva una piattaforma politica decisamente ambientalista, e 1,6 milioni di voti del candidato ecologista Yannick Jadot. Vediamo le differenze tra Macron e Le Pen per capire che Francia vedremo domenica sera (e cosa Macron ha detto per mettere le mani su oltre 9 milioni di voti di ispirazione ecologista).

L’ambientalismo di Macron

Il suo concetto chiave nella corsa verso il secondo turno, Macron lo ha in realtà preso in prestito proprio dal programma di Mélenchon: «Planification écologique», la pianificazione ecologica coordinata dall’alto.

Nella visione di Macron la pianificazione non sarebbe di competenza di un ministero ad hoc, ma direttamente del primo ministro. Parlando di ambiente, Macron ha usato toni sempre più enfatici in queste due settimane. A Marsiglia, nel comizio più importante prima del ballottaggio, ha detto: «Questa è una scelta di civiltà, io posso fare della Francia una grande nazione ambientalista».

Macron è tra i leader europei che più stanno spingendo per una carbon tax europea sulle emissioni, a Marsiglia ha addirittura detto di voler fare della Francia il primo paese dell’Unione a mettere al bando le fonti fossili. Tra le promesse ci sono gli immancabili milioni di alberi (140 milioni, nello specifico), il piano di sviluppare un’industria francese dell’auto elettrica, l’apertura di cinquanta parchi eolici offshore, la chiusura di cinquanta discariche nei prossimi tre anni, addirittura un collegamento dei bonus degli amministratori delegati alle performance ambientali delle aziende che dirigono. Macron ha anche ammesso che la Francia deve andare al doppio della velocità attuale nella decarbonizzazione per rispettare l’accordo di Parigi (d’altra parte questo glielo aveva già detto il tribunale che ha condannato lo stato francese per inazione climatica nel 2020).

Qualunque sia il vincitore, la Francia rimarrà paese dell’atomo: Macron vuole costruire sei reattori di nuova generazione.

L’ambientalismo di Le Pen

Le Pen ama i gatti ma odia le turbine eoliche: la Francia che ha in mente avrà il freno a mano decisamente tirato sulle fonti rinnovabili di energia, con un bando allo sviluppo di nuovi progetti eolici e fotovoltaici e la dismissione di molti di quelli esistenti. Con i soldi risparmiati, Le Pen vuole abbassare le tasse sulla benzina, dal 20 al 5,5 per cento. In compenso, con una visione un po’ acrobatica dei numeri e delle possibilità reali di farlo, vuole aprire addirittura venti nuovi reattori nucleari. Le Pen vuole uscire dall’accordo di Parigi, ma vuole mettere in discussione il Green deal europeo.

Per il resto, il suo programma (che per la parte nucleare si ispira a Marie Curie o, meglio, ne usa il nome) è un manuale di ecologia di destra, soprattutto con quegli accenti ben marcati sul localismo estremo: nella sua Francia l’80 per cento dei prodotti consumati nelle mense devono essere nazionali. Nei comizi dice di odiare allo stesso modo il globalismo e l’«ecologia punitiva» che deprime lo stile di vita transalpino: «I francesi potranno continuare ad andare in giro in macchina con la famiglia, fare il bagno, godersi la legna nel camino e festeggiare il Natale». Il riferimento è alle polemiche sugli alberi di Natale e il foie gras in alcune delle città amministrate da Europe Écologie-Les Verts.

Scienza e comunicazione: il dibattito prosegue

Da qualche settimana, stimolato dall’uscita della seconda e della terza parte del rapporto Ipcc su adattamento e mitigazione, qui su Areale c’è un bel dibattito in corso sulla scienza e su come può/deve comunicare in modo più efficace l’emergenza in atto.

Da quando abbiamo iniziato a parlarne, un po’ di cose sono successe, in particolare la potente protesta degli scienziati collegati a Extinction Rebellion, che si sono fatti arrestare nel corso di una settimana di mobilitazione globale. È nel frattempo arrivato un altro contributo di una lettrice, Maria Pia Giracca, che ho trovato interessante e che condivido (in una versione un po’ condensata).

«Intendiamoci: il tema del climate change è complesso. Si presta a essere descritto, più che definito. Ma poiché la descrizione dipende dal diverso angolo visuale da cui si pone l’osservatore, occorre dare valore a contributi e metodi di ogni disciplina, inclusa quella giuridica. Penso a un’esperienza che mi piacerebbe duplicare: proporre progetti di musica e arte (che attivano emozioni) legati al tema del climate change e, in tale contesto, diffondere pillole di conoscenza sul cambiamento climatico, semi da portare a casa e piantare, ciascuno nel proprio vaso domestico e locale. Il fine non è “formare il pubblico” ma mettere in circolo il pensiero, attivare processi in cui il pensiero si diffonde. Poi è evidente che la prosecuzione dipende dalla motivazione individuale. “Quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur” (ciò che viene ricevuto in un soggetto, viene ricevuto secondo la capacità che è propria di quel soggetto) lo diceva già quel grande di San Tommaso d’Aquino. Non esistono tempi di evoluzione sincronizzati e non tutti gli esseri umani evolvono secondo ritmi fra loro paragonabili; dunque, non esistono scorciatoie per far crescere una società ecologicamente attenta.

L’illusione è che tutti possiedano uguali motivazioni a diventare delle persone responsabili e dei cittadini attenti all’ambiente, purché vengano loro somministrate le nozioni “giuste”, ma non credo sia così. Per partire occorre, a mio parere, dissipare le illusioni e guardare la realtà, ossia accettare che esistono dei tempi precisi e delle motivazioni personali, che attivano una trasformazione efficace in ogni soggetto. Se il tempo non è maturo, se una motivazione personale non è stata elaborata, nessuno potrà indurre quel soggetto ad aprirsi al cambiamento. Si tratta di accettare che, in fondo a ciascuno di noi, c’è una pigrizia che suggerisce di continuare a percorrere le vie note. Quel piccolo seme di pigrizia (o comfort zone) che sonnecchia in fondo alla nostra anima nutre la pretesa di capovolgere la realtà iniziando dagli altri. Invece, occorre cominciare il processo (che è un percorso dinamico che produce effetti nel tempo) da noi stessi, provando a individuare le mezze verità e gli autoinganni, poi fare un primo passo».

Per questa settimana è tutto, se volete contribuire al dibattito sulla comunicazione della scienza, se volete raccontarmi come avete vissuto le elezioni in Francia, o per qualsiasi altra cosa, scrivetemi a ferdinando.cotugno@gmail.com. Per comunicare con Domani invece la mail è lettori@editorialedomani.it

Buona giornata!

Ferdinando Cotugno

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