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La zuppa, i suv e la sfiducia

È inevitabile che il tema di questa settimana siano le forme della protesta per il clima. La zuppa di pomodoro lanciata dalle due attiviste di Just Stop Oil contro la teca che custodisce I Girasoli di Van Gogh alla National Gallery di Londra rimarrà uno dei momenti più simbolicamente potenti di quest’anno così strano e complicato. Al di là del giudizio, è come se quel gesto ci afferrasse la testa, ce la tenesse stretta e ci ponesse delle domande che non abbiamo più il diritto di ignorare: cosa faremo con tutta questa frustrazione, questa rabbia e questa paura?

I punti di vista che vi consiglio di leggere sono quelli di Tommaso Perrone (nella sua newsletter Il Climatariano), Nicolas Lozito (in un’altra newsletter, Il colore verde), di Fabio Deotto per Fanpage. Coprono tutto lo spettro, loro sono parte costituente del mio personale arco costituzionale della sensibilità ambientale, aggiungono frammenti fondamentali alla comprensione. Io ne ho scritto qui, provando a rispondere a tre domande: se è stata un’azione ben fatta (spoiler: sì), se è legittima (spoiler: certo che lo è), se è utile da un punto di vista politico (ho davvero paura che no).

Però c’è un altro pezzo della storia, me lo hanno suggerito cinquanta suv che nella mattina di mercoledì a Torino sono stati trovati dai proprietari con le ruote sgonfie e un biglietto sotto il parabrezza, che parlava di inquinamento ed emergenza climatica. Il collettivo che ha portato avanti l’azione si chiama SUVversiv3, quello che hanno scelto è un format consolidato, c’è una lunga storia di people Vs Suv, Londra, New York, Parigi, ne parla anche Andreas Malm nel suo libro Come far saltare un oleodotto.

È una piccola storia, però è anche il sintomo di qualcosa: nel 2022 siamo passati progressivamente dalla disobbedienza alla resistenza, mentre sullo sfondo viene corteggiato sempre più apertamente il sabotaggio attivo, a livelli più o meno simbolici ed efficaci. Queste azioni, da Van Gogh ai suv, sono un sintomo che la frattura della sfiducia si sta allargando, sta diventando sempre più condivisa l’idea che tutto sia inutile, i vertici, le policy, i negoziati, le piazze.

È significativo che questa accelerazione avvenga a pochi giorni dalla Cop27 di Sharm el-Sheik, il ventisettesimo capitolo del negoziato Onu per la lotta alla crisi climatica, un vertice che per altro sarà quasi del tutto privo del suo ingrediente fondamentale, la partecipazione della società civile.

Il piano della protesta ha iniziato a inclinarsi proprio dopo la conclusione della Cop26 di Glasgow. Mai un vertice internazionale era stato circondato da tante aspettative, le manifestazioni di oltre 100mila persone a margine di quel vertice erano state il festival della rabbia e della frustrazione, l’epicentro di una nuova società civile globale.

Il vertice alla fine ci aveva consegnato un risultato fragile e poi in parte disatteso: è stato l’inizio del grande scollamento. Non si è persa solo la fiducia nei governi e nei partiti, ma anche negli accordi come quello di Parigi (che ormai l’attivismo nemmeno cita più) o nelle istituzioni sovranazionali come l’Onu. Sta passando un messaggio di disperazione, che è allo stesso tempo comprensibile e pericoloso. Il disfattismo assoluto può essere pericoloso quanto la resistenza dello status quo.

Non è vero che tutto è inutile, ecco. Senza l’accordo di Parigi (frutto di un’altra faticosa Cop, la numero 21) la curva dell’aumento delle emissioni sarebbe stata molto più ripida e oggi viaggeremmo verso l’apocalisse, senza un biglietto di ritorno. Quell’accordo, così imperfetto e necessario, è stato frutto esattamente di quello che le azioni più dirompenti tendono a negare: la fatica del negoziare, del trovare un punto di caduta che sulla scala locale tenga insieme tutti i pezzi della società senza distruggerla e sulla scala globale le esigenze di tutti i paesi.

C’è rabbia, ci sarà sempre rabbia, la rabbia è carburante rinnovabile e non possiamo farne a meno.

Ma abbiamo bisogno di una rabbia che costruisce, non di una rabbia che distrugge.

A proposito: come stanno andando le emissioni?

C’è in ogni caso un problema in come stiamo leggendo la realtà e un buon esempio sono i dati sulle emissioni di CO2 nel 2022 forniti dall’Agenzia internazionale per l’energia (IEA). È come una pagella che ci dice come stiamo andando, se stiamo facendo i compiti o no.

Come stiamo andando, dunque? Meno bene di come dovremmo, ma non male come a volte sembra, sicuramente meglio rispetto al 2021.

Alla fine di quest’anno le emissioni di CO2 da combustibili fossili saranno aumentate dell’1 per cento. Sembra contro intuitivo, ma è una notizia incoraggiante, perché dal 2021 al 2022 le emissioni sono aumentate molto meno di quanto fossero aumentate dal 2020 al 2021 e sono anche aumentate molto meno di quanto ci si sarebbe aspettato nel contesto di una crisi energetica che sembrava una frana sulla transizione. E invece la transizione, ferita e ammaccata, sta reggendo. E sta reggendo grazie alla crescita delle fonti rinnovabili e dell’elettrificazione dei trasporti, che ci hanno risparmiato un aumento molto più drastico. Le soluzioni ci sono e le soluzioni funzionano.

Secondo la IEA, le emissioni nel 2022 sono dunque cresciute di 300 milioni di tonnellate, contro i 2 tragici miliardi di tonnellate di aumento del 2021. È vero, il 2021 era stato un anno particolare, con la ripresa dal Covid, ma nemmeno il 2022 è un anno normale, con la guerra della Russia in Ucraina e il grande panico energetico nel quale siamo tutti a bagno. Nel 2021 la ripresa post-pandemica era stata tutta alimentata da combustibili fossili – petrolio, carbone e gas – e aveva non solo recuperato quanto era stato risparmiato nell’anno dei lockdown ma aveva anche aggiunto del suo. Era stata, insomma, una brutta botta. L’anno scorso di questi tempi stavamo guardando numeri sconcertanti, insomma.

Nel 2022 c’erano gli ingredienti per un altro disastro, e invece l’antidoto –rinnovabili ed elettrificazione – sta piano piano cominciando a funzionare. Non funziona velocemente quanto dovrebbe, lo champagne deve ancora rimanere in frigo, ma per fare un’inversione netta bisogna prima rallentare, altrimenti ci si ribalta, è una legge fisica, e stiamo rallentando, i numeri ci dicono questo. Ora dobbiamo iniziare ad accelerare nella direzione opposta, visto che il mandato della scienza è dimezzare le emissioni entro il 2030, praticamente ormai sono sette anni nei quali in media le emissioni dovrebbero scendere dell’8 per cento ogni anno.

Secondo la IEA, l’aumento delle emissioni nel 2022 sarebbe stato praticamente il triplo, quasi un miliardo di tonnellate, «se non ci fossero stati massicci programmi di sviluppo delle tecnologie rinnovabili e dei veicoli elettrici nel mondo. Anche durante la crisi energetica innescata dall’invasione russa dell’Ucraina, che ha reso il gas più caro e fatto aumentare la domanda globale di carbone, l’aumento relativamente basso delle emissioni di carbone è stato sovrastato dall’espansione delle rinnovabili».

Altro tema, che nel rapporto IEA è solo suggerito, ma che prima o poi dovremmo affrontare in modo strutturale: il legame tra crescita e collasso. Secondo IEA «i trend energetici globali sono stati impattati dalla guerra della Russia, che ha rallentato le aspettative di crescita economica, soprattutto in Europa». Meno crescita, meno emissioni.

La notizia principale rimane però lo sviluppo di generazione elettrica da fotovoltaico ed eolico, che nel 2022 è stato di più di 700 tWh, la più grande crescita anno su anno mai registrata nel corso della transizione. Ha detto il direttore esecutivo della IEA Fatih Birol: «Le emissioni di CO2 stanno crescendo meno velocemente di quanto molti temevano, le policy dei governi stanno portando cambiamenti strutturali nell’economia energetica. Questi cambiamenti accelereranno ancora, grazie ai grandi progetti energetici che sono stati portati avanti negli ultimi mesi».

Siamo in una brutta situazione, la crisi climatica è ancora tutta qui, ma non è vero che non sta succedendo assolutamente niente. Anzi, questi risultati vanno visti, custoditi e sorvegliati.

L’aria che respiriamo fa male

LaPresse

Le nostre città ci stanno piano piano soffocando. L’inquinamento atmosferico sta diventando la più sottovalutata delle emergenze, un disastro umano, sanitario ed economico che continua a rimanere invisibile nel dibattito pubblico. I dati del nuovo rapporto autunnale Mal’aria di Legambiente ci dicono una cosa fondamentale: chi vive in città ogni giorno respira aria illegale, aria che non dovrebbe entrare nei nostri polmoni. Nessun grande centro urbano italiano rispetta i valori prescritti dall’Oms per la tutela della salute, né per il PM10 (15 microgrammi/metro cubo), né per il PM2.5 (5 microgrammi/ metro cubo), né per l’NO2 (10 microgrammi/metro cubo).

Il vero problema è che ci stiamo abituando a percepire questo come un problema cronico, un inevitabile effetto della vita contemporanea, quando è una crisi e come tale andrebbe affrontata. Viviamo in organismi insalubri, le città sono in piena crisi respiratoria e dovrebbe essere il punto fondamentale di ogni valutazione sulla qualità della vita degli esseri umani.

Secondo l’analisi di Legambiente, le città più pericolose da respirare sono Torino, Milano e Padova. A Padova i limiti delle PM10 sono stati sforati già 47 volte quest’anno. A Milano sono stati superati 54 volte. A Torino, che si conferma una delle città più irrespirabili d’Europa, il limite delle PM10 è stato oltrepassato già 69 volte. La soglia da non superare secondo l’Oms è di 35 giorni l’anno: ci si stanno avvicinando Parma (25), Bergamo e Roma (23) e Bologna (17).

Se prendiamo il valore dell’NO2, Milano eccede del 257 per cento i valori massimi suggeriti dall’Oms, seguita da Genova +253 per cento, e Parma, + 97 per cento. La parola chiave, qui, è «cronica». Un’emergenza con la quale siamo abituati a convivere, uno stato di insalubrità che sembra quasi impossibile immaginare di eliminare. Ogni discorso sulla mobilità urbana è innanzitutto un discorso sulla salute delle persone. Il resto viene dopo.

Di smog e particelle sottili si muore. A breve la Commissione europea dovrebbe proporre una nuova direttiva sulla qualità dell’aria: la battaglia delle associazioni che si occupano di questo tema, a partire da quella dei medici per l’ambiente (Isde), chiede che siano recepite pienamente le prescrizioni Oms. Ne riparleremo.

I genitori per il futuro

Una delle grandi sfide del movimento per il clima è l’intergenerazionalità, questa deve smettere di essere la battaglia dei ragazzi e deve diventare la battaglia di tutte e tutti, anche perché, come dice Bill McKibben, è «immorale» lasciare tutto il peso su di loro. Un tassello importante in Italia di questa metamorfosi è il movimento Parents for Future, mi sembra importante tornare a parlare di loro in modo organico, e quindi lascio la parola a Marco Ferrari, genitore e attivista di Tortona.

«Sono un attivista del movimento Parents for Future, genitori e adulti che non possono accettare che il presente e il futuro dei nostri figli e nipoti sia condizionato seriamente da una deriva della crisi climatica. Abbiamo poco tempo, ma sappiamo che non è vero che ormai sia troppo tardi affinché si possa rendere meno “ostile” la vita sulla Terra negli anni a venire. Ogni decimo di grado conta. La comunità scientifica attraverso il VI report Ipcc ha tracciato esattamente il percorso per poterlo realizzare. Transizione ecologica, dimezzamento delle emissioni climalteranti al 2030 e azzeramento al 2050. Ne abbiamo preso atto. Occorre volontà politica e consapevolezza nella gente che il mantenimento del business as usual non sia più una opzione, per concretizzare i provvedimenti necessari. I PFF nascono come “ramo adulto” del movimento “for Future” per rendere intergenerazionale il movimento per il clima. Non possiamo lasciare solamente ai ragazzi il compito di impegnarsi per disinnescare la minaccia climatica. Il nostro ruolo è, in primo luogo, quello di rendere disponibile uno spazio di condivisione per tutti i genitori e adulti che sentono dentro la chiamata all’azione e che hanno piacere di confrontarsi con persone che, come loro, provano le stesse paure, ma anche la stessa profonda energia. Realizziamo questo attraverso numerosi gruppi locali e il gruppo nazionale, che fa da collettore per tutti gli attivisti italiani. Il movimento Parents for Future Italia è inserito all’interno di una rete Global, in cui convergono i vari gruppi nazionali attivi nel mondo».

Chi può ed è interessato, si unisca a persone come Marco. Qui per saperne di più.

Un libro costellazione

Infine, segnalazione di un libro prezioso e pieno di cose. Si intitola Guida rapida alla fine del mondo, lo ha curato Lorenzo Tecleme (tra gli animatori del progetto Destinazione Cop), è stato pubblicato da Castelvecchi. È una miniera di voci, spunti, idee e informazioni, scritto da tante persone che leggo e ammiro, e se hai bisogno di partire da un libro per capire il tutto, questo è un perfetto punto di ingresso, un libro-tutto che in poco più di duecento pagine scatta una fotografia accurata e contemporanea del nostro presente e futuro climatico.

Anche per questa settimana è tutto, ci leggiamo la prossima. Se hai voglia di parlare, scrivimi a ferdinando.cotugno@proton.me (a proposito, se sei un esperto di sicurezza informatica, potrei aver bisogno di parlare con te). Per comunicare con Domani, invece: lettori@editorialedomani.it.

A presto!

Ferdinando Cotugno

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