Dopo 300 udienze, da mercoledì scorso la Corte d’assise di Taranto (due magistrati e sei giudici popolari) è in camera di consiglio per decidere la sorte dei 47 imputati del processo Ambiente svenduto, per i quali sono stati chiesti 390 anni di carcere. È il paradosso della giustizia: la gestione dell’Ilva della famiglia Riva ha coinciso dal 1995 al 2012, gli anni sotto processo, con un immane disastro ambientale. Eppure l’esito del processo è incerto. L’accusa è sicura di sapere ma la giuria deve stabilire se ha le prove. E qualunque sia la sentenza di primo grado, su fatti risalenti fino a un quarto di secolo fa, è difficile dire quanto inciderà sul futuro dell’ex Ilva e di Taranto.

La pubblica accusa ha giocato la carta del maxi-processo. La sentenza dirà se è stata una strategia processuale azzeccata. All’inizio del processo, sull’onda delle denunce delle associazioni ambientaliste, delle indagini del pool guidato dall’allora procuratore capo Franco Sebastio e di un incidente probatorio che vede gli indagati in grande difficoltà, tanto da spingerli a cambiare i difensori, l’accusa ha il vento in poppa. Il braccio di ferro tra magistratura e acciaieria dura da oltre quarant’anni. Già nel 1982 Sebastio fa condannare Italsider, Cementir e Idrocalce, ancora pubbliche: contesta l’articolo 674 del codice penale (getto pericoloso di cose) e si avvale di una perizia chimica secondo cui le polveri emesse dalle industrie sono “motivo di molestia e disturbo” per via della loro sedimentazione “abnorme” in determinate zone della città. Attorno allo stesso reato ruotano le due condanne passate in giudicato di Emilio Riva (scomparso nel 2014) e Luigi Capogrosso, nel 2004 e nel 2007, per le emissioni delle cokerie: per l’accusa sono la prova che lo stabilimento, grande due volte e mezzo la città, ha stabilmente un impatto ambientale devastante.

L’associazione a delinquere

Con Ambiente svenduto la procura alza il tiro e contesta ai principali imputati, oltre al 674, l’associazione per delinquere (416 codice penale): Nicola e Fabio Riva, i due figli di Emilio, l’avrebbero costituita insieme al direttore Capogrosso, al responsabile relazioni esterne Girolamo Archinà, all’avvocato Francesco Perli e a cinque manager “fiduciari” per commettere i delitti contro la pubblica incolumità previsti dagli articoli 434 (crollo di costruzioni o altri disastri dolosi), 437 (rimozione o omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro) e 439, il più grave (avvelenamento di acque o sostanze alimentari, cioè dei mitili del “primo seno” del Mar Piccolo, dei terreni circostanti l’acciaieria e degli ovicaprini che vi pascolavano), nonché «delitti contro la pubblica amministrazione e la fede pubblica, quali fatti di corruzione, concussione, falsi e abuso d’ufficio»: l’associazione avrebbe consentito all’acciaieria di continuare a produrre senza averne i requisiti, cagionando «eventi di malattia e morte nella popolazione residente». Per gli associati sono state chieste pene fino a 28 anni di carcere. Tra i politici imputati ci sono l’ex presidente della Puglia Nichi Vendola (5 anni) e l’ex presidente della Provincia di Taranto Giovanni Florido (4 anni), accusati entrambi di concussione, il primo nei confronti dell’allora direttore di Arpa Puglia, Giorgio Assennato, a sua volta imputato di favoreggiamento (1 anno) per aver negato di aver subito la concussione.

Alla base dell’accusa ci sono due perizie di tecnici, quella chimico-ambientale e quella medico-epidemiologica: per i pubblici ministeri provano che l’acciaieria sparge sostanze cancerogene come benzo(a)pirene, diossine e pcb che ogni anno uccidono 30 persone e provocano centinaia di casi di gravi malattie, anche pediatriche. Con i propri consulenti la difesa ha attribuito alle perizie gravi errori metodologici e ha chiamato in causa altre attività inquinanti della zona, assumendo che i veleni individuati non corrisponderebbero a quelli prodotti dall’Ilva. Il pm ha reagito indicando ai giudici popolari i consulenti della difesa come «prezzolati stregoni che sono venuti a portarvi formule magiche».

Un botta e risposta senza esclusione di colpi: per l’accusa nel 1995 lo stato ha venduto l’Ilva a prezzo di saldo (1.460 miliardi di lire) a un’associazione per delinquere; per la difesa, in quel momento il gruppo Riva è il più importante gruppo siderurgico italiano che rileva uno stabilimento con perdite dai due ai quattromila miliardi l’anno. Per l’accusa, sotto la gestione pubblica lo stabilimento era un colabrodo di emissioni, per cui i compratori avrebbero dovuto spegnere gli impianti e rifarli da capo; la difesa oppone che il contratto vincolava la nuova proprietà, con penali miliardarie, a mantenere i livelli produttivi e occupazionali. L’accusa, forte della relazione del custode giudiziario dell’Ilva Barbara Valenzano, dice che la gestione Riva «non ha fatto niente» infischiandosene dell’ambiente; la difesa risponde con una consulenza che attesta investimenti ambientali per 1,2 miliardi di euro. Il 5 luglio 2019 una sentenza del gup di Milano, passata in giudicato, ha confermato quegli investimenti, e i dati Arpa citati nella memoria difensiva di Capogrosso dimostrarebbero che le emissioni erano diminuite.

“Tutto o niente”

I pm hanno giocato la carta del “tutto o niente”, sostenendo che «gli imputati erano animati da dolo intenzionale diretto all’evento del reato, che è il disastro; poi ci può essere anche un altro fine, quello di produrre acciaio, quello di produrre reddito, ma non influisce affatto sulla esistenza del dolo intenzionale, che era proprio quello del disastro». Un affondo teso a mettere sotto pressione i giudici che i difensori hanno stigmatizzato come la richiesta di una professione di fede. Al contrario Pasquale Annicchiarico, difensore dei Riva, ha scelto un registro complice, per poi dedicare passaggi al vetriolo a Valenzano («volete fare come il pm? Costruireste la vostra casa sulla Valenzano? È una pasticciona») e ad Antonio Misurale, il tecnico teste chiave dell’accusa per dimostrare che Ilva truccava i dati sulle emissioni, definito «un mentitore seriale» [1], [2], [3], [4].

Le parti semplificano i concetti per suggestionare i giurati che dovrebbero invece risolvere complesse questioni giuridiche, districarsi tra una valanga di intercettazioni (messe in discussione nel dibattimento) e valutare le decine di sentenze del Tar [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8] con cui la difesa vuole dimostrare che i Riva non dettavano alla politica provvedimenti su misura.

Nella Corte d’assise si replica anche l’antico duello tra industrialisti e anti-industrialisti: così mentre negli interventi dei pm la locuzione «inquinavano per il profitto» è stata un tormentone, le difese hanno replicato che il profitto «non è lo sterco del diavolo», richiamando la sentenza della Corte costituzionale n. 85 del 2013, che chiede «un ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, in particolare alla salute (art. 32), da cui deriva il diritto all’ambiente salubre, e al lavoro (art. 4), da cui deriva l’interesse costituzionalmente rilevante al mantenimento dei livelli occupazionali e il dovere delle istituzioni pubbliche di spiegare ogni sforzo in tal senso. Tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri». In quella Corte c’erano Sergio Mattarella e Marta Cartabia.

Tutto come prima?

E adesso? Che impatto potrà avere la sentenza? Lo avrà sulla vita degli imputati – il processo ha già prodotto effetti irreversibili, dall’uscita di scena dei Riva alla fine politica di Nichi Vendola – più che su quella dei tarantini: l’acciaieria continua a inquinare, ma è al collasso (produzione a picco, 100 milioni al mese di perdite) e il ritorno dello stato-imprenditore sembra un tuffo a corpo morto e a fondo perduto in un buco nero. La road map degli interventi sullo stabilimento vive ancora tra deroghe e rinvii. Gli infortuni sul lavoro sono proseguiti e i dati sull’inquinamento e la mortalità a Taranto sono da pelle d’oca: pochi giorni fa Peacelink ha presentato uno studio secondo cui, confrontando il dato dei quartieri di Taranto più esposti all’inquinamento con quello regionale, nel 2019 si sono registrati 181 decessi più di quanto ci si attendesse.

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