Fai questo viaggio con me: dura poche righe, ci porta lontano. Siamo nella troposfera, dove vivono tutti gli esseri viventi. Saliamo: a circa 4 chilometri verso l’alto incontriamo un condor delle Ande, saluta. Da qui in poi siamo tra i cirri, nuvole sottili, biancastre, fatte di cristalli, sono come seta. A 8 chilometri dal livello del mare inizia la zona della morte, dove non c’è più abbastanza ossigeno per noi per vivere.

Poco più su c’è l’altitudine dove tipicamente scoppiano i palloncini che ci scappano di mano, poi ancora su, a 11mila metri, dove uno Space Shuttle raggiunge il massimo della pressione aerodinamica. Due chilometri più su incontriamo la corrente a getto, tieniti, perché quella va a 450 chilometri orari, e poi su, ora siamo nella stratosfera.

A 18mila metri superiamo il “limite di Armstrong”, dove la pressione atmosferica è così bassa che puoi bollire l’acqua alla temperatura del tuo corpo, ma dove succede la stessa cosa alla tua saliva o alle tue lacrime, non ci andare se sei triste o innamorata. La luce è bellissima e rossastra, non c’è più molto di umano qui, solo palloni spia e pochi aerei da pionieri, fra poco comincia il buio.

A 33mila metri è il punto massimo dove arrivarono le ceneri dell’esplosione del Vesuvio che distrusse Pompei, ora passiamo velocemente nella mesosfera, il suono viaggia il 15 per cento più lento e la pressione è l’1 per cento di quella al livello del mare, siamo nella zona delle misteriose nubi nottilucenti, le più alte dell’atmosfera, visibili dopo il tramonto, quando sono illuminate dalla luce del Sole da sotto l’orizzonte.

Siamo lontanissimi da casa, dove la maggior parte delle meteore si bruciano e solo un migliaio di umani sono stati, ed eccoci qui, alla linea di Kármán, il nostro confine verso l’alto, qui finisce la nostra casa, ladies and gentleman we are floating in space, direbbero gli Spiritualized. Siamo arrivati fin qui perché oggi celebriamo la Giornata della Terra: l’ambientalismo è questa cosa qui, una forma di ostinata e talvolta riluttante monogamia col nostro strano pianeta, perché non abbiamo nessun altro posto dove stare.

Questo è il numero 119 di Areale, il terzo Earth Day che celebriamo insieme, come stai?

L’orsa maggiore

VWPics via AP Images

Dobbiamo tornare a parlare di JJ4, e di tutta la tossicità della conversazione nella quale siamo immersi, e di quanto ci porta lontano dall’unico obiettivo ragionevole: l’equilibrio tra l’umano e il non umano nelle aree interne e sulle montagne italiane.

Questa è la settimana in cui l’Italia ha scoperto cos’è un animale carismatico. Al di là delle linee di frattura politica, e di quello che ci racconta del contesto italiano la morte di Andrea Papi ucciso dall’orsa sui sentieri del monte Peller, siamo straziati da ogni possibile esito perché nell’orsa vediamo qualcosa di noi: proiettiamo le nostre dinamiche familiari, personali, JJ4 ci ispira idee di protezione, maternità, libertà, orgoglio. E questo ci confonde, anche se è inevitabile.

Le specie carismatiche sono sempre state una leva fondamentale nella conservazione: un orso ci sembra più importante di uno stambecco, che ci sembra più rilevante di un tasso, e tutti ci sembrano più importanti di 5 milioni di uccelli uccisi illegalmente in Italia ogni singolo anno (2,9 milioni di fringuelli, 1,8 milioni di capinere, 1,6 milioni di quaglie, 1,2 milioni di tordi), per non parlare dei 170mila polli che saranno macellati nel tempo che impiegherai per leggere questa newsletter, ed è un’altra storia, che ci porta lontano, ma in fondo è anche la stessa storia.

La megafauna carismastica è un cast fatto di balenottere, tigri, panda, cervi, leopardi, orsi: specie magnifiche, che ci sembrano più rilevanti, più meritevoli di un investimento esistenziale, emotivo, economico, ed è una cosa ottima, sono le celebrity, gli ambasciatori, il mondo della conservazione li ha sempre mandati avanti nelle campagne e nelle lotte, perché, affinché ci importi di tutto, deve importarci di qualcosa in particolare, abbiamo bisogno di quella che Robert Buchanan, fondatore di Polar Bears International, chiama: «la connessione». Abbiamo bisogno di connetterci con qualcosa che ci somigli, perché ci importi a catena di tutto il resto.

Ma funziona davvero così? In Italia una delle più grandi catastrofi di biodiversità attualmente in corso riguarda la fauna ittica fluviale, la biodiversità dei boschi invece sta tutto sommato bene, nel miglior stato da generazioni, mentre quella nei fiumi è al collasso. Sono la classe di vertebrati più rischio: globalmente rischiamo di perderne la metà nei prossimi quindici anni.

La storia degli orsi però è importante, è una storia di rilevanza nazionale, perché ci riguarda e ci emoziona, e di quell’emozione dobbiamo avere cura, ma possiamo averne cura solo nell’orizzonte della scienza, altrimenti non capiamo più niente. JJ4 è importante, come ogni vita, ma è più importante la specie, ed è più importante la possibilità della convivenza con questa specie, che è stata un piccolo miracolo italiano da preservare nella sua interezza.

Non c’è conservazione senza convivenza, non c’è convivenza senza comunità. L’empatia ci porta a pensare a JJ4 e a quello che le accadrà, la ragione ci spinge a guardare alla popolazione e alla specie e a quello che è meglio per tutti gli orsi, non per l’orsa maggiore che oggi ci sta a cuore. È difficile, come sempre quando le cose diventano personali, ma è necessario.

L’ecosistema intorno 

VWPics via AP Images

E poi c’è il secondo pezzo di questa storia, l’ecosistema, cioè il bosco italiano. Ho avuto una serie di conversazioni dopo l’articolo che ho scritto la settimana scorsa (qui puoi leggerlo, qui la sua versione Instagram), una in particolare mi ha colpito, un carteggio che ho avuto con una persona che vive molto in altitudine per buona parte dell’anno e che mi ha scritto una cosa che continua a tornarmi in mente.

Cito: «La spaccatura tra città e bosco sta diventando una voragine. Uomo da una parte, terra dall’altra. E sarà sempre più profonda in futuro. Saremo sempre più dei cittadini che vanno nel bosco come in un parco (chi di noi ci andrà), esattamente dei turisti del bosco, senz’altro degli ospiti. Non vuol dire che non avremo bisogno di custodi e curatori, come nei musei».

È la versione molto ben espressa di una visione molto comune ma inapplicabile, ecco, perché irrispettosa di chi nelle valli ci vive (e parliamo di milioni di italiani), ci è nato, le chiama casa propria da generazioni, e non sono ospiti né turisti, inapplicabile perché l’idea che nei due terzi urbanizzati possiamo allora distruggere ogni biodiversità perché siamo padroni è pericolosa, e perché non può esistere un museo di quasi 12 milioni di ettari.

Noi siamo vivi, i boschi sono vivi, gli orsi sono vivi, dobbiamo trovare un modo, è l’unica cosa che potremmo davvero chiamare sostenibilità, se questa parola ha ancora un senso. La secessione dal naturale non è sostenibilità, è il suo opposto, è privilegio.

L’estate fa paura

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Sono usciti i dati di European State of the Climate 2022 di Copernicus Climate Change Service e fuori piove, in casa fa freddo, quei dati ci dicono una serie di cose importanti, ne ho scritto qui, ma quella che mi risuona più forte è: adattamento, e tradotto in termini più concreti: qui dobbiamo prepararci all’estate, e l’estate potrebbe essere dura.

Sarà sicuramente un’estate caldissima, piena di ondate di calore consecutive come quella del 2022 (la più calda nella storia del nostro continente)? Non lo sappiamo, ma per usare le parole di Samantha Burgess, vicedirettrice di Copernicus: «Immaginate le giornate come un mazzo di carte: le carte nere sono giornate fresche, le carte rosse quelle calde. Più aumentiamo la concentrazione di gas serra e più togliamo carte fresche dal mazzo, che invece si riempie di carte torride».

A quel punto la probabilità di pescare una giornata di stress da calore molto forte (superiore a 38°C) o estremo (superiore a 45°C) non fa che aumentare. Le giornate di forte stress termico da caldo sono aumentate del 30 per cento, ci si può aspettare da 70 a 100 giorni torridi in media ogni anno, quindi è fine aprile e sto con la felpa, ma già mi sento sfiancato, forse è questa una forma perversa di adattamento («maladaptation», la chiama l’Ipcc), stare qui ad avere il terrore dell’estate, dell’energia che ci toglierà, della fatica di 100 giorni potenziali dentro un’ondata di calore.

Forse, come mi ha detto Giorgio Vacchiano nel pezzo, abbiamo un problema, perché continuiamo a stupirci, a vedere e affrontare gli episodi estremi (troppa acqua, troppa poca acqua, caldo, incendi) come se fossero pezzi slegati di un puzzle, che nella loro singolarità non sappiamo come prendere e che invece dobbiamo imparare ad affrontare nella loro totalità.

In Italia non si parla bene di clima nel discorso pubblico perché non si riesce a fare un discorso intero, viviamo solo di brandelli di discorso. Un’interezza l’ho ritrovata in questo sunto sui trend climatici italiani di Italy for Climate, progetto della Fondazione dello sviluppo sostenibile. È un’istantanea di sistema, per rispondere alla domanda, si, ma se questa è la situazione, noi che stiamo facendo?

Prendo dalla scheda questo numero: 2230. Nel senso dell’anno 2230, un anno che né tu né io vedremo, ma l’anno entro il quale arriveremo alla neutralità climatica in Italia se proseguiamo con il ritmo di oggi. Non benissimo, ecco.

Nel 2022 la produzione idroelettrica è crollata del 38 per cento a causa della siccità: siamo regrediti ai livelli degli anni Cinquanta, abbiamo in compenso aggiunto 3 GW di eolico e fotovoltaico al sistema, che è un po’ meglio degli anni passati, ma siamo ancora il paese più lento d’Europa. E intanto, a furia di parlare di biofuel e ignorare la realtà, l’Italia è l’unico paese d’Europa dove le vendite di auto elettriche sono calate nel 2022. Unione europea: crescono del 28 per cento, Italia: calate del 27 per cento. Meh. 

Decolonizzare la Banca mondiale

Agli incontri di primavera della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale è successo qualcosa di importante nell’ottica della crisi climatica. Come ha detto Laurence Tubiana, ceo della European climate foundation: «I vecchi tabù sono stati rotti e le richieste di una piena trasformazione dell’architettura finanziaria sono al centro della scena».

Il tema è la sottovalutata reazione a catena scatenata alla Cop27 di Sharm El Sheikh, che ha visto l’inizio di un rovesciamento degli schemi di potere finanziari ereditati dalla fine della Seconda guerra mondiale, pensati in un mondo vecchio, per esigenze vecchie, a specchio di una forma della politica internazionale e di una geografia che da tempo non sono più quelle del presente.

Il contenuto principale della ribellione dei paesi emergenti e in via di sviluppo alla Cop27 era stato: Banca mondiale e Fondo monetario internazionale sono infrastrutture finanziarie non adeguate a rispondere alla crisi climatica, quindi devono cambiare. Come dice Tubiana: «La nostra attuale architettura finanziaria non è pronta ad affrontare la doppia morsa di vulnerabilità climatica e stress da debito. Le diseguaglianze fondamentali di questo sistema si correggono a partire dalla crisi debitoria».

A Cop27 si è cristallizzato il fronte del “mondo altro”, un’alleanza di alleanze che va dal Brasile di Lula al Pakistan devastato dallo spaventoso monsone dello scorso autunno, da Barbados capo sindacalista delle economie di bassa classe media mondiale devastate dagli eventi estremi ai paesi più poveri dell’africa sub-sahariana. Tutti dicono la stessa cosa: possiamo anche affrontare la crisi climatica, ma solo se non siamo contemporaneamente soffocati dal debito.

Dal 2008 l’esposizione debitoria delle economie in via di sviluppo ed emergenti è salita da 1,4 triliardi di dollari a 3,9 triliardi di dollari, secondo un report diffuso dal Global Policy Centre della Boston University. Ci sono 812 miliardi di dollari di debiti da ristrutturare al più presto per evitare il collasso di 61 paesi. E secondo Action Aid il 93 per cento dei paesi più vulnerabili dal punto di vista climatico sono paesi che hanno uno stress debitorio alto.

E quindi, tradotto: alle attuali condizioni di Banca mondiale e Fondo monetario internazionale, questi paesi o ripagano il debito o investono in adattamento contro desertificazione, innalzamento del livello del mare, uragani, tifoni e cicloni. E già oggi, sempre secondo Action Aid, il 60 per cento di questi paesi disinvestiranno sulla resilienza climatica a causa del loro indebitamento internazionale. Una spirale da cui solo le Banche multilaterali di sviluppo possono tirare fuori l’umanità, diventando a loro volta strumenti di adattamento climatico.

Una metamorfosi di questo tipo non poteva avvenire in pochi mesi, e infatti gli incontri di primavera di Fondo monetario internazionale e Banca mondiale ci hanno detto che il tema è nelle mappe e nell’orizzonte, ma i passi sono stati ancora troppo timidi.

Le istituzioni internazionali provano a tappare le falle della propria inadeguatezza senza cambiare il meccanismo generale. Un primo segnale, però, era arrivato con la sostituzione del presidente della World Bank: dopo Cop27 era ormai insostenibile avere un negazionista climatico come David Malpass alla guida di un’istituzione di questo tipo, e infatti è stato mandato via con un anno di anticipo ed è stato sostituito da Ajay Banga, ex ceo di Mastercard.

La Banca mondiale ha pubblicato un aggiornamento del suo piano di sviluppo, che prevede la riforma di policy e metodi, per mettere il clima al centro della propria agenda. Ha leggermente aumentato la propria capacità di prestiti a condizioni agevolate, con 4 miliardi di dollari aggiuntivi, e ha annunciato la sua intenzione di mobilitarne altri cinquanta nel prossimo decennio per le sfide climatiche.

Tra i piani c’è la creazione di un programma ibrido tra capitale pubblico e privato. Secondo il V20, il gruppo dei paesi più vulnerabili alla crisi climatica, tutto questo non è ancora abbastanza: servono più soldi, serve più capacità di consegnarli in fretta (contro i disastri il fattore tempo è decisivo), servono condizioni migliori. Le prossime tappe sono il Global Pact summit a Parigi, i prossimi meeting di Banca mondiale e Fondo monetario internazionale a Marrakesh, e infine Cop28 a novembre, dove si vedranno anche i progressi per la parte operativa del fondo loss and damage.

Siamo arrivati alla fine di questo numero di Areale, visto che è la Giornata della Terra e visto che serve sempre qualcosa da ascoltare, Samantha Colombo e io abbiamo fatto una cosa per noi e per voi.

Samantha è etnomusicologa, giornalista, scrittrice, esperta di mondi e geografie musicali, ha una newsletter magnifica che si chiama Dispacci che mostra la realtà attraverso la musica, o la musica attraverso la realtà, non ho mai capito bene. Abbiamo creato una playlist aperta e collaborativa su Spotify di musica che ci sembra adatta a questa giornata della Terra, alla speranza, al futuro, alla costruzione di mondi nuovi, ad attenuare l’ecoansia o almeno trovarle un posto sonico.

Se la vuoi ascoltare e condividere la trovi qui, credo tu possa aggiungere anche canzoni, mi piacerebbe che fosse la playlist ambientale di tutte le lettrici e i lettori di Areale e Dispacci, è una cosa piccola, ma almeno non è greenwashing.

Che farai per la Giornata della Terra? Puoi scrivermi, come sempre, a ferdinando.cotugno@gmail.com, anche per dirmi che canzoni hai aggiunto e perché. Per parlare con Domani, invece, lettori@editorialedomani.it

A sabato prossimo,

Ferdinando Cotugno

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