Ricercatori dell’Istituto Paul Scherrer Psi e dell’Eth di Zurigo hanno studiato fino a che punto la cattura diretta di anidride carbonica (CO2) dall’aria può aiutare a ridurre l’effetto serra dell’atmosfera. Il risultato: con un’attenta pianificazione – ad esempio per quanto riguarda la fornitura dell’energia necessaria – la CO2 può essere rimossa in modo efficiente, ossia rimuovendone più di quella che si immette per la rimozione stessa.

I ricercatori, che hanno pubblicato la loro analisi sulla rivista Environmental Science & Technology, si sono concentrati sui processi che oggi si potrebbero applicare per l’estrazione del gas dall’atmosfera cercando di individuare quale sia il sistema più efficace. Per fare ciò hanno seguito due strade: da un lato hanno puntato la loro attenzione su un totale di cinque diverse configurazioni tecnologiche atte a catturare la CO2 dall’aria e dall’altro il loro possibile utilizzo in otto diverse località del Pianeta. I risultati dicono che a seconda della combinazione di tecnologia utilizzata e del luogo specifico, la CO2 può essere rimossa dall’aria con un’efficacia fino al 97 per cento.

Nel loro studio, i ricercatori hanno concentrato in modo particolare l’attenzione su un sistema dell’azienda svizzera Climeworks, che funziona con un processo a bassa temperatura e hanno analizzato l’uso della tecnologia in otto località diverse della Terra: Cile, Grecia, Giordania, Messico, Spagna, Islanda, Norvegia e Svizzera. Per ogni luogo, hanno calcolato le emissioni complessive di gas serra durante l’intero ciclo di vita di un impianto. Ad esempio, hanno confrontato l’efficienza del processo quando l’elettricità richiesta è fornita dall’energia solare o proviene dalla rete elettrica esistente che utilizza invece combustibili fossili. I risultati mostrano un intervallo enorme di efficienza, che va dal 9 al 97 percento. Alla presentazione del lavoro Christian Bauer, del Laboratorio di Analisi dei Sistemi Energetici al Psi e co-autore dello studio ha voluto tuttavia sottolineare un elemento importate, ossia che le tecnologie per la cattura della CO2 sono semplicemente complementari a una strategia globale di decarbonizzazione e non possono sostituirla. Possono essere molto utili per raggiungere gli obiettivi definiti nell’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici.

Quanto uccide il riscaldamento

Una ricerca di Ana Vicedo-Cabrera dell’Università di Berna e collaboratori, pubblicato su Nature Climate Change, ha definito per la prima volta qual è la mortalità dovuta al riscaldamento recente indotto dalle attività umane. Per riuscire nello studio i ricercatori hanno dapprima dato vita ad una banca dati di rapporti meteo-climatici e sanitari per il periodo compreso tra il 1991 e il 2018 con riferimento a 732 città di 43 paesi del Pianeta.

Poi, passando in rassegna luogo per luogo hanno ricercato le relazioni tra mortalità e temperature elevate esistenti durante i quattro mesi più caldi dell’anno.

A questo punto hanno lavorato su un modello che ha ridotto le temperature, come se non ci fosse stato l’intervento dell’uomo, e conseguentemente ha conteggiato quali sarebbero stati i decessi per il caldo. Confrontando i due valori, quello realistico con quello estrapolato, il risultato finale ha mostrato come circa il 37 per cento delle morti globali sono realisticamente da collegare al caldo presente nelle città legato al recente riscaldamento indotto dalle attività dell’uomo. All’analisi però mancano del tutto i dati delle città africane e di molte aree asiatiche che potrebbero far aumentare il valore.

Le responsabilità della caccia

Uno studio dell’università di Tel Aviv e del Weizmann Institute ha scoperto che, nel periodo compreso tra gli ultimi 20mila - 50mila anni, gli uccelli hanno subito una forte estinzione causata principalmente dall’uomo. Questa situazione ha causato la scomparsa tra il 10 per cento e il 20 per cento di specie di uccelli. La stragrande maggioranza delle specie estinte condivideva diverse caratteristiche: erano grandi, vivevano su isole e molte di loro non volavano. Lo studio, condotto da Shai Meiri e Amir Fromm, e pubblicato sul Journal of Biogeography, ha riassunto quel che è successo in un arco di tempo molto lungo, mentre fino a oggi le ricerche si erano concentrate soprattutto negli ultimi 300 anni. La ricerca ha preso in considerazione tutto ciò che si è riusciti ad ottenere da siti archeologici e paleontologici fino a 50mila anni fa. In totale, lo studio ha elencato 469 specie di uccelli estinte negli ultimi 50mila anni, anche se i ricercatori ritengono che il numero possa essere molto più alto. I ricercatori ritengono che la grande estinzione sia stata causata principalmente dalla caccia per avere cibo o anche da animali portati sulle isole dall’uomo, che a loro volta si nutrivano di uccelli o uova. Questa ipotesi si basa principalmente su due fatti: in primo luogo, c’è il fatto che la maggior parte dei resti di uccelli sono stati trovati in siti abitati da umani, appartenenti a specie consumate dall’uomo. In secondo luogo, è risultato che nella maggior parte dei casi, le estinzioni si sono verificate poco dopo l’arrivo degli umani nei siti in cui queste specie abitavano.

Il prezzo del carbone

Sono trascorse solo poche settimane dall’ultimo rapporto dell’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc) che ha sottolineato quel che potrebbe succedere a causa delle emissioni-serra prodotte dall’uomo. Il segretario generale delle Nazioni unite António Guterres e molti scienziati con lui hanno ribadito l’urgente necessità di ridurre pesantemente il carbone nella produzione di energia. Ma incredibilmente in questo anno di riscossa dell’industria c’è stata una costante ascesa dei prezzi del carbone, che ha superato i 100 dollari per tonnellata a giugno, per poi superare i 130 dollari a metà luglio a oltre 170 dollari di oggi.

A inizio anno costava poco più di 80 dollari. È ovvio che l’aumento del prezzo sia da attribuire a una ripresa della domanda dopo la pandemia, specialmente nei mercati asiatici emergenti come Cina e India, ma anche in quelli del Giappone, Corea del Sud, Europa e Stati Uniti. La domanda di elettricità, che rimane strettamente legata al carbone, dovrebbe aumentare del 5 per cento nel 2021 e di un ulteriore 4 per cento nel 2022. Ma c’è chi prevede che i costi potrebbero scendere nel breve termine perché non ci sono problemi di approvvigionamento e di carbone ce n’è ancora in grandissime quantità per vari anni a venire. Ma tutto ciò fa pensare per il prossimo futuro. Il consumo di energia nel 2020 è stato pari a 556 exajoule con petrolio, carbone e gas naturale a rappresentare rispettivamente il 31, il 27 e il 25 per cento del totale. Le centrali elettriche a carbone sono state a lungo abbastanza grandi da rendere economicamente sostenibili i costi di costruzione, con gli impianti più grandi che vantano una capacità di 5 GW, come fossero centrali nucleari. Il carburante è relativamente economico e i maggiori consumatori, Cina, Stati Uniti e India, godono tutti di forniture politicamente sicure.

La produzione del carbone è costante ed è assai difficile che possa avere ripercussioni politiche, il che la rende adatta a garantire il livello minimo di elettricità di cui un paese ha continuamente bisogno. Tutto ciò rende questa fonte di energia attraente per gli investitori. La spettacolare crescita economica cinese degli ultimi 20 anni, e la notevole espansione dell’elettrificazione dell’economia indiana, sono state in gran parte basate sul carbone. Nel 2020, il carbone ha generato il 63 per cento dell’elettricità in Cina e il 72 per cento in India. Nello stesso anno, la Cina ha prodotto metà del carbone mondiale, quasi 4 miliardi di tonnellate, mentre l’India è arrivata seconda con circa 750 milioni di tonnellate. I due paesi hanno rappresentato i due terzi del consumo globale e sono stati anche i due maggiori importatori. Per fortuna per il nostro clima, altrove, il carbone è in secondo piano. Negli Stati Uniti, il secondo produttore di elettricità dopo la Cina, il carbone si è ritirato a favore del gas naturale.

Ha alimentato il 20 per cento dell’elettricità degli Stati Uniti nel 2020 rispetto al 43 per cento nel 2010, mentre il gas naturale è aumentato nello stesso periodo dal 24 al 40 per cento. In Germania, la produzione di carbone è stata eguagliata dall’eolico, mentre nel Regno Unito il carbone viene utilizzato solo come riserva. Allo stesso modo, Giappone e Corea del Sud stanno espandendo il loro gas naturale, nucleare e rinnovabili nel tentativo di ridurre l’impatto del carbone della loro produzione di elettricità. In Italia le centrali a carbone sono otto, anche se vi sono sforzi per portarle via via alla chiusura. Ma rimane chiaramente difficile da un punto di vista commerciale eliminare il carbone in tutto il mondo in pochissimo tempo. Gli impianti a carbone infatti, sono investimenti a lungo termine, spesso dai 40 ai 50 anni.

Un impianto costruito nel 2000, oggi, è solo a metà della sua vita, quindi chiuderlo ora, per quanto auspicabile, rovinerebbe l’economia per gli investitori.

A meno che i prezzi del carbone non rimangano permanentemente alti (improbabile), o il costo delle emissioni di carbonio sia più proibitivo a causa di tasse o schemi di scambio del carbonio, o non ci sia un intervento diretto dei governi per smantellare gli impianti, il carbone potrebbe persistere più a lungo di quanto ci aspettiamo.

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