In Sicilia a sud di Noto, a Rosolini, c’è un vivaio, si chiama Giannuso dal nome della famiglia che lo possiede. Ci sono stato qualche anno fa e in quell’occasione il proprietario mi ha accompagnato dentro un percorso straordinario attraverso piante secolari: un carrubo di 700 anni, un altro di 500 e un ulivo la cui età stimata è di 2500 anni.

Ecco davanti all’ulivo ho sentito di essere dinanzi un monumento vivente. Mi sono messo a immaginare i Greci che probabilmente l’avevano piantato, insomma mi sono figurato tutta la storia trascorsa, tutti i frutti e gli uomini, i giorni di avversità e quelli positivi. Allora ho ripensato alle parole del mio amico Stefano Mancuso, quando dice che gli alberi vedono, a modo loro, sentono, sanno cosa succede intorno a loro. E poi mi sono pure emozionato considerando le infinite volte in cui, attraversando 2500 anni, quell’ulivo avrà dovuto adattarsi alle innumerevoli condizioni climatiche che si sono succedute. La corteccia ha resistito, la linfa ha continuato a risalire dalle radici fino alle foglie. Ogni stagione ha continuato a fiorire, a essere impollinato: un seme fecondo che il mondo vegetale produce per proseguire la specie.

Come le piante

Anche noi uomini siamo così, resistiamo, cresciamo, fecondiamo, nutriamo i nostri frutti. Ci differenzia il fatto che rispetto alle piante il nostro ciclo è breve. In un dialogo che ho avuto con Stefano e che ho riportato nel volume Building Green Futures, lui dice infatti che «gli uomini e gli animali hanno un’unica risposta, consumare e spostarsi. La fuga, reazione “stereotipata” e tipica del mondo animale, non è un’opzione per le piante. Per questo motivo esse hanno sviluppato la capacità di percepire ogni minimo cambiamento dell’ambiente in cui si trovano».

Ed è questa empatia che permette loro di sopravvivere. Le piante intercettano in anticipo i cambiamenti e in questo modo individuano le soluzioni più adeguate. In occasione di quello scambio con Stefano io a mia volta scrivevo: «Se partiamo da questa semplice constatazione e guardiamo alla situazione attuale dobbiamo ammettere che gli edifici non sono progettati secondo i principî di adattamento e sfruttamento delle risorse esistenti, ma rispondono ad altre istanze: la finanza, la rapidità, il costo, le performance completamente dipendenti dalle macchine e non dall’ambiente, questo è il prezzo più alto che paghiamo in termini ambientali».

Sempre di più mi convinco che quando guardiamo alla natura lo facciamo sbagliando fuoco. Il nostro sguardo cioè dovrebbe essere principalmente uno sguardo imitativo: essere ciò che sono le piante. Che poi è quello che gli uomini hanno sempre cercato di fare. Il passato ci ha lasciato innumerevoli testimonianze del fatto che questa alleanza è esistita per secoli. Un esempio tra tutti le Torri del vento, che dalla costa settentrionale dell’Africa fino al Pakistan e soprattutto in Iran continuano a svettare. Un modello perfetto del dialogo che uomo e natura hanno avuto per secoli.

Le soluzioni tampone

Oggi mi pare che invece siamo finiti prigionieri di un parossismo consumistico costruttivo sempre più fine a sé stesso e delle logiche speculative. Ci illudiamo che sia sufficiente ripianare (parzialmente) le nostre enormi emissioni di CO2 piantando alberi, senza comprendere che in questo modo continuiamo a trattare la natura come fosse al nostro servizio. Non siamo in grado di rinunciare a nulla e pur di non farlo ci rifugiamo in soluzioni tampone che ci sgravano la coscienza.

Non è accettabile che l’unica soluzione che siamo in grado di offrire sia quella di piantare milioni di alberi. Non possiamo farlo per due ragioni, la prima la definirei quasi etica: non possiamo pretendere di affidare ancora una volta alla natura quel potere salvifico a cui peraltro noi ogni giorno attentiamo. La seconda ragione è numerica: a questo ritmo di produzioni di emissioni non c’è piantumazione compensativa che possa reggere.

Un mondo sostenibile non è quello in cui si piantano alberi in terrazze di cemento, pensando di riqualificare e di rinaturalizzare in questo modo i centri cittadini e le periferie. Un mondo sostenibile è quello che ripensa, riscrive, la sua agenda con un approccio di sistema. Un approccio che oggi è alla nostra portata: la rivoluzione digitale ci fornisce un aiuto straordinario, abbiamo a disposizione un numero enorme di dati, siamo in grado di estrarre da essi le interconnessioni e, in questo modo, anticipare la relazione che c’è tra una causa e il suo effetto.

L’architettura che prende forma e si sviluppa da un approccio davvero sostenibile è allora quella disciplina, che è sì teorica ma è anche pratica, che è sì visionaria ma pure concreta. Una disciplina che così improntata può tracciare una sintesi e scrivere una agenda di ciò che è urgente oggi, del nostro presente, muovendosi con equilibrio verso il futuro.

A questa architettura tocca tradurre la sostenibilità in qualcosa di tangibile, che sia comprensibile e attuabile. In questo senso è inevitabile che questa agenda del presente sia anche uno strumento di evoluzione della società, perché dovrà incidere sui comportamenti, sulle scelte, sulla sensibilità. È questa la transizione ecologica, ma per compierla sarà necessario accettare di ribaltare, anche in profondità, il nostro sistema economico, sociale e produttivo.


Mario Cucinella, autore con Serena Uccello del libro Città foresta umana. L'empatia ci aiuta a progettare (Einaudi, 2024), sarà ospite della 15°edizione di Taobuk, il festival letterario internazionale ideato e diretto da Antonella Ferrara in programma a Taormina dal 18 al 23 giugno e dedicato quest’anno al tema dei Confini.

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