«Fino a quando non ci sarà un cambiamento di paradigma globale, continueremo a essere incatenati a una prospettiva che porta al disastro e l’ecologia continuerà a essere percepita come un lusso riservato ai ricchi».

A lanciare l’anatema verso un sistema che continua a produrre gas serra e magnificare i cambiamenti climatici, lasciando che a pagarne le dirette conseguenze siano quasi solo (per ora) i paesi del sud del mondo, è Maria Shikongo, un’attivista namibiana impegnata assieme a una rete di ambientalisti del suo paese a contrastare un progetto della compagnia canadese Recon Africa che ha iniziato le esplorazioni nel delta dell’Okavango. Mette in pericolo l’ecosistema per l’estrazione di gas e petrolio.

È di qualche giorno fa il rapporto diffuso dal World Meteorological Organization che fotografa l’ennesima catastrofe ambientale a carico dell’Africa. Secondo l’ente delle Nazioni unite, circa 120 milioni di individui estremamente poveri sono gravemente minacciati dalla accelerazione dei cambiamenti climatici che sta colpendo duramente l’Africa e rischia di mettere in pericolo i pochi ghiacciai continentali.

Nel report, pubblicato in vista della Cop26 iniziata domenica 31 ottobre a Glasgow, si sottolinea come i cambiamenti climatici vadano ad aumentare la «sproporzionata vulnerabilità dell’Africa colpita nel 2020 da un aumento di insicurezza alimentare, povertà ed esodi forzati. Secondo Josefa Leonel Correia Sacko, commissaria per l’Economia rurale e l’agricoltura della commissione dell’Unione africana, «si stima che entro il 2030 circa 118 milioni di africani estremamente vulnerabili saranno esposti a carestie, alluvioni e caldo torrido in Africa, se non saranno prese misure adeguate e immediate». I fenomeni legati al cambiamento climatico, naturalmente, colpiscono e aggravano la situazione di nazioni intere, ma sono i più poveri dei poveri a pagarne le peggiori conseguenze perché meno attrezzati per fronteggiarli e adattarsi a essi.

Peso ambientale

Il peso ambientale che l’Africa sopporta ha l’odiosa caratteristica di essere prodotto altrove, sia direttamente che indirettamente. «L’Africa – spiega Cornelia Toelgyes, vicedirettrice di Africa ExPress ed esperta di geopolitica continentale – è responsabile di appena il 3 per cento dell’emissione di CO2 ma è la prima vittima del riscaldamento globale. Negli ultimi tempi si moltiplicano fenomeni estremi che costringono intere popolazioni a lasciare le proprie terre. Ma le cause alla base di questi eventi vanno ricercate nelle responsabilità dei paesi più industrializzati che aumentano le emissioni o che vengono in Africa per depredarla, spremerla fino all’ultima risorsa e poi lasciarla in rovina».

A vedere tutte le statistiche di emissioni di gas serra che contribuiscono al riscaldamento globale, emerge la sostanziale assenza dell’Africa. Nei grafici che riportano le emissioni pro capite si nota che l’intero continente ne produce 1,3 miliardi di tonnellate all’anno (di cui solo il Sudafrica 456 milioni), un ottavo circa della sola Cina (9,8 miliardi di tonnellate, pari al 27 per cento), un quarto degli Stati Uniti (5,3 miliardi, pari al 15 per cento), meno della metà dell’Unione europea (3,5 miliardi, il 9,8 per cento) ma con 700 milioni di abitanti in meno).

A questo disastro, che potremmo chiamare indiretto, va aggiunto quello diretto, condotto da attori del cosiddetto primo mondo in loco. Si potrebbero citare tanti casi purtroppo.

Ci sono i fenomeni di land grabbing con acquisizioni di smisurati territori da parte di multinazionali americane, europee, saudite, ecc, e successive deportazioni di popolazioni lì vissute per millenni e cambio colturale che devasta la terra. Ci sono infiniti esempi di sfruttamento delle risorse da parte di aziende estere che finiscono per distruggere gli ecosistemi innescando esodi forzati, come nel caso del Delta del Niger dove compagnie come la Shell, la Bp o la stessa Eni hanno sfruttato i giacimenti petroliferi incuranti dell’effetto provocato dallo sversamento nella foce del fiume, uno dei più grandi e pescosi dell’Africa, divenuto negli anni un “dead river”. Ci sono infine i casi di conflitti scatenati da interessi esterni che hanno portato terre e uomini alla morte. È il caso ad esempio del Congo dove interessi esterni gestiscono le miniere più ricche del mondo con eserciti privati o con l’appoggio militare di stati confinanti.

Il clima e le guerre

Come rileva il sito ambientalista Earth.org, l’aumento dell’1 per cento delle temperature, può aumentare il rischio di guerra civile del 4,5 per cento e, in proiezione, condurre a una crescita del 54 per cento dei conflitti armati entro il 2030.

Il continente africano, purtroppo, è l’emblema di questo fenomeno. Alla enorme vulnerabilità legata alla siccità, infatti, si ascrivono le ostilità in atto nel Sahel, con il Mali in prima fila, in Darfur, nel Tigray, nella Somalia così come gli scontri etnici all’interno dell’Etiopia. Alla base della guerra che i jihadisti di Boko haram stanno combattendo nel nord della Nigeria e nei vicini Camerun, Ciad e Niger, poi, non ci sarebbero solo motivi legati all’ideologia islamica, ma anche la drammatica scarsità di piogge sperimentata negli ultimi anni.

«C’è poi il caso del lago Ciad – dice Toelgyes – dove il livello si è ridotto negli ultimi 50 anni del 90 per cento per l’eccessivo utilizzo delle sue acque, la prolungata siccità e i cambiamenti climatici. Da diversi anni si consuma sulle sue rive una delle più grandi tragedie umanitarie, dovuta ai conflitti scatenati proprio dalla mancanza di acqua per pescatori e allevatori che si fanno la guerra o si alleano con i terroristi».

Dei 20 paesi africani più vulnerabili ai cambiamenti climatici, in ogni caso, ben 12 sono in guerra. E, come denuncia sempre Earth.org, «il doppio fronte dei mutamenti climatici e dei conflitti, provoca esodi biblici, insicurezza alimentare cronica e peggiora le patologie limitando gli sforzi dei sistemi sanitari».

Risveglio di coscienze

Le buone notizie arrivano da una crescente presa di coscienza dei popoli continentali riguardo al fenomeno e la conseguente lotta di tanti ambientalisti. «In Africa ci sono sempre più persone, e tantissimi giovani, che si mobilitano per i loro diritti, umani, sociali, ambientali – spiega Alessandro Gianni, direttore delle campagne di Greenpeace Italia –. Fenomeni come deforestazione, cambiamento climatico, sfruttamento di fonti fossili e altre risorse non minacciano solo l’ambiente ma intere comunità. E aumentano le disuguaglianze di ogni tipo».

La loro voce, in gran parte diffusa da giovani, sta entrando nel panorama internazionale con sempre maggiore peso. E accanto a Vanessa Nakate, l’ambientalista ugandese esponente del movimento Fridays for Future, di recente apparsa accanto a Greta Thunberg per la Youth4Climate di Milano – che inserisce per la prima volta nel dibattito il tema del “razzismo climatico” – tanti ragazzi cominciano a segnalarsi da ogni parte del continente.

La diciottenne sudafricana Noor Mahomed, attivista che parteciperà a Glasgow come delegata per il suo paese, parla di dell’esigenza di «decolonizzare l’ Africa e connettere tutti gli attivisti per un movimento più inclusivo e accessibile». «Ho avuto la fortuna di nascere ai margini del parco naturale del Lago Nakuru – dice la nairobiana Winnie Cheche, blogger, responsabile della comunicazione per Kenya Environmental Action Network – e ora che ho 32 anni, posso dire che a causa del bracconaggio e dello sfruttamento del parco per i turisti, il numero di animali è gravemente diminuito e la vegetazione ne risente».

Ma alla fine ha ragione Maria Shikongo. Il vero obiettivo del movimento ambientalista mondiale e di quello africano in particolare, al di là di singole, sacrosante lotte, deve essere il cambiamento del paradigma. Costringere cioè gli stati, le compagnie, le multinazionali, gli organismi a diminuire le emissioni e interrompere lo sfruttamento neocoloniale dell’Africa. L’incontro di Glasgow, dove la presenza africana avrà un peso, sembra l’occasione giusta per cominciare a farlo.

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