È stata una profonda sorpresa anche per i ricercatori quando si sono trovati di fronte le analisi di alcuni campioni di ghiaccio raccolti sui ghiacciai dell’arcipelago delle Svalbard: al loro interno infatti, erano presenti tracce di creme solari. Il materiale si deposita soprattutto in inverno, quando sull’Artico cala la notte. A misurarne la concentrazione e spiegarne l’origine è uno studio condotto da ricercatrici e ricercatori dell’università Ca’ Foscari Venezia e dell’Istituto di scienze polari del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isp), in collaborazione con l’Università delle Svalbard. I risultati sono pubblicati sulla rivista scientifica Science of the Total Environment.

L’obiettivo del lavoro era fornire la prima panoramica della presenza ambientale dei prodotti per la cura personale in Artico, fornendo dati sulla loro distribuzione spaziale e stagionale nel manto nevoso. Grazie al progetto Arctic Field Grant è stato possibile condurre un campionamento da cinque ghiacciai, situati nella penisola di Brøggerhalvøya.

I contaminanti

La varietà dei siti selezionati sia in prossimità di insediamenti umani sia in luoghi più remoti, ha permesso di studiare la presenza e il comportamento dei contaminanti emergenti, composti tutt’ora in uso ma monitorati dalla comunità scientifica in quanto potenzialmente dannosi per l’ecosistema. I risultati hanno rivelato la presenza di diversi composti, come fragranze e filtri UV, che derivano dai prodotti per la cura personale di largo consumo, fino alle latitudini più estreme.

«Questa è la prima volta che molti dei contaminanti analizzati, quali Benzofenone-3, Octocrilene, Etilesil Metossicinnamato e Etilesil Salicilato, vengono identificati nella neve artica», afferma Marianna D’Amico, dottoranda in Scienze polari all’università Ca’ Foscari Venezia e prima autrice dello studio. «I risultati evidenziano come la presenza dei contaminanti emergenti nelle aree remote sia imputabile al ruolo del trasporto atmosferico a lungo raggio», spiega Marco Vecchiato, ricercatore in chimica analitica a Ca’ Foscari e co-autore del lavoro. Infatti, le concentrazioni più alte sono state riscontrate nelle deposizioni invernali.

Alla fine dell’inverno, le masse d’aria contaminate provenienti dall’Eurasia raggiungono più facilmente l’Artico. «L’esempio più evidente riguarda proprio alcuni filtri UV normalmente presenti nelle creme solari. L’origine delle maggiori concentrazioni invernali di questi contaminanti non può che risiedere nelle regioni continentali abitate a latitudini più basse: alle Svalbard durante la notte artica il Sole non sorge e non vengono utilizzate creme solari», prosegue Vecchiato.

La distribuzione di alcuni di questi contaminanti varia in base all’altitudine. La maggior parte dei composti ha concentrazioni maggiori a quote più basse, tranne l’Octocrilene e il Benzofenone-3, due filtri UV comunemente utilizzati nelle creme solari, che al contrario sono più abbondanti sulla cima dei ghiacciai, dove arrivano dalle basse latitudini trasportati dalla circolazione atmosferica. Questi dati saranno utili per definire piani di monitoraggio nell’area, contribuendo anche alla protezione dell’ecosistema locale. I contaminanti selezionati hanno già dimostrato effetti negativi sugli organismi acquatici alterando le funzionalità del sistema endocrino e ormonale. 

Ogni diamante “è per sempre”

I diamanti che arrivano dalle profondità del nostro Pianeta, affascinano da tempo l’umanità con la loro brillantezza e rarità, simboleggiando qui sulla Terra, ricchezza, potere e romanticismo. Ma esistono diamanti che arrivano dallo spazio profondo e che ci danno indizi sui misteri del cosmo.

Stando ad un insieme di ricerche pubblicate negli ultimi anni il viaggio di un diamante spaziale inizia in condizioni tanto estreme quanto rare. A differenza dei diamanti legati alla Terra, infatti, che si formano nel corso di miliardi di anni ad alta pressione e temperatura nel mantello terrestre a centinaia di chilometri sotto la superficie terrestre, i diamanti spaziali nascono spesso da violenti eventi cosmici.

Una delle origini più “drammatiche” dei diamanti extraterrestri si verifica durante la morte esplosiva delle stelle, una fase che trasforma una stella in una supernova. Quando una stella raggiunge la fine della sua vita, subisce un collasso catastrofico, seguito da una massiccia esplosione. Questa esplosione genera pressioni e temperature incredibilmente elevate, condizioni perfette per la formazione dei diamanti. Gli atomi di carbonio vengono compressi in queste condizioni estreme in strutture cristalline, formando diamanti.

Utilizzando telescopi e spettroscopi (strumenti in grado di “leggere” la luce” così da definire la composizione di un oggetto) ad elevata capacità, gli scienziati hanno osservato la presenza di carbonio cristallino, un indicatore chiave del diamante, nel materiale ad alta densità che circonda alcuni tipi di stelle. Queste osservazioni suggeriscono che il processo di formazione dei diamanti non è solo una ipotesi, ma una realtà che si verifica in tutto l’universo.

Ma per cercare diamanti spaziali non è sempre necessario attendere la morte di una stella, anche nel nostro sistema solare vi sarebbero le condizioni adatte per la loro formazione, anche se sono luoghi irraggiungibili dall’uomo. Si formerebbero infatti, nelle atmosfere dei pianeti giganti come Giove e Saturno. Gli scienziati teorizzano che questi giganti gassosi abbiano le giuste condizioni – alta pressione e temperatura – per convertire il carbonio in diamanti.

Si ipotizza che nelle atmosfere profonde e calde di questi pianeti, gli atomi di carbonio si aggreghino per formare la grafite, che poi si comprime in diamanti sotto le immense pressioni.

Alcune delle prove più dirette dell’esistenza di diamanti spaziali provengono da meteoriti che si sono schiantati sulla Terra. È risaputo, ad esempio, che la classe dei meteoriti dell’ureilite contiene minuscoli diamanti, probabilmente formati dall’urto di una collisione nello spazio tra due asteroidi o durante l’agonia di una stella. Questi diamanti extraterrestri sono molto più antichi di qualsiasi diamante trovato sulla Terra e così offrono uno sguardo sulla storia antica del nostro sistema solare. 

Utilizzando potenti telescopi e spettroscopi (strumenti in grado di “leggere” la luce” così da definire la composizione di un oggetto), gli scienziati hanno osservato la presenza di carbonio cristallino, un indicatore chiave del diamante, nel materiale ad elevata densità che circonda alcuni tipi di stelle. Queste osservazioni suggeriscono che il processo di formazione dei diamanti non è solo una ipotesi, ma una realtà che si verifica in tutto l’universo.

La formazione dei diamanti nello spazio rivela molto sulle condizioni e sui processi che si verificano in vari luoghi dell’universo. Studiando questi diamanti, gli scienziati possono ottenere informazioni sul ciclo di vita delle stelle, sulla natura delle atmosfere planetarie e sull’evoluzione chimica dell’intero universo.

Questa conoscenza è fondamentale per mettere insieme il puzzle cosmico di come le galassie, le stelle e i pianeti si formano ed evolvono. I diamanti che si formano nello spazio sono come capsule del tempo, che portano al loro interno informazioni sulle condizioni e sugli eventi accaduti milioni se non miliardi di anni fa.

Analizzando questi diamanti, gli scienziati possono tracciare la storia del nostro sistema solare, comprendendo come si è formato e si è evoluto nel tempo. Ciò può fornire indizi sulla probabilità che processi simili si verifichino in altri sistemi stellari, facendo potenzialmente luce sulla formazione di pianeti abitabili.

La scoperta dei diamanti nello spazio ha anche implicazioni interessanti per la futura esplorazione dello spazio. Se venissero identificati pianeti o corpi celesti ricchi di diamanti relativamente vicini a noi, potrebbero diventare obiettivi per missioni future, sia per studi scientifici che per il potenziale utilizzo delle risorse. Sebbene l’idea di estrarre diamanti nello spazio sia ancora nel regno della fantascienza, apre interessanti possibilità per il futuro dei viaggi e dell’esplorazione spaziale.
Mentre continuiamo a esplorare e comprendere queste gemme cosmiche, non solo soddisfiamo la nostra curiosità, ma espandiamo anche la nostra conoscenza dell’universo in cui abitiamo. Il viaggio per comprendere questi diamanti celesti è appena iniziato e promette di rivelare ancora di più sull’enigmatico e infinito universo al di là del nostro Pianeta blu.

Mediterraneo bollente

Nuovo allarme per il cambiamento climatico: da maggio 2022 a maggio 2023 il Mediterraneo ha subito l’ondata di calore più lunga mai registrata negli ultimi 40 anni con un aumento fino a 4°C delle temperature del mare con picchi superiori a 23°C. La parte più colpita è stata il bacino occidentale. È quanto emerge dai risultati del progetto CAREHeat (deteCtion and threAts of maRinE Heat waves), finanziato dall’Agenzia Spaziale Europea (Esa), al quale partecipano, per l’Italia, Enea e Cnr (coordinatore), pubblicati sulla rivista Environmental Research Letters. Le attività di ricerca di CAREHeat sono iniziate con lo studio dell’ondata di calore che ha interessato il, mar Mediterraneo partendo dall’analisi dai dati satellitari che per primi hanno rilevato l’anomalia termica, con valori molto più alti rispetto alla precedente ondata di calore del 2003. Le informazioni satellitari sono state poi integrate con i dati provenienti dalle osservazioni in situ disponibili dalla Stazione Climatica di Lampedusa, che rappresenta l’unico sito in Europa in grado di fornire informazioni sulle interazioni fra vegetazione, atmosfera ed oceano sia negli scambi di carbonio che in tutti i processi e scambi di energia che regolano il clima della regione.

Grazie, inoltre, all’utilizzo di simulazioni modellistiche e sistemi di elaborazione dei dati all’avanguardia i ricercatori hanno potuto caratterizzare l’anomalia che ha interessato il periodo. In particolare, dalle indagini dettagliate sul ruolo dei cosiddetti ‘forzanti atmosferici’- come, ad esempio, il vento nel condizionare l’oceano - è emerso che le anomalie della temperatura superficiale del mare sono strettamente correlate alla prevalenza delle condizioni anticicloniche nell’atmosfera; condizioni che nello stesso periodo hanno causato anche gravi siccità nella regione mediterranea. L’analisi di questi dati indica che il rimescolamento verticale del mare causato dal vento è il principale responsabile del trasporto di calore all’interno delle acque marine e che queste anomalie sotto la superficie sono durate diversi mesi. Infine, dal confronto fra l’evoluzione dell’evento del 2022/23 con il precedente evento del 2003 sono emersi alcuni aspetti legati al cambiamento climatico della regione: fra questi, ad esempio, le temperature ben al di sopra della media stagionale dagli inizi di maggio nell’area mediterranea ed anche nella prima metà di giugno che è stata caratterizzata da situazioni meteorologiche tipiche di fasi più avanzate della stagione estiva. «I risultati di CAREHeat" ci mettono davanti agli occhi solo ad alcuni dei segnali del cambiamento climatico ma dobbiamo essere consapevoli che siamo solo agli inizi di un processo più ampio e che ci troviamo di fronte a segnali di ciò che accadrà in modo sempre più frequente», commenta Gianmaria Sannino, responsabile della Divisione modelli e tecnologie per la riduzione degli impatti antropici e dei rischi naturali di ENEA.

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