Ciao, dunque, sono a Torino, piove, sul balcone degli amici che mi ospitano c'è un gelsomino che sta rinascendo, c'è così tanto da dire che forse non c'è più niente dire. Penso solo che c'è un pezzo di questa storia che ci stiamo perdendo oggi, ed è l'immensa ondata di dolore e paura che è arrivata insieme al fango e all'acqua in Emilia Romagna (e nelle Marche, e a Ischia, dodici mesi di tempeste e ferite).

Abbiamo il dovere di seppellire i morti e riparare i viventi, cercare la chiave di lettura corretta, spingere le policy, indirizzare le politiche, non metterci nella posizione di vedere la mitigazione e l'adattamento come strade alternative, ma prima ancora di tutto questo dobbiamo rispettare i lutti, le perdite, la fatica di chi sta spalando il fango da giorni, di chi ha perso il lavoro di anni, il raccolto, l'azienda, di chi avrà per tutta la vita a partire da oggi terrore dell'allerta rossa e della pioggia in arrivo.

Questa oggi non è una culture war, e nemmeno una battaglia politica, è prima di tutto il dolore della gente dell'Emilia e della Romagna, la loro salute fisica e la loro salute mentale. Se mi leggi da una terra allagata, sappi che qui ti si pensa. Questo è Areale numero 123 (come il civico dove i miei nonni erano portinai) e noi cominciamo.

Il negazionismo, l'opportunismo e la paura

Al Salone del Libro di Torino ho parlato di negazionismo con Luca Mercalli, climatologo, volto della scienza in questa battaglia torbida che è la conversazione sul clima nella società e nella televisione italiana oggi. C'è questa sensazione condivisa, ne avevamo già parlato su Areale, che il negazionismo climatico si sia «ringalluzzito», come ha detto Mercalli, che abbia trovato nuovi strumenti, spazi, armi retoriche, margine operativo.

Perché si è saldato con i negazionismi degli ultimi anni in attesa di qualcosa di nuovo da azzannare, in particolare quello no-vax, perché viene incoraggiato da chi vuole fare spettacolo, e da chi userebbe qualsiasi barricata per impedire la rapida transizione della società che serve per non ritrovarci in un mondo che somigli all'Emilia Romagna di queste settimane.

Ne ha scritto Fabio Deotto su Fanpage, trovando parole che hanno messo il dito su quello che penso da tempo: «Per molto tempo ho creduto che il negazionismo climatico fosse un problema del passato, un morbo quasi interamente debellato dalla mole ormai schiacciante di prove della crisi climatica in cui ci troviamo». Poi Deotto ha raccontato un'esperienza comune a chi fa informazione, divulgazione o attivismo su questo argomento: la shitstorm, quello che potremmo definire «pestaggio verbale», violento, prolungato, strutturato e strategico, attacchi che non hanno niente di spontaneo, ecco.

Scrive Fabio: «Ero confuso: significa che il negazionismo è ancora vivo e vegeto? Oppure che questa minoranza risicata riesce a ottenere una visibilità molto superiore al suo peso reale? A quanto pare, entrambe le cose». Deotto è la persona che meglio ha descritto quanto la nostra mente sia poco attrezzata cognitivamente ad affrontare la complessità di questo tema, per la scala temporale, per quella spaziale.

Io penso che - anche in questa melma - sia necessario praticare un atto difficilissimo: l'empatia. C'è una quota di negazionismo che è aggressività e violenza, ce n'è una che è lì solo a difesa di interessi economici per eterogenesi dei fini, pezzi di Italia che userebbero letteralmente qualsiasi cosa per conservare il business as usual.

Ma c’è una parte di negazionismo, non trascurabile, che è semplicemente una cosa che somiglia alla paura e che si chiama, secondo me: smarrimento. Ne avevo parlato in Primavera ambientale: fallacia dei costi irrecuperabili. Il mondo che conoscevano sta sparendo, una stagione alla volta.

La metà delle certezze va via per la scomparsa di un clima stabile - quello che ci ha permesso, letteralmente, l'esistenza della civiltà umana e delle nostre vite personali - l'altra metà va messa in discussione per la trasformazione necessaria a fermare questa crisi.

Se mi leggi e hai vent'anni, i tuoi costi irrecuperabili sono tutto sommato limitati: il futuro ti fa paura più che a me, ma il tuo investimento nel mondo di prima di fatto non esiste, sei attrezzato ad abbandonarlo, ti sembra insensato non farlo e hai ragione.

Se mi leggi e ne hai sessanta, di anni, i tuoi costi irrecuperabili sono alti, tutto quello che hai costruito, desiderato, immaginato era pieno di petrolio, gas e carbone, non è colpa tua, possiamo parlare delle colpe di chi sapeva e te lo ha nascosto, ma non è colpa tua.

Ed è difficile staccare la presa da quel mondo di prima un dito alla volta, e lamentarsi è normale, e anche (ed è doloroso dirlo, ed è doloroso dirlo oggi) negarlo è normale, è negarlo come quando scopriamo una malattia che ci mette a rischio tutto e per salvarci dobbiamo affrontare cure e cambiamenti esistenziali.

Ci sono tante persone per cui il negazionismo è una scelta crudele e consapevole. Ce ne sono altre per cui è una fase di passaggio nell'accettazione di un problema grande e complesso. Dobbiamo avere cura di quelle persone, perché quelle persone hanno paura quanta ne abbiamo noi.

Non sono mai solo numeri astratti: la prospettiva di rimanere entro +2°C

AP

Il disastro dell'Emilia Romagna dimostra che i numeri sui modelli delle proiezioni climatiche non sono mai solo numeri, che non sono astratti ma sono la mappa del destino dell'umanità, e che l'aumento di temperature sul quale atterrerà la comunità umana nel corso di questo secolo farà tutta la differenza del mondo.

La nuova nota emessa dalla World Meteorological Organization proprio nel corso della violenta perturbazione italiana rafforza il timore, espresso dai climatologi con sempre meno cautela, che l'obiettivo di tenere questo aumento delle temperature entro +1.5°C entro fine secolo sia ormai perso, dal momento che questa soglia sarà probabilmente superata per la prima volta già nel corso di questo decennio.

Abbiamo il 66 per cento di probabilità di superarla già entro il 2027, anche a causa del rinforzo naturale causato dal riscaldamento dell'Oceano Pacifico durante la fase di El Niño. Il riscaldamento globale era stato per ora mitigato da tre insoliti anni consecutivi di La Niña, e comunque il 2022 è stato l'anno più caldo della storia europea, ma quella finestra si sta chiudendo. C'è il 99 per cento di probabilità che uno dei prossimi cinque anni (si parla già del 2024) sarà il più caldo della storia.

C'è una nuova ricerca che rende ancora più accurati i termini di questa mappatura del futuro ed è stata appena pubblicata su Nature Climate Change. Le notizie, per una volta, non sono spaventose, e restituiscono un senso di possibilità ancora aperto. Questo studio è il più vasto e completo mai fatto sui correnti impegni dei paesi per ridurre le emissioni di gas serra, è stato fatto in collaborazione tra il Basque Centre for Climate Change e l'Imperial College di Londra.

Secondo i ricercatori, rispettando tutti i correnti impegni di riduzione delle emissioni già messi nero su bianco riusciremmo a stare dentro la soglia di sicurezza più alta dell'accordo di Parigi, l'aumento di temperatura di 2°C rispetto all'inizio dei cambiamenti climatici. La ricerca tiene conto sia degli impegni di medio termine (solitamente meno ambiziosi ma più precisi) che di quelli di lungo termine (al contrario più ambiziosi, ma anche più vaghi).

Se questi impegni fossero mantenuti, la frenata di emergenza dalla crisi dei combustibili fossili potrebbe farci interrompere la corsa a pochi metri dal muro in cui ci rischiamo di schiantarci, in una zona compresa tra +1.7° e 1.8°C, non un mondo facile in cui vivere ma nemmeno il mondo ostile alla vita umana nel quale dovrebbero abitare le prossime generazioni se sfondassimo quota +2°C.

Si tratta di risultati più ottimistici di quelli con i quali abbiamo ragionato finora, che mettevano il punto di atterraggio tra +2°C e +2.4°C. Ovviamente, in questo caso il punto fondamentale è l'attuazione degli impegni. La nostra frenata sarà efficace se davvero le grandi economie della Terra riusciranno a portare nella realtà quei net-zero pledge annunciati negli ultimi anni, se l'Unione Europea e gli Stati Uniti arriveranno alla neutralità climatica nel 2050, se la Cina raggiungerà quel risultato nel 2060 e se l'India lo raggiungerà nel 2070.

Shivika Mittal dell'Imperial College di Londra ha presentato le dimensioni della frenata e i settori in cui è necessario trasformare le promesse in realtà. «Le sfide sono socio-economiche, tecnologiche e di uso del suolo, le cinque azioni da attivare sono: decarbonizzare l'elettricità, elettrificare i trasporti e il riscaldamento, decarbonizzare l'industria e aumentare l'efficienza energetica».

A questi livelli operativi l'Agenzia internazionale dell'energia ne ha aggiunto un altro nella sua comunicazione indirizzata al G7 di Hiroshima: i metalli critici. Non c'è transizione se non riusciamo a rendere razionale, efficiente e sostenibile la filiera dell'elettrificazione. Per questo motivo la IEA organizzerà a Parigi il 28 settembre il primo Critical Minerals and Clean Energy Summit. Sarà un passaggio decisivo per definire la roadmap della frenata esistenziale più importante che l'umanità abbia mai dovuto affrontare.

La trappola dei condizionatori

LaPresse

Abbiamo parlato di condizionatori la settimana scorsa, per via della mostra di arte e scienza organizzata in collaborazione con il CMCC a Venezia, e torno su questo argomento perché le ondate di calore sono la nostra prossima crisi dietro l'angolo e perché ho letto un approfondimento interessante su Bloomberg che, ancora una volta, ci porta sull'unica scala che conta: quella globale.

Potremmo definirla la trappola dei condizionatori: sono uno strumento di sopravvivenza, ma contribuiscono anche ad aggravare la stessa crisi che ci aiutano a navigare. La domanda di condizionatori cresce negli stessi paesi dove aumentano sia il caldo che il reddito che la popolazione: Cina, India, Indonesia, Filippine sono tra quelli citati.

E quindi entro la fine del decennio per risparmiarsi le temperature da bulbo umido che possono essere letali anche per una persona giovane e sana, gli esseri umani aggiungeranno un miliardo di condizionatori al conteggio attuale. È un mercato che raddoppierà entro il 2040. Bene la salute, male per il clima.

Non c'è una risposta facile. Secondo Bloomberg, c'è una soglia oltre la quale la curva di adozione di questa tecnologia si impenna: 10mila dollari l'anno di reddito medio della popolazione.

Le Filippine l'hanno appena superata, in India è stata superata la soglia dei 9mila dollari quest'anno (e oggi l'80 per cento degli indiani non ha un impianto di aria condizionata, nonostante le ondate di calore devastanti), l'Indonesia ci arriverà entro fine decennio, la Cina c'è già.

È una verità semplice: i paesi più caldi tendono a essere anche i più poveri. Il caldo impatta sulla produttività, quindi sull'economia, quindi sulla povertà. In India si perdono 2 punti percentuale di produttività per ogni aumento di 1°C.

Le regole sui refrigeranti nelle economie emergenti tendono a essere meno stringenti di quelle che abbiamo in Europa o negli Stati Uniti, quello più usato in questi paesi è molto più nocivo per il clima della stessa CO2. E quindi, per usare le parole di Abhas Jha, esperto di clima della Banca mondiale, «se non migliorano gli standard di efficienza degli impianti, il pianeta si troverà a essere letteralmente cotto», da un miliardo di nuovi condizionatori. L'accesso a temperature sostenibili dentro la propria abitazione è un diritto umano. La mostra del CMCC mostra strategie di adattamento più efficienti e meno intensive dal punto di vista energetico, ma poi dobbiamo tornare sempre allo stesso punto: se le temperature aumenteranno in modo incontrollabile, oltre i +2°C, non ci sarà efficienza che tenga.

Ornitorinchi e speranza

ASSOCIATED PRESS

C'è un affezionato lettore di Areale, per proteggere la sua identità lo chiameremo semplicemente G.S., che mi ha raccontato di apprezzare i piccoli racconti di biodiversità dal mondo, i cauti esercizi di meraviglia che ogni tanto appaiono in questa newsletter e che servono anche a rendere più tollerabile l'atto di prenderci cura di questo pianeta e delle nostre possibilità di abitarlo in futuro e lasciarlo abitabile a chi verrà dopo di noi. E quindi questa settimana chiudiamo con una piccola storia di ornitorinchi, creature bizzarre e interessanti che sono state definite «vittime silenziose della crisi climatica», particolarmente sensibili agli sconvolgimenti causati dalla siccità e dalla trasformazione degli ecosistemi che abitano.

Gli ornitorinchi erano spariti da decenni dal Royal National Park di Sidney, a causa di un disastro ambientale che aveva portato allo sversamento di inquinanti chimici nelle acque del parco.

Quel parco è considerato una specie cortile ecologico peri-urbano degli abitanti della città australiana, e sappiamo quanto città e dintorni siano luoghi popolati di una biodiversità nascosta e in difficoltà, e ora è stato avviato un programma di ripopolamento degli ornitorinchi come tanti che abbiamo visto e raccontato nel mondo in questi anni.

Cinque femmine, e poi cinque maschi, perché le femmine hanno bisogno di trovare il loro spazio in sicurezza prima dell'arrivo dei maschi, altrimenti la reintroduzione rischiava di fallire (puoi vederci la metafora che vuoi in questo), è un progetto della University of New South Wales con il WWF, un piccolo atto di speranza locale ai margini di una metropoli remota, per G.S. e per tutti noi.

Per questa settimana è tutto, grazie per le ricette vegane che mi avete mandato (vi farò sapere come vanno!), se hai voglia di scrivermi, come sempre l'indirizzo è ferdinando.cotugno@gmail.com, per comunicare con Domani invece la mail è lettori@editorialedomani.it

A presto, buon sabato!

Ferdinando Cotugno 

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