La fusione nucleare è stata studiata per più di settant'anni, ripercorriamo la storia di questa elusiva fonte d'energia per individuare alcuni punti fermi e mettere un po' d'ordine fra le molte proposte sul tappeto.

A leggere i giornali si è indotti a pensare che la fusione nucleare per la produzione di energia elettrica sia a portata di mano e che, diversamente dalla vecchia fissione, sia più economica, più pulita e più sicura.

D'accordo non è ancora in rete, si sostiene, ma dipende da noi quanto in fretta ci fornirà energia. Lo dice per esempio l'amministratore delegato dell'Eni, Claudio Descalzi, al Comitato parlamentare per la sicurezza della repubblica (Copasir) in un'audizione del 9 dicembre scorso.

Qualche giorno fa il governo ha annunciato in parlamento l’entrata in funzione di un reattore a fusione nel 2028. Tecnicamente non è un’affermazione falsa, anche un esperimento può essere chiamato reattore ma se non si specifica il pubblico potrebbe pensare che siamo alle porte di una rivoluzione energetica. Come vedremo mancano ancora decenni non solo per produrre esigue quantità d’energia ma anche per sapere se vale davvero la pena di sviluppare questa tecnologia.

Si capisce che le cose sono complicate dando uno sguardo alla straordinaria varietà dei metodi adottati dalle iniziative private della fusione. C’è chi usa il combustibile delle bombe come la Commonwealth Fusion Systems, della quale l’Eni è azionista di maggioranza relativa, c’è chi usa la collisione boro-protone come la Tae, finanziata in parte dall’Enel, chi sfrutta il confinamento magnetico come la Tokamak Energy e chi si ispira alla chela dell’Alpheus heterochaelis, il gambero pistola, come la First Light Fusion di Oxford. Le compagnie sono una trentina e altrettanti sono i metodi, per la maggior parte già studiati, e scartati, in passato dalla comunità accademica, e ancora l’industria non ha deciso che strada seguire. La confusione è indice della distanza dall’obiettivo.

Come il Sole?

L’ispirazione per la fusione nucleare venne guardando il cielo, ebbe origine con il mistero dell’energia che alimenta le stelle. All’inizio si pensò alla gravità, un’idea meno stupida di quel che sembra per un corpo grande come il Sole.

Giove, ad esempio, un pianeta gassoso, ha una temperatura superficiale doppia di quella terrestre che la gravità alimenta mentre il pianeta si sgonfia di pochi millimetri all’anno.

La gravità era anche l’ipotesi caldeggiata da lord Kelvin per il Sole durante una famosa riunione della Royal Society del 21 gennaio 1887. La temperatura superficiale del Sole gli faceva dedurre che la nostra stella aveva brillato per circa dodici milioni di anni, molto più a lungo di quanto afferma la Bibbia.

I paleontologi insorsero, l’energia gravitazionale non basta, i fossili sulla Terra sono testimoni di un Sole che brilla da parecchie centinaia di milioni di anni.

La discussione restò sospesa per qualche anno finché Arthur Eddington negli anni Venti ipotizzò che il calore venisse dalla fusione di idrogeno in elio. Si sapeva già allora che l’elio pesava sensibilmente meno di quattro atomi di idrogeno e che questa differenza è ciò che alimenta il Sole. C’era ancora qualcosa che non funzionava, la temperatura interna sembrava troppo bassa per sostenere le reazioni. Pochi anni dopo emersero importanti nuove ipotesi sul decadimento di idrogeno in elio e a Cambridge negli anni Trenta i primi acceleratori dimostrarono sperimentalmente l’esistenza delle reazioni di fusione.

Negli anni Quaranta alcuni illustri reduci di Los Alamos – i fisici che avevano lavorato alla bomba atomica – studiarono il problema, identificando correttamente le reazioni principali e la nucleosintesi stellare prese la fisionomia che ha attualmente.

Le recenti osservazioni dei neutrini solari confermano le ipotesi degli anni Quaranta: la fusione dell’idrogeno ordinario, quello dell’H2O, fornisce tutta l’energia irradiata dal Sole.

Cosa c’entra questa storia con la fusione nucleare di cui si parla tanto sui giornali in questi giorni? Quasi nulla. È sorprendente ma le stelle, grazie alla loro enorme dimensione e strabiliante pressione, brillano a 5000 gradi bruciando con una lentezza esasperante, con l’intensità di una pila di compostaggio. Se non fosse così esploderebbero.

Noi sulla Terra, con la nostra sete di energia di dieci chilowatt pro capite, non sapremmo cosa farcene della fusione stellare dell’idrogeno che ha la potenza del nostro metabolismo basale. Quel che potrebbe servire sulla Terra viene da un altro ramo della scienza, quello delle armi.

Verso l’idrogeno

Dopo lo sviluppo degli ordigni nucleari basati sull’uranio della Seconda guerra mondiale, arrivano anche le applicazioni della fusione degli atomi leggeri e negli anni Cinquanta, allo scopo di superare i limiti di potenza della fissione, vengono approntate in totale segretezza le prime bombe all’idrogeno.

Questa volta l’idrogeno non è il principale componente del Sole, o della molecola d’acqua, ma due suoi isotopi rari.

Dalla fusione arrivano le armi più potenti, come la madre di tutte le bombe, la Bomba Tsar sovietica da 40 megatoni (speriamo non ce ne siano altre in magazzino) e anche metodi di produzione più economici per le armi nucleari, le bombe atomiche boosted, potenziate dalla fusione.

Così si scopre qual è il combustibile ideale per le applicazioni, quello che brucia facilmente, una miscela di deuterio e trizio (DT), due isotopi dell’idrogeno.

È naturale che si pensi quasi subito ad utilizzare la fusione anche per la produzione di energia elettrica e iniziano i programmi di ricerca – all’inizio segreti poi, a partire dagli anni Sessanta, alla luce del sole.

La Fusione a confinamento magnetico, Mcf, è da subito il metodo che raccoglie il favore di chi ricerca una combustione continua del deuterio-trizio e fino ad ora il metodo magnetico è rimasto il preferito.

Il dispositivo più popolare per realizzarlo si chiama Tokamak, un acronimo russo attribuito ai suoi inventori, Igor Tam e Andrei Sakharov, lo stesso della bomba H e dei diritti civili – il mondo dei fisici cinquant’anni fa era ancora piccolo.

La fusione è strettamente legata alle armi termonucleari: hanno in comune la materia prima, componenti sofisticati e rari – deuterio e trizio – non certo l’acqua del mare come si legge spesso sui comunicati stampa.

Il deuterio, il due per mille circa dell’idrogeno, si reperisce facilmente e costa solo 4$ al grammo. Il trizio invece non è presente in natura, ha una vita media di dieci anni ed è prodotto molto lentamente solo dai reattori nucleari Candu.

Le scorte di trizio al mondo consistono in circa 50 kg accumulati in anni, a malapena sufficienti per futuri esperimenti, ed è mille volte più caro dell’oro.

Le armi hanno risolto l’approvvigionamento del trizio estraendolo dal litio bombardato dai loro stessi neutroni.

È lo stesso litio che si usa per le moderne batterie dei cellulari, e delle auto elettriche, ma nel caso in questione verrebbe distrutto in quantità così modeste da non aumentarne la scarsità.

Nella fusione civile la possibilità di estrarre abbastanza trizio dal litio è tutt’altro che scontata, le previsioni teoriche non sono buone, prove non se n’è mai potute fare, ed è uno dei risultati più attesi di Iter, un gigantesco esperimento di confinamento magnetico in costruzione nel sud della Francia, che arriverà fra un paio di decenni.

Bisogna anche tener presente che, se mai la fusione risultasse possibile, i reattori a fusione dalla taglia tipica di mille megawatt resterebbero in fila a migliaia per approvvigionarsi del trizio necessario per contribuire ai 16 milioni di megawatt dei consumi globali.

Centinaia di esplosioni al minuto

Già si capisce che tre comuni affermazioni a proposito della fusione, cioè che sia alle porte, economica e sicura, sono premature. Il combustibile non è l’acqua del mare ma è difficilmente reperibile ed è lo stesso della maggior parte di quegli ordigni nucleari che sarebbero così pericolosi nelle mani sbagliate.

Per ora non esistono ancora armi esclusivamente a fusione, attualmente hanno bisogno di un innesco a fissione, ma esplosioni di puro deuterio-trizio sarebbero molto attraenti perché, a parità di potere distruttivo, sono piú “pulite”, meno ricche di scorie radioattive, di quelle al plutonio.

Non è un caso che il secondo progetto di fusione per finanziamenti al mondo dopo Iter, quasi dieci miliardi di dollari di fondi, il Nif del Lawrence Livermore National Laboratory in California, sia finanziato dal Department of Defence e non dal Department of Energy.

Il Nif ha dimostrato di poter far esplodere mini capsule di deuterio-trizio da un millimetro di diametro innescate dal più grande laser del mondo, grande come tre campi da football.

Per ora non sono esplosioni di un chilotone, mille tonnellate di tritolo, ma di un millitone, un millesimo di tonnellata, cioè un candelotto di tritolo. Sappiamo però che, come in tutte le detonazioni, l’operazione difficile è innescarle. Il Nif viene presentato anche come un metodo adatto a un reattore a produzione continua.

Lascio immaginare quanto sia realistico inanellare con precisione sub millimetrica centinaia di esplosioni al minuto per decenni, esplosioni che già individualmente portano al limite della sua resistenza una camera d’acciaio sotto vuoto grande come una palestra.

La Fusione a confinamento inerziale, Icf, della quale il Nif è l’esempio più noto, non è l’unica alternativa al confinamento magnetico, Mcf, di Iter. Tra le altissime densità di combustibile dell’Icf, centinaia di volte il solido, e le bassissime densità dell’Mcf, decine di migliaia meno della nostra atmosfera, si potrebbero utilizzare densità intermedie, che sfruttano sia i campi magnetici dell’Mcf, sia le rapide compressioni dell’Icf.

Pochi sono stati i tentativi in questo senso nella storia della fusione ma a Colleferro, nei laboratori del Cnen, negli anni Sessanta, si fecero esperimenti con risultati promettenti.

Furono prodotte sorgenti ad alta intensità di neutroni da fusione implodendo plasmi magnetizzati con l’aiuto di esplosivi chimici convenzionali.

Il confinamento del combustibile era assicurato da un intenso campo magnetico e la ragione della scarsa popolarità del metodo va ricercata nella difficoltà ad immaginare esplosioni ad alta ripetizione, per anni e anni, come si richiederebbe in un reattore. Bombe tattiche di bassa potenza e che inducono poca radioattività tornano però immediatamente in mente come una possibilità per il metodo a densità intermedia.

Il sogno di Jeff Bezos

Dagli anni Sessanta in poi non se n’è più parlato, fino a qualche anno fa quando nacque una piccola iniziativa privata in Canada, la General Fusion (GF). La GF propone qualcosa di molto simile ma con pistoni meccanici al posto degli esplosivi. Secondo chi la propone la nuova tecnica permetterebbe di ripetere ciclicamente la combustione del deuterio-trizio a un ritmo e a un costo potenzialmente attraenti.

A Colleferro non erano arrivati all’ignizione neppure con gli esplosivi e nessuno avrebbe dato troppo peso alla General Fusion, una delle decine di iniziative private della fusione, se non fosse che Jeff Bezos, il patron di Amazon, ha deciso di finanziarli, investendo fino a due miliardi di dollari.

A proposito, delle idee di General Fusion è un vero peccato non avere ora il parere dei ricercatori del Cnen, ora Enea, che fecero gli esperimenti di Colleferro.

Purtroppo i firmatari delle brillanti pubblicazioni di quei tempi non sono più fra noi. Questa osservazione ci ricorda anche quali siano i lunghissimi tempi di sviluppo della fusione. Quasi altrettanto interessante sarebbe chiedere a Jeff Bezos se abbia mai notato che i dispositivi da lui finanziati potrebbero suggerire anche l’ingegnerizzazione di ordigni nucleari.

Le applicazioni militari della fusione civile sono sicuramente un inconveniente importante, ma l’inevitabile attivazione radioattiva delle strutture di un reattore a fusione lo è ancora di più. Contrariamente al nucleo solido di un reattore a fissione il combustibile tenue di un reattore a fusione a confinamento magnetico è trasparente ai neutroni che produce e diventa un potente generatore di neutroni che vengono arrestati solo dalla prima parete solida che incontrano.

Anche Iter, solo un esperimento, originerà decine di migliaia di tonnellate di materiale radioattivo il cui smaltimento contribuirebbe certamente al costo del chilowattora di un reattore concettualmente simile.

Il prezzo dell’energia alla fine deciderà lo sviluppo di questa nuova fonte. Il paragone per ora è con il gas naturale, che negli Stati Uniti produce elettricità al costo imbattibile di 2 centesimi al chilowattora e con le rinnovabili, l’eolico e il solare, ormai solo tre o quattro volte più care del gas.

Gli impianti nucleari sono troppo grandi per godere dell’economia di scala delle produzioni in serie delle turbine a gas, dei pannelli solari e delle pale eoliche.

Questa caratteristica li penalizza enormemente e ci sono solide ragioni fisiche e di sicurezza che la rendono inevitabile.

La fusione è per ora troppo indietro nel suo sviluppo industriale per poter partecipare alla decarbonizzazione in questo secolo, per questo dev’essere perseguita con un’ottica di lunghissimo termine e tenuta lontana dalla speculazione finanziaria.

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