«Siamo nell'epoca dell'ebollizione globale», ha detto il segretario dell'Onu Guterres. E ha aggiunto: per Nord America, Asia, Africa, Europa, questa è «un'estate crudele», una cruel summer, quasi una citazione della canzone - per chi se la ricorda - resa famosa da Karate Kid e poi dagli Ace of Base. «Hot summer streets and the pavements are burning / I sit around Trying to smile, but the air is so heavy and dry».

È un'estate crudele per le temperature (è stato il luglio più caldo della storia, per chi è qui per i record), le tempeste, gli incendi, le perdite umane, le perdite materiali, le perdite cognitive.

È il duemilaventitré e qui in Italia abbiamo ancora un ministro dell'ambiente, il signor Gilberto Pichetto Fratin da Biella, che ancora oggi va in televisione - a Sky TG24 - a esprimere dubbi lì dove dubbi non ci possono essere, «è quello, non è quello, non lo so, so che c'è». Grazie, eh.

Sull'origine antropica dei cambiamenti climatici il nostro ministro dell'ambiente nutre ancora dei dubbi, ma forse siamo noi a doverlo capire, di formazione Pichetto Fratin è commercialista, deve essere ancora rimasto all'origine antropica degli F24. Questo è il numero 133 di Areale, uno degli ultimi prima delle vacanze, buon sabato, partiamo.

I limiti del negazionismo

Questa settimana è stata il trionfo del negazionismo climatico. I titoli di Libero, Verità, Giornale, le uscite del ministro, le partecipazioni fiume di Franco Prodi ai talk show (ma non ha un amico? Un fratello? Quelle uscite, al di là dei danni, mettono anche una certa tristezza), dell'arroganza di Andrea Giambruno, un conduttore televisivo che un anno fa nemmeno il più teledipendente conosceva e che ora è dappertutto, compagno di Giorgia Meloni, con la sua raffinata crociata: «ha fatto sempre caldo, su».

Lunedì uscirà su Domani un mio articolo sulle radici, la morfologia, la grammatica, i rischi e gli obiettivi di questo negazionismo climatico, qui aggiungo solo una cosa, che per me è confortante e spaventosa allo stesso tempo: la realtà vince sempre.

La realtà, con le sue ragioni fisiche, materiali, organiche, che ci sta scaricando addosso tutta la sua non negoziabile concretezza. Puoi andare in Tv a dire che tutto questo non esiste, ma non puoi negare alle persone la loro esperienza del mondo.

Puoi sbuffare contro le inviate che ti citano l'IPCC e toglier loro la linea, puoi litigare con un ministro tedesco, caro Andrea Giambruno, ma le persone se ne sono accorte che tutto questo non è normale, non hai bisogno di leggere 2mila pagine di rapporti IPCC per saperlo.

Il clima è un sistema complesso, che nessuno potrà mai davvero capire del tutto, ma è anche un organo interno nostro, un sensore della normalità e dell'anormalità, una spia impazzita che ti dice che le cose non vanno bene, e non te lo dice solo se sei ambientalista. Anzi, se già hai una storia personale di percezione dei cambiamenti climatici, hai anche una storia di autogoverno di quell'ansia, di quella paura (certi giorni bene, certi giorni meno bene, ma insomma).

Penso a tante conversazioni che ho avuto nelle ultime settimane, gli ultimi arrivati, quelli che - dopo un'esistenza di «media cecità» per parafrasare Amitav Ghosh - hanno finalmente iniziato a vedere. Ho uno zio, un cugino di mio padre, che per tutta la vita ha fatto una sola cosa: gestire un lido.

Lo gestiva suo padre, chissà se lo gestirà sua figlia, è un balneare, insomma. In Italia è un'occupazione peculiare, fatta di privilegio, familismo amorale, beni comuni a uso privato, idee generalmente conservatrici, attaccamento a uno status quo economico, sociale, produttivo.

Questo cugino di mio padre è una persona che non apprezza i cambiamenti, come chiunque tragga profitto dall'alternarsi delle stagioni. Sono andato a trovarlo, lo scorso weekend. Sa di cosa mi occupo, sa le cose che penso. Non mi ha nemmeno salutato, mi ha subito detto: «l'acqua è troppo calda, qui». Eh. Il lido si trova sul mar Tirreno, non luoghi sabbiosi lungo la costa settentrionale della Campania. «Il mare è caldo, è una vasca, non è più il mare di prima». Eh.

Pochi giorni dopo questa conversazione, sono usciti i dati ufficiali: la temperatura media del Mediterraneo non era mai stata così alta, 28.40°C, contro i 28.25°C del 2003. Si è seduto a parlarmi, bevendo caffè orribile da un bicchierino di plastica monouso, mi ha raccontato una storia di specie aliene, il flagello del granchio blu, callinectes sapidus – «bella nuotatrice saporita» – creatura delle coste nordamericane dell'Atlantico che imperversa nelle nostre acque.

E poi il caldo: fa troppo caldo, la gente nelle giornate così calde non viene più, non ce la fa, non regge, mi ha detto. Non lo so cosa ne pensano i media di governo, ma in Italia fa così caldo che certi giorni non si riesce nemmeno più a stare in spiaggia.

Questo zio conservatore, sensibile alle ragioni del governo, con interessi tutto sommato allineati, però la sente l'onda dell'ansia, dello sconvolgimento ecologico, una vita fondata sulle stagioni e tradita dalle stagioni, senza nemmeno più voglia o forza di negare che c'è qualcosa che non va. Il negazionismo è esploso, è doloroso, sta premendo tutti i bottoni e nostri trigger in questa estate crudele di ebollizione, ma quale futuro può avere contro la concretezza della realtà?

A proposito di IPCC

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Sono stati giorni in cui si è parlato tanto di IPCC, per l'ennesima volta Franco Prodi ha detto in Tv «Fermare il treno dell'IPCC», chissà cosa vuol dire, cosa ci vede in quella metafora, cosa gli risuona, poi c'è stata l'inviata di Mediaset Rossella Grandolfo che ha detto IPCC in faccia a Giambruno, il nostro dibattito pubblico più ampio sta iniziando a riconoscere l'esistenza di questo organismo dell'Onu, la cassazione della scienza del clima (e premio Nobel per la pace nel 2007, forse non lo ricordiamo abbastanza), e proprio da questa settimana la cassazione ha un nuovo presidente. Il 26 luglio l'IPCC ha tenuto la sua 59esima riunione a Nairobi, in Kenya, e ha eletto Jim Skea, britannico, 69 anni, docente di Sustainable Energy all'Imperial College in London.

Sarà lui a condurre i lavori che ci porteranno al settimo rapporto, ha vinto per 90 voti contro i 69 della seconda arrivata, Thelma Krug, ex coordinatrice dell'osservazione terrestre all'Istituto nazionale per la ricerca spaziale del Brasile, quello che ci ha dato i numeri veri della deforestazione in Amazzonia anche durante gli anni di Bolsonaro.

Non è ancora mai successo che una donna fosse presidente dell'IPCC (ed è la prima volta che c'erano donne candidate alla posizione, questa). Skea ha messo in cima al suo programma la creazione di un IPCC «autenticamente rappresentativo e inclusivo, dove tutti si sentano valorizzati e ascoltati», migliorare inclusione e diversità, che negli ultimi anni non sono stati proprio una caratteristica della scienza del clima (né della scienza in generale).

Transizione e polarizzazione

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Il Washington Post ha raccontato un'interessante storia di polarizzazione politica sulla transizione ecologica, partendo dal dilemma nel quale si trovano i rappresentanti dei repubblicani sui territori che possono ricevere, o respingere, i sussidi garantiti dall'Inflation Reduction Act votato da Biden quasi esattamente un anno fa.

Da un lato non ci sono soltanto l'ecologia e la decarbonizzazione, ci sono soprattutto i soldi, e le opportunità di sviluppo. Lavori verdi, soldi verdi. Ma soprattutto: lavoro e soldi, nelle rinnovabili, nell'elettrificazione, nelle batterie.

Dall'altro, però, c'è il fatto che accettarli significa far funzionare il piano per il clima di Biden. E quindi c'è la storia di queste battaglie per convincere la popolazione di stati come l'Ohio che no, i pannelli fotovoltaici non contaminano l'acqua potabile e no, le turbine eoliche non ostacolano il segnale telefonico e no, i parchi solari non diventano colonie di ratti famelici.

La disinformazione è particolarmente attiva, in questo momento, perché non si possono convincere le comunità a rifiutare fondi, sussidi e incentivi solo per fare un dispetto al presidente, e allora si inventano storie e leggende sulle rinnovabili.

«In tutto il paese, le compagnie fossili stanno aiutando a fomentare l'opposizione contro le rinnovabili», scrive il Washington Post. E questa è una lezione anche per noi: l'inattivismo fossile e la disinformazione negazionista non sono due livelli interdipendenti, ma si nutrono a vicenda. L'inattivismo ha bisogno di bugie, il negazionismo ha bisogno di un orizzonte.

Se questo è un hamburger

La politica italiana è una fabbrica di assurdità sempre nuove. Per esempio, la Lega si sta battendo per un emendamento al disegno di legge sui cibi sintetici che è puro surrealismo autolesionista. Cancellando tre decenni di storia, consumi e sviluppo economico, l'emendamento vorrebbe vietare di chiamare hamburger gli hamburger vegetali.

«Divieto di utilizzo della denominazione di carne per prodotti trasformati contenenti proteine vegetali». È di questo che parliamo quando parliamo della forzatura di ogni frontiera ecologica in una culture war permanente, anche a rischio di fare danni ad aziende italiane per una mera questione di principio lessicale.

Non passerà, però ci dice qualcosa su come siamo messi. Intanto, è uscita su Nature Food una nuova ricerca dell'Università di Oxford sugli effetti climatici e ambientali delle diete vegetali. Effetti che già conoscevamo, è la metodologia dello studio a renderlo interessante: non è stato fatto usando la modellistica, ma la statistica, e in particolare basandosi sulle diete vere, effettive, di 55mila inglesi di ogni ortodossia e regime alimentare, dai vegani agli onnivori.

E ovviamente i risultati ci portano sempre lì, ci fanno stare sempre lì: un'alimentazione plant based emette il 75 per cento in meno di un'alimentazione onnivora. E se gli onnivori britannici dimezzassero il loro consumo di carne (da 100 grammi al giorno a 48 grammi al giorno) avrebbero lo stesso effetto climatico di togliere 8 milioni di auto a benzina o diesel dalle strade.

Le diete vegetali inoltre usano il 75 per del suolo in meno, il 54 per cento dell'acqua in meno, causano il 66 per cento della perdita di biodiversità in meno. Ora torniamo a parlare dell'emendamento della Lega. Anzi, magari no.

Un mondo di contenziosi climatici

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Proprio nella settimana in cui Eni ha citato per diffamazione Greenpeace Italia e ReCommon nel contesto di un recente contenzioso climatico messo in piedi dalle due Ong, è uscito un rapporto dell'Unep, l'agenzia dell'Onu per l'ambiente, su questo tema. Secondo lo studio, il numero totale di cause portate nei tribunali di tutto il mondo sulla crisi climatica è più che raddoppiato dal 2017 a oggi.

«Le politiche climatiche sono molto in ritardo rispetto a quello che servirebbe per tenere le temperature globali al di sotto della soglia di 1.5°C, con ondate di calore sconvolgenti ed eventi estremi che stanno affiggendo il pianeta», ha commentato Inger Andersen, direttrice esecutiva di Unep.

«Le persone si stanno sempre più rivolgendo ai tribunali per combattere la crisi climatica e inchiodare sia i governi che il settore privato alle loro responsabilità, facendo di questi contenzioni un meccanismo chiave per rafforzare l'azione per il clima e promuovere la giustizia climatica». Con buona pace di Eni. Il rapporto è stato scritto in collaborazione con il Sabin Center for Climate Change Law della Columbia University e si intitola Global Climate Litigation Report: 2023 Status Review.

Non casualmente, è stato presentato proprio nel primo anniversario della decisione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite di dichiarare l'accesso a un ambiente sano e salutare come un diritto umano universale. Che si può quindi rivendicare in un tribunale, creando di fatto una nuova forma di giurisprudenza con ormai sempre più precedenti legali a supporto.

Il numero totale di contenziosi climatici nel mondo nel 2017 era 884. Alla fine del 2022 le cause aperte e in attesa di un giudizio erano 2180. La maggior parte di queste sono all'interno degli Stati Uniti, dove questi metodi di lotta sono partiti prima, ma oggi il 17 per cento dei casi è nei paesi in via di sviluppo.

Sono in tutto 65 i tribunali internazionali, nazionali e regionali chiamati a rispondere su procedimenti di questo tipo, che siano per il rispetto dei termini dell'accordo di Parigi o quello degli impegni nazionali o internazionali di azzeramento delle emissioni.

In Italia ne abbiamo due aperti: quella già menzionata di Greenpeace e ReCommon contro Eni e quella, partita nel 2021 e denominata Giudizio Universale, contro lo stato italiano. I più casi simbolicamente significativi sono forse quelli portati avanti da bambini o da giovani con meno di 25 anni: sono 34, comprese le richieste legali di una bambina di sette anni in Pakistan (paese colpito l'anno scorso dall'evento estremo peggiore al mondo) e da una di nove anni in India. Sullo spettro opposto, in Svizzera c'è un'azione legale portata avanti di un gruppo di donne anziane.

Secondo il rapporto dell'Unep sono sei le categorie generali di contenzioso climatico (spesso sovrapposte tra loro nelle singole azioni legali): casi legati al rispetto dei diritti umani, casi legati al mancato rispetto delle leggi e delle policy nazionali sul clima, casi legati direttamente ai combustibili fossili, casi legati al greenwashing e alla trasparenza, casi legati alla responsabilità ambientale diretta del settore privato e casi legati al mancato adattamento ai danni della crisi climatica.

La previsione del rapporto Onu è che il numero di tribunali chiamati a intervenire su questo argomento continuerà a crescere, in particolare con processi sulla responsabilità diretta rispetto agli eventi estremi (di questa categoria ne abbiamo osservati già un po' negli Stati Uniti) o portati avanti da comunità vulnerabili in zone di sacrificio o da gruppi indigeni.

Tra le criticità future, ci sono il problema della scienza dell'attribuzione (quella che lega singoli eventi estremi al contesto della crisi climatica, settore di ricerca che - come abbiamo visto in Italia con il caso Romagna - sarà sempre più sotto pressione) e una serie di contro azioni legali, esattamente come quella abbiamo osservato in Italia nella storia di Eni contro Greenpeace e ReCommon.

Anche per questa settimana è tutto, questo è il penultimo numero di Areale prima della pausa estiva. Tu che farai? Dove andrai? Raccontiamoci le cose belle che vedremo, ne avremo bisogno per l'autunno. Per farlo, o per dirmi qualsiasi altra cosa, scrivimi a ferdinando.cotugno@gmail.com. Per comunicare con Domani, invece, l'indirizzo è lettori@editorialedomani.it

Buon sabato, a presto!

Ferdinando Cotugno

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