Inizio a scrivere questo numero di Areale mentre sto monitorando e lavorando su quello che è successo, sta succedendo e succederà ancora in Toscana, in Veneto, in Friuli e ovunque in Italia. Mi sembra di essere incastrato in un giorno della marmotta, in cui le cose che erano vere ieri continuano a essere vere oggi e sarà così anche domani. Certi giorni devi scrivere sempre lo stesso pezzo, perché il vero problema cronico è la nostra incapacità di imparare: abbiamo commissariato (senza risultati eccellenti, per altro) il dopo emergenza in Romagna, affidando la ricostruzione a un generale. Bene.

Qualche mese e due stagioni dopo la stessa storia di fiumi e fango si è ripetuta in Toscana. «Dobbiamo uscire dalla dicotomia tra clima e alvei, entrambi i lati contano», mi ha detto Serena Giacomin di Italian Climate Network. Si era detto dopo la Romagna che prima di ricostruire era necessario ripensare. E non stiamo ripensando, siamo solo capaci di tappare le falle, paracadutando commissari da un lato all'altro dell'Italia, mentre il consumo di suolo ha raggiunto nel 2022 i livelli più alti da un decennio. Non mitighiamo e non ci adattiamo, anno dopo anno sempre e solo spalare fango e seppellire i morti. «Il cambiamento climatico non può diventare una scusa», mi ha detto stamattina (ieri per te che leggi di sabato) in una telefonata molto concitata il meteorologo Luca Lombroso.

«È reale, è grave, gli amministratori non possono ridurre le emissioni, ma possono e devono gestire il territorio. Non è la Cina che deve metterlo in sicurezza, no? Siamo noi a doverlo fare». E non lo facciamo, perché ignoriamo la lezione vera: è un mondo nuovo che ci sta facendo scontare tutti i debiti del mondo vecchio.

Non c'entra ma c'entra: è da un po' che penso a ripenso a questa storia ambientata sul lago Maracaibo, in Venezuela, luogo di estrazione petrolifera, tormentato dalle macchie delle perdite di petrolio, così vaste che si vedono anche dallo spazio. È un ecosistema che sta rischiando di morire, con tutti i suoi abitanti, dai delfini ai lamantini passando per la gente che di quel lago vive. La comunità locale sta cercando disperatamente di pulirlo con un metodo poco ortodosso e commovente, che ci dice qualcosa sul nostro bisogno di affrontare la disperazione: assorbono il petrolio con i capelli donati dalle persone.

Si chiama Proyecto Sirena, una piccola associazione che gira la zona con borse di capelli umani e peli animali raccolti dai volontari. È un metodo consolidato, fu inventato in Alabama, testato dalla Nasa, validato da un'università australiana: i capelli umani sono il miglior materiale che esista per assorbire il petrolio, grazie alla cheratina. Ed è bello, ma è anche terribile, perché ci siamo ridotti a questo, usare i nostri corpi, letteralmente, per pulire il danno, per medicare la ferita, perché non siamo ancora in grado di risalire la corrente e ripensare il nostro rapporto con i territori, il pianeta, noi stessi. E quindi, in fondo alla catena di responsabilità, assenze, alibi, commissari, ci sono le persone che da oggi anche in Toscana inizieranno a pulire. Questo è il numero 144 di Areale, buongiorno, metti su il caffè, cominciamo?

La voragine dell'adattamento

EPA

Proprio nel giorno in cui, ancora una volta, l'Italia si è scoperta terribilmente indietro nell'adattamento alla crisi climatica, l'Unep ha pubblicato un devastante rapporto sul gap globale tra quello che stiamo facendo e quello che dovremmo fare per prepararci agli inevitabili effetti crescenti del riscaldamento globale. Una delle verità più citate nel contesto climatico è: «La mitigazione è evitare l'ingestibile, l'adattamento è gestire l'inevitabile». Sono come due ruote della stessa bicicletta, devono procede insieme. L'Unep è l'agenzia ambientale delle Nazioni Unite, ogni autunno pubblica una serie di rapporti che servono anche come avvicinamento politico alla conferenze Onu delle parti sui cambiamenti climatici di metà autunno. Quella del 2023, COP28, si terrà a partire dalla fine di novembre a Dubai, negli Emirati Arabi.

Quello sull'adattamento era uno dei più attesi, perché questo da tempo è uno dei fronti più scoperti, la ruota della bici che più gira a vuoto. Il rapporto si chiama Adaptation Gap ma, più che un gap, quella che mostra attraverso i suoi dati l'agenzia ambiente delle Nazioni Unite sembra una vera e propria voragine, più grande del 50 per cento rispetto a quello che si stimava in precedenza. Questa è una voragine che ha i suoi effetti più devastanti nei paesi del sud globale ma che colpisce anche le economie più sviluppate come l'Italia. Per altro l'ONU sottolinea, come dato di partenza, che l'85 per cento dei paesi ha un piano di adattamento ai cambiamenti climatici già operativo: tra questi però non c'è l'Italia, il nostro è ancora, dopo sette anni, in una fase di consultazione. I lentissimi tempi di reazione del nostro paese non fanno che aggravare l'emergenza.

Ma il gap di adattamento è innanzitutto un problema di risorse economiche. Proprio mentre la crisi climatica si sta amplificando, i fondi per rendere le comunità, le città e le infrastrutture più resilienti agli eventi estremi continuano a calare. Oggi i soldi messi in campo globalmente sono solo tra il 5 e il 10 per cento di quelli che servirebbero per affrontare l'emergenza sulla scala necessaria. In vista delle complicate sfide della COP28, questo è anche un problema di collaborazione e di fiducia tra i paesi sviluppati (e quindi considerabili responsabili dell'emergenza climatica) e quelli più vulnerabili. I fondi necessari arrivano oggi a 366 miliardi di dollari all'anno ma, invece di crescere sono calati, secondo gli ultimi dati, del 15 per cento. Una parte del mondo sta lasciando l'altra a se stessa. Oggi le risorse che servirebbero sono di 10-18 volte più grandi rispetto a quelle reali.

L'adattamento è innanzitutto un investimento: secondo l'Unep un miliardo di dollari speso in prevenzione e protezione contro le alluvioni permette di risparmiare quattordici miliardi in ricostruzioni successive. La direttrice dell'Unep, Inger Andersen, ha descritto così questo giorno della marmotta del mancato adattamento: «Come civiltà, non siamo ancora preparati al clima che cambia. Non abbiamo adeguata programmazione e non abbiamo messo in campo gli investimenti necessari, e questo ci rende ancora tutti esposti. Nel 2023 il cambiamento climatico è diventato ancora più distruttivo, ne vediamo le prove davanti ai nostri occhi e sui nostri schermi in continuazione. Ma non stiamo ancora agendo e la conseguenza è che le persone si trovano costrette ad affrontare la forza piena degli impatti climatici senza nessuno scudo di protezione. Più lasciamo indietro l'adattamento e più grandi saranno le sofferenze che dovremo affrontare».

Nelle 55 economie più vulnerabili al mondo rispetto agli effetti peggiori della crisi climatica, i danni e le perdite da cambiamenti climatici negli ultimi due decenni hanno ormai superato la cifra di 500 miliardi di dollari. Uno dei temi della COP28 sarà proprio come rendere operativo il fondo di compensazione sui danni e le perdite: servirà uno sforzo finanziario immane per affrontare i disastri futuri. L'invito contenuto nell'Adaptation Gap 2023 a migliorare gli strumenti di prevenzione serve esattamente a questo: ridurre le perdite che dovremo andare a compensare in futuro. È una lezione che però non sembra ancora essere stata appresa, né in Italia né su scala globale.

Inizia l'era del climate quitting?

ANSA

Lavoreresti nel settore oil&gas? Non è una domanda facile, soprattutto in un momento di crisi economica, scarse prospettive esistenziali, ricatti sociali vari, quindi non so come risponderei io, se mi trovassi nella posizione di dover affrontare questo dilemma. Non è una domanda per moralismi preventivi. Però ci ho riflettuto dopo aver intercettato questa ricerca sul fenomeno del climate quitting, la nicchia climatica dei vari «quitting» contemporanei. C'era quello «grande», poi c'è stato quello «silenzioso», sono le diserzioni dal mercato del lavoro di chi è nella condizione di farlo.

La variante climatica della diserzione è rinunciare o lasciare un lavoro nei settori più implicati nell'emergenza climatica. Un team congiunto di economisti europei ha affrontato la questione, indagando le ragioni di chi negli ultimi anni ha praticato una forma di climate quitting. Secondo i dati, metà delle lavoratrici / lavoratori Gen Z, cioè i più giovani, ha lasciato un lavoro a causa di un conflitto con i propri valori, e spesso erano valori legati all'ecologia e all'ambiente. Interessante. Come è ancora più interessante il problema visto dall'altra prospettiva: le industrie degli idrocarburi stanno facendo sempre più fatica ad attirare nuovi talenti.

La crisi reputazionale che stanno affrontando in questi anni diventa per loro anche un problema di risorse umane, soprattutto perché il settore dell'altra energia, quella rinnovabile e pulita, sta crescendo e quindi offre sempre più opportunità competitive. Un sondaggio tra 10mila professionisti nel mondo dell'energia ha scoperto che l'82 per cento di loro stava valutando l'uscita dal mondo oil and gas nei prossimi tre anni, la metà di questi per muoversi verso il settore rinnovabili.

Tra le storie raccolte, c'è una persona che ha detto semplicemente: «Non volevo avere sulla mia coscienza il fatto di rendere il mondo un posto peggiore, di star usando il mio talento e le competenze conquistate in anni di studio per avvicinare tutti al disastro climatico». Anche perché, per chi ha una coscienza ecologica, ipocrisia e greenwashing da dentro si vedono molto più chiaramente che da fuori. E, finché si ha un margine di scelta, ha senso non voler essere agenti del greenwashing per tutta la vita.

Inoltre, i ricercatori non affrontano questo tema, è una mia aggiunta: lavorare nel settore petrolifero è una strada che rischia di interrompersi a un certo punto, perché anche una carriera può diventare uno stranded asset, soprattutto la carriera di una persona giovane. A cinquant'anni, fare climate quitting è dura (qui rischiamo più che altro di vedere gli esodati climatici), ma poco prima dei trent'anni ha un senso anche strategico. Perché investire in un percorso e in competenze che rischiano di rivelarsi un vicolo cieco, se la transizione dovesse andare a buon fine? È una scommessa, è sempre una scommessa.

Il viaggio lento di Gianluca Grimalda, capitolo 3

(Grimalda è un ricercatore che sta tornando via terra e mare in Europa dalla Papua Nuova Guinea in coerenza con le sue ricerche sull’impatto dei cambiamenti climatici. Sta tenendo un prezioso e avventuroso diario sullo slow travel per la comunità di Areale). 

«Il mio viaggio di rientro in Europa dalle isole Salomone ha subito un’accelerazione formidabile. Ho coperto quasi 2000km in meno di una settimana. Nel primo viaggio in battello da Rabaul a Lae ho dormito per terra per 3 notti, ma almeno ho dormito grazie al materassino che funge anche da scrivania (se non per l’ultima notte in cui ho dormito quasi nulla a causa della pioggia che ha inondato la mia postazione al piano superiore del battello).

I locali non avevano il comfort del giaciglio di gommapiuma, e si sono arrangiati come hanno potuto tra scatole, cesti di vimini, ed involti di foglie di banano. Dopo avere schivato un tentativo di furto del mio cellulare, il battello ha affrontato lo stretto di Vitiaz, dove dieci anni fa un altro battello della compagnia affondò.

La nave ha beccheggiato per sei ore con mare forza 6, ma è poi arrivata in porto a Lae il mattino seguente. Mi sono spostato subito a Madang via pulmino, che non parte prima di essere interamente pieno. Secondo i miei calcoli, il pulmino viaggia così carico che le emissioni pro passeggero sono di 40 per cento inferiori alle stime iniziali basate sulle emissioni medie per mezzo di trasporto. Arriviamo a Madang la sera. Anche qui, come a Rabaul, si sono verificati disordini e saccheggi nelle ultime settimane.

Dopo giorni ad attendere imbarchi, sono stato baciato dalla fortuna. C’è ancora posto sul traghetto, e per giunta questa non arriva a Vanimo, la township più vicina al confine. Passo due giorni piacevoli sulla nave, allestendo il mio spazio ufficio e lavorando intensamente ai miei articoli. Chiedo ai locali quale sia l’attività principale di Vanimo, e mi rispondono il disboscamento finalizzato alla produzione di olio di palma. La proprietaria del progetto è una compagnia malese. Chiedo se ci siano delle preoccupazioni sulla deforestazione, ma non sembra essere il caso.
Mi aspetto di varcare il confine il giorno stesso per potermi subito dopo imbarcare per la capitale indonesiana Giacarta. Ma in Papua non si può mai essere certi di nulla fino a quando questo accada, ed anche dopo che qualcosa è accaduto ci si chiede se sia accaduto davvero. Il confine è bloccato dai proprietari terrieri locali che rivendicano probabilmente il diritto una quota sulle tariffe per i beni importati che varcano il confine. Chiedo quanto possa durare questo stato di tensione, alcuni mi dicono pochi giorni, altri mi dicono mesi. Nel viaggio lento, bisogna accettare che molte cose sfuggano al proprio controllo. Trovo posto da dormire nell’albergo della diocesi cattolica di Vanimo. Non ho idea per quante notti».

Per questa complicata settimana è tutto, ci leggiamo su Domani, o in giro, se ti va trovi un pezzettino della comunità sul canale Telegram di Areale, oppure puoi mandarmi una mail a ferdinando.cotugno@gmail.com. Per parlare con Domani, invece, la mail è lettori@editorialedomani.it

Buon sabato, tieni duro!

Ferdinando Cotugno

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