Questa puntata è dedicata a tutto quello che resiste, in queste ore, in questi giorni, in queste settimane, in questi decenni, in queste ere geologiche. In Australia c'è un albero che si chiama Eucalyptus recurva, ma per tutti è la gomma dell'era glaciale, residuo di un altro clima, un albero alto poco più di due metri, di cui sono rimasti soltanto sei esemplari in New South Wales.

Quando una specie arriva ad un solo esemplare, ed è ormai funzionalmente estinta perché aggrappata solo all'esistenza in vita di questo specifico individuo, si parla di endling. L'ultimo esemplare di una specie è il suo endling, l'ultima colomba migratrice, l'ultimo dodo, l'ultima gomma dell'era glaciale.

Queste piante non fiorivano da vent'anni e quest'anno è successo, i botanici del NSW Department of Environment le monitoravano da tempo, per la prima volta hanno prodotto dei semi, quei semi sono stati raccolti (non riescono più a far da sole, queste piante), passeranno agli Australian National Botanic Gardens di Canberra per essere coltivate, e poi, se tutto andrà bene, saranno piantate in natura, e vedremo come andrà, ma per una specie - quella umana - che sembra distruggere tutto quello che tocca, la possibilità di salvare effettivamente qualcosa mi sembrava un buon modo per partire, oggi, proprio oggi, e questo è il numero 141 di Areale, buon weekend e buona lettura.

Dall'Ipcc alla politica

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Parliamo spesso del tipo e del grado di coinvolgimento pubblico che può (e per certi versi deve) avere la scienza del clima in un'epoca di collasso. Il linguaggio slitta, cambiano le pratiche personali, avrai letto di Gianluca Grimalda, il ricercatore del Kiel Institute che ha deciso di non tornare in aereo della Papua Nuova Guinea per coerenza con i suoi studi climatici ed è stato per questo motivo licenziato.

Peter Kalmus, altro scienziato attivista, ha scritto su X che lui non prende l'aereo da oltre dieci anni. Però queste sono soprattutto scelte individuali. Una questione di specifiche, singole personalità e non di un cambiamento collettivo nella scienza. Preambolo lungo per parlare del primo paese che potrebbe essere guidato da una ex scienziata dell'Ipcc: il Messico.

Claudia Sheinbaum, 61 anni, era ex governatrice di Città del Messico, prima di lasciare la carica e decidere di correre per le elezioni presidenziali. È considerata l'erede politica e intellettuale dell'attuale presidente, Andrés Manuel López Obrador, un'eredità complessa e non sempre facile da ricevere.

Gli analisti dicono che Sheinbaum potrebbe essere l'Angela Merkel dell'America Latina, una mente da scienziata e l’attitudine da politica. Prima di entrare nelle istituzioni, Sheinbaum si occupava di ingegneria energetica, e in particolare di efficienza, e aveva contribuito a due rapporti dell'Ipcc, appunto. Da governatrice di Città del Messico, ha lavorato all'elettrificazione degli autobus, a mega progetti fotovoltaici come i pannelli solari sul mercato Central de Abasto, grandi piani sul risparmio idrico e il verde urbano. A giugno si vota.

Ma ora dobbiamo guardare a quell'enorme groviglio di contraddizioni che è il Messico: undicesimo produttore di petrolio al mondo, quindicesimo emettitore, unico paese G20 senza un obiettivo di azzeramento delle emissioni e in tutto questo un'azienda petrolifera pubblica (Pemex) considerata un orgoglio nazionale, che l’attuale presidente progressista, padrino di Sheinbaum, ha sempre sostenuto e finanziato e mai messo in discussione.

Non come l'Istituto Nazionale Ecologia e Clima che invece sembrava stesse per essere chiuso perché costava troppo. È questo il paese che l'ex scienziata Ipcc si potrebbe trovare a guidare tra qualche mese.

Un accademico che si occupa di ecologia, Luis Zambrano, ha detto a Bloomberg: «A un certo punto, Sheinbaum ha optato per la politica, e non per la scienza», il che non sarebbe nemmeno necessariamente un male. Dipende da quale politica, e dal come si affrontano certi compromessi. Ed è per questo che il Messico a guida Sheinbaum potrebbe essere un esperimento interessante, l'ennesimo in arrivo dall'America Latina, dopo il Cile di Boric e la Colombia di Petro.

Storie di ghiaccio che non c'è più

ANSA

Il nuovo periodico bollettino antartico di Areale invece ci riporta a numeri su vastissima scala, forniti da una nuova ricerca della Leeds University, fatta partendo da 100mila immagini satellitari per studiare la salute delle piattaforme di ghiaccio galleggiante del continente e pubblicata su Scientific Advances.
Risultati: brutti.
Più del 40 per cento delle piattaforme di ghiaccio ha perso massa dal 1997, la metà di queste non mostra nessun segno di ripresa, in tutto si sono perse 7,5 tn di tonnellate di ghiaccio tra il '97 e il 2021. È una perdita che mostra lo squilibrio tra quello che succede nell'Antartide orientale, più freddo e climaticamente stabile, un'area che addirittura aggiunge ghiaccio, e quello occidentale, che invece è molto più instabile, a causa dell'influsso di oceani sempre più caldi.

Le piattaforme di ghiaccio galleggiante stanno ai confini dei ghiacciai, è come se fossero barriere protettive che impediscono all'acqua dolce di fusione di riversarsi nell'oceano. Se si rimpiccioliscono, come succede nell'Antartide occidentale, è un grande problema di equilibrio. L'effetto è che 67 milioni di tonnellate di acqua dolce sono finite negli oceani negli ultimi venticinque anni, alterandone le correnti e i nutrienti.

Visto che parliamo di ghiaccio, passiamo a quello italiano delle Alpi, che veniva da un'estate spaventosa, quella del 2022, la più calda nella storia europea, ma quella appena trascorsa (trascorsa?) non ha dato grandi segnali di ripresa. Anzi. Le prime nevicate stagionali forse arriveranno a breve (speriamo), nel frattempo Greenpeace Italia e il Comitato Glaciologico Italiano (CGI) hanno pubblicato un nuovo rapporto intitolato Giganti in ritirata: gli effetti della crisi climatica sui ghiacciai italiani, una fotografia della sofferenza delle prime sentinelle della crisi sul nostro territorio.

Greenpeace e Comitato Glaciologico Italiano hanno fatto due spedizioni estive su due dei ghiacciai più grandi e importanti delle nostre montagne, il Ghiacciaio dei Forni, in Alta Valtellina, nel Parco Nazionale dello Stelvio, e il Ghiacciaio del Miage, nel versante italiano del massiccio del Monte Bianco, in Valle d’Aosta. Come stanno? Male. Male, purtroppo. Il Ghiacciaio dei Forni durante l'ondata di calore di agosto (quando lo zero termico era sopra i 5mila metri) perdeva nove centimetri di spessore al giorno e ha una fusione del 15 per cento superiore a quella registrata in media negli anni precedenti.

Il Ghiacciaio del Miage dal 2008 al 2022 ha perso 100 miliardi di litri di acqua. Sarebbero 40 mila piscine olimpioniche. Nel periodo 2018-2023 solo l'area del lago ha perso 1,1 miliardi di litri di acqua. Questa è la situazione della nostra criosfera, che ha già perso la metà della sua estensione e il 70 per cento di questa perdita è avvenuto negli ultimi trent'anni.

La logica del petroliere

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COP28 non è ancora cominciata ma ha già di bisogno di essere salvata da se stessa, dal suo crollo di credibilità e ora anche dall'instabilità del contesto mediorientale. L'annuale conferenza dell'Onu sui cambiamenti climatici parte alla fine di novembre a Dubai, il suo presidente, nonché Ceo dell'azienda petrolifera di Stato ADNOC, Sultan al-Jaber, sta conducendo un tour promozionale presso la stampa europea, per sostenere le ragioni dell'evento a sua guida, soprattutto ora che le richieste di boicottaggio di stanno facendo insistenti (ultima quella 180 attivisti e scienziati pubblicata su Le Monde).

Nella sua intervista a Repubblica al-Jaber ha espresso due concetti chiave della narrazione emiratina su cosa deve essere questa COP. Il primo è che non ci sarebbe nessun conflitto di interesse tra il suo ruolo di petroliere e l'altro di presidente della conferenza per mitigare i danni del petrolio. Al-Jaber rivendica infatti i successi di Masdar, altra grande azienda energetica di Stato, che effettivamente investe parecchio in rinnovabili (25 gigawatt di potenza operativa, sono i numeri dati dallo stesso al-Jaber).

Gli Emirati guideranno COP28 portando avanti questa nuova tendenza dell'inattivismo climatico: confondere la diversificazione energetica con la transizione energetica. Ma gli investimenti in rinnovabili hanno senso da un punto di vista climatico se si sostituiscono ai combustibili fossili. non se si aggiungono a essi.

Eppure è proprio questo che rischiamo di vedere nella COP28 di Dubai, settimo produttore di petrolio al mondo e quinto per riserve di gas. Stanno investendo in rinnovabili? Tantissimo. Stanno dismettendo i fossili? Per niente. Ed è questa la strategia che vogliono esportare.

L'altro pezzo della narrazione degli Emirati è qualcosa che era stato osservato anche dai movimenti diplomatici alla COP27 di Sharm el-Sheik: il tentativo di inserire nelle risoluzioni finali (e quindi negli impegni globali) riferimenti a low carbon fuel, l'idea che il petrolio e il gas possano essere decarbonizzati invece che rimpiazzati. A Repubblica Sultan al-Jaber ha detto che sì, gli Emirati stanno continuando a estrarre petrolio e gas come se non ci fosse un domani, ma almeno i processi di estrazione sono alimentati da fotovoltaico e nucleare, che è una definizione piuttosto letterale di greenwashing.

Secondo un'analisi di Global Witness, i piani industriali di ADNOC faranno aumentare le loro emissioni del 40 per cento entro il 2030 rispetto ai livelli del 2023, esattamente la direzione opposta a quella nella quale dovrebbe farci andare COP28, cioè il dimezzamento delle emissioni al 2030. Il problema, appunto, è che ADNOC e COP28 sono guidate dalla stessa persona.

Al-Jaber ha negli anni sicuramente mostrato straordinarie capacità diplomatiche e di resilienza politica. Saranno più che mai necessarie ora che al set di complessità si è aggiunto il fatto che qualunque parvenza di stabilità in Medio Oriente è sparita dopo l'assalto di Hamas e il bombardamento di Gaza. Difficile riportare oggi il mondo nell'assetto della cooperazione, l'unico che possa raggiungere obiettivi ambiziosi con le emissioni e la crisi climatica.

Al Guardian, durante questo tour promozionale, al-Jaber ha detto di avere l'obiettivo di promuovere «l'inclusività», l'idea che tutti devono essere ascoltati, società civile, ONG, scienza, paesi, ma anche produttori di idrocarburi. Ascolto che a quest'ultimi non sembra mai mancato alle COP, dal momento che il numero di lobbisti continua a crescere, di anno in anno. Sempre al Guardian, al-Jaber ha dichiarato di voler usare i profitti (straordinari) della vendita di combustibili fossili in periodo di crisi energetica per sostenere l'economia e quindi la transizione.

È un'idea che sta circolando parecchio in questi mesi pre-COP28, una sorta di legittimazione politica dell'extra profitto fossile.

C'è chi si è spinto a dire: usiamo quei profitti per finanziare la riduzione di emissioni di metano, come hanno fatto, proprio in una risposta all'intervista di Sultan al-Jaber sul Guardian, Durwood Zaelke e Maxime Beaugrand, rispettivamente presidente e direttore dell'ufficio di Parigi dell'Institute for Governance and Sustainable Development Director. Come ha commentato Michael E. Mann, uno dei più importanti climatologi al mondo: «È come dire: usiamo i profitti della cocaina per finanziare la riduzione della marijuana».

Per questa settimana è tutto, ora ti lascio al tuo sabato, ma prima un po' di annunci! Domenica sarò a Padova al CICAP Fest, che è appunto il festival del CICAP, dove riceverò il premio A difesa della ragione, e sono stato sorpreso e felice di questa cosa, non ci sono molte cose da dire, solo grazie.

Per chi è al CICAP Fest, sentiamoci e parliamoci. Sarò anche in giro per il World Climate Congress di Milano (praticamente sdoppiandomi). Se sei lì fatti sentire. Italian Climate Network sta facendo una campagna social molto preziosa sul loss and damage, la crisi climatica e il sud globale. Se hai visto qualche profilo social oscurarsi, è per questo motivo. Qui trovi tutto. Se vuoi scrivermi, l'indirizzo è ferdinando.cotugno@gmail.com. È anche attivo e vivace il nuovo canale Telegram di Areale, visto che ci siamo ho aperto anche un account Blue Sky, e sono sempre operativi quello Twitter/X e Instagram. Manca solo il fermoposta! Per comunicare con Domani, invece, scrivi a lettori@editorialedomani.it

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