«La chimica è come un lingua», hanno spiegato i ricercatori dell'Università di Toronto, per illustrare la loro ultima ricerca su come l'acidificazione degli oceani, causata dal riscaldamento globale, altera la capacità degli animali marini di comprendere il loro ambiente. I segnali chimici trasmettono informazioni vitali per la ricerca del cibo, l'accoppiamento, per evitare i predatori. «È come se le "parole" iniziassero ad avere un suono diverso e allo stesso tempo le tue orecchie riuscissero a sentirle di meno». Un oceano disorientato, un mondo disorientato. Vale per i granchi del Nord America, vale anche per noi.

Una Terra inabitabile è anche una Terra incomprensibile, che non ci parla più con la lingua che eravamo abituati ad ascoltare, a capire. Il 2 agosto, intanto, è scoccato il rintocco dell'Overshoot Day, da lì in poi è tutto debito ecologico, le risorse per il 2023 sarebbero finite ma noi continuiamo a consumarle, nell’illusione che questo pianeta sia un all you can eat. Non lo è, questo è il numero 134 di Areale, l’ultimo prima delle vacanze, poi ci sentiamo a settembre, intanto cominciamo, tu come stai?

Se faremo questo

Sul Guardian Rebecca Solnit ha scritto di speranza e pessimismo. «Non ci possiamo permettere i climate doomer», gli apocalittici del clima, portatori del pensiero: non c'è più niente da fare per noi.

Se annunciamo che il risultato è stato già deciso e che noi abbiamo già perso, abbiamo fatto solo una cosa, scrive Solnit: abbiamo tolto alle persone le ragioni per partecipare. Il clima è una sfida complessa, e di una cosa possiamo essere certi, oggi, agosto del duemilaventitré: non possiamo dire di sapere come andrà. Abbiamo degli scenari, e sono degli scenari sempre più accurati, «se faremo questo, accadrà questo», traiettorie di scelte e comportamenti che portano a diversi aumenti di temperature, e quelle temperature portano a conseguenze, ma il primo tassello del domino è «se faremo questo».

Su questo dobbiamo focalizzarci: cosa riusciremo a fare, a creare, a impedire. Sembra che certi giorni siamo più impegnati a cercare le prove del fatto che abbiamo già perso più che le prove del fatto che possiamo ancora farcela.

In Italia stiamo affrontando questa tempesta perfetta di negazionismo, per vari motivi che possiamo ricondurre soprattutto a diverse sfumature di opportunismo (politico, economico, industriale).

Qualcuno deve nascondere la propria incapacità, qualcuno cerca motivi per essere ancora rilevante, qualcuno deve vendere una manciata di copie, qualcuno protegge investimenti destinati a diventare stranded asset, balene industriali spiaggiate, qualcuno è solo cretino e non ci si può fare niente. Però nel disegno più grande, come ha spiegato il climatologo Zeke Hausfather al Washington Post, «Noi scienziati passiamo più tempo a litigare con i doomer, gli apocalittici, che con i negazionisti».

Potrei aggiungere che i due livelli non sono così scollegati. È una fauna biodiversa, con varie gradazioni etiche, ma alla fine, come disse James Carville, stratega di Bill Clinton nel 1992, «it's the economy, stupid», e rischiano di essere tutti burattini degli interessi a brevissimo termine dello status quo fossile. C'è sempre qualcuno che ci sta lucrando, su questo immobilismo. Che sta anticipando i dividendi, spostando in avanti gli investimenti, e così via. È una guerra culturale e cognitiva, ma niente accade solo per ragioni culturali e cognitive. C’è una struttura di interessi sotto.

Scrive Solnit: «Le notizie positive sul clima non sono letture molto drammatiche, di solito le trovo in giornali tecnici, nei tweet di scienziati e policymaker, nelle agenzie stampa sull'ambiente, sono spesso cose incrementali, come aver installato più energia solare o eolica o star usando meno combustibile fossile per generare elettricità. Sono livelli legislativi o tecnici, come nuovi materiali per l'accumulo nelle batterie o un cemento meno inquinante, o anche solo sondaggi che mostrano più supporto all'azione per il clima. Sono rapporti intermedi su come vanno le cose e le persone spesso sembrano volere solo il punteggio finale, ma non sappiamo come finirà questa storia, perché lo stiamo decidendo in questo momento».

Ecco, appunto. Non possiamo essere spettatori con l'ansia di conoscere il risultato, perché siamo giocatori con la facoltà di determinarlo. I vivi della seconda metà del secolo, e da lì in avanti, non avranno questa possibilità e questo privilegio, o lo avranno molto meno, dovranno vivere con quello che noi saremo riusciti a fare o non fare. Non mettiamoci nella posizione di preferire la certezza di una sconfitta all'incertezza di una vittoria. Non è sano. Non è nemmeno giusto.

Jim Skea, La Verità e la verità

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È in questo senso che va letta l'intervista concessa a Spiegel da Jim Skea, il nuovo presidente dell'IPCC. Ne parlo anche perché il contenuto delle parole di Skea, ricercatore in energia sostenibile all'Imperial College di Londra, è stato strumentalizzato in un modo che sarebbe quasi comico, se non fosse per il contesto attuale che viviamo, dal quotidiano La Verità. Skea non ha detto che l'obiettivo di tenere le temperature entro 1.5°C non è importante, non è un «contrordine, ecocatastrofisti», come da titolo sparato in prima pagina.

Ha detto che dobbiamo metterci nella posizione - di policy, di politica, di percezione - di continuare ad agire anche se dovessimo superarlo, temporaneamente o permanentemente. D'altra parte, anche il direttore di Copernicus Carlo Buontempo aveva detto in un'intervista a Domani che dobbiamo prepararci allo sforamento, già nel prossimo decennio.

Skea ha anche aggiunto: «Nessuno scienziato può dire alle persone come mangiare o come vivere», e ci mancherebbe. Non intendeva dire che non dobbiamo cambiare come mangiamo o come viviamo. Intendeva dire che ci sono dei ruoli, nella società, e quello non è il ruolo della scienza. Il ruolo della scienza è metterci in condizione di prendere decisioni informate. In più, ha detto una verità quasi banale: il cambiamento individuale, senza un cambiamento di sistema, è impotente. Lo ha detto con una metafora efficace: le biciclette. «Le persone non andranno in bici se non ci sono le ciclabili».

È la posizione del sesto rapporto Ipcc (se qualcuno lo leggesse, in certi giornali): i cambiamenti individuali negli stili di vita sono importanti, contano, ma vanno attivati, incoraggiati e sostenuti da cambiamenti di policy.

Skea ha detto che in futuro l’Ipcc dovrà dare indicazioni più specifiche e meglio indirizzate a target e gruppi di interesse: urbanisti, proprietari di case, aziende. «Con queste cose affrontiamo la vita reale delle persone reali, senza astrazioni scientifiche».

Cosa succede nel Regno Unito

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Sembrano passati decenni da quando, alla fine del 2021, il Regno Unito ospitò la COP26 a Glasgow forte di un piano di riduzione delle emissioni al 2030 più ambizioso di quello europeo e il premier Boris Johnson parlò enfaticamente in assemblea plenaria di «bomba dell'apocalisse fossile da disinnescare».

Due anni dopo, il governo di Rishi Sunak sembra più che intenzionato invece a innescare centinaia di nuove bombe climatiche. In un comunicato ufficiale, Sunak ha fatto sapere che il suo governo concederà centinaia di nuove licenze per l'esplorazione di petrolio e gas nel Mare del nord, dicendo che le preoccupazioni energetiche e per l'occupazione oggi sono più importanti della sfida climatica.

Nello stesso momento, il governo ha anche annunciato che sosterrà due vasti piani di sviluppo di una tecnologia dalle prospettive ancora incerte, quella di cattura e stoccaggio delle emissioni di CO2 (CCS) da centrali energetiche e industrie, per «conservarla» in grandi depositi geologici sottomarini, sempre nel Mare del Nord.

Questi due progetti sono sostenuti dalle stesse aziende oil & gas favorite dalle nuove licenze, che da tempo vedono la CCS come una leva per continuare esplorazione ed estrazione, nonostante queste tecnologie non abbiano mai dimostrato di poter essere efficaci su scala per contenere i danni climatici di quelle estrazioni e produzioni fossili.

Shell è impegnata come partner tecnico nel progetto Acorn di cattura e stoccaggio della CO2 in Scozia, BP controlla il 40 per cento di Viking, una struttura analoga nella regione di Humber, una delle più industrializzate del Regno Unito. Entrambe hanno accolto con molto favore la decisione del governo. I fondi pubblici previsti per le due infrastrutture sono 20 miliardi di sterline, circa 23 miliardi di euro.

Il contesto politico di questa decisione sono le elezioni nazionali che, nel Regno Unito, si terranno nel corso del 2024 (o a inizio 2025): proprio come alle europee nello stesso anno, le scelte energetiche e climatiche saranno uno dei grandi terreni di scontro tra conservatori al potere e laburisti all'opposizione e il calcolo di Sunak è puntare alla protezione dell'industria oil&gas come carta per capitalizzare consenso.

Un indizio per capire quanto si sta infettando la conversazione politica su questo tema è stato un aggressivo tweet del ministro dell'energia e del net zero britannico Graham Stuart, che ha addirittura scelto il movimento Just Stop Oil come destinatario polemico delle scelte energetiche del suo governo.

«Oggi noi diciamo no a Just Stop Oil e alla loro ala politica, il Partito laburista. Andremo avanti con il petrolio e con il gas perché questo è nell'interesse del popolo britannico, della nostra economia e della nostra sicurezza nazionale». Quasi un manifesto del populismo fossile col quale ci confronteremo nei prossimi anni.

Il Regno Unito ha un corposo settore di produzione petrolifera, che ha sì vissuto un declino negli ultimi anni a causa delle politiche di decarbonizzazione, ma lontano dall'essere marcato come sostiene la propaganda di Sunak. La produzione di petrolio è calata nell'ultimo decennio del 2 per cento, quella di gas del 3 per cento. Un calo, non il «rapido declino» denunciato dal governo. Intanto, le prime nuove licenze potrebbero arrivare già nel corso del prossimo autunno.

Come ha scritto George Monbiot sul Guardian, «Per comprendere questo momento, dobbiamo riconoscere che c'è una battaglia esistenziale da entrambi i lati di questa barricata. Mentre scienziati e attivisti combattono per la possibilità di un pianeta abitabile, l'industria dei combustibili fossili, quella degli allevamenti intensivi e quella dell'auto termica combattono per la loro sopravvivenza economica. Non possiamo vincere entrambi. O queste industrie sopravvivono o noi sopravviviamo. Però possiamo perdere entrambi perché, alla fine, loro cadranno insieme a tutti noi».

È una lettura che restituisce anche l'idea della polarizzazione politica che il tema dei cambiamenti climatici sta assumendo in tutte le società avanzate. Due battaglie contrapposte per la sopravvivenza e l'impossibilità di trovare un terreno comune.

Per questo numero è tutto, ci sentiamo dopo le vacanze, riposati, perché il riposo è energia rinnovabile a nostra disposizione, scrivimi, sentiamoci, l'indirizzo è come sempre ferdinando.cotugno@gmail.com. Sarà, come sempre, un autunno interessante, ci ritroviamo a settembre. Buon agosto!

Ferdinando Cotugno

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