Il Covid ci ha mostrato fino a che punto l’economia internazionale poggi sul trasporto via mare. Dallo shipping dipendono le forniture di energia, di materie prime, di alimenti e – in virtù del container – la puntualità e l’efficienza delle supply chain, le catene di fornitura.

Tutto ciò che riguarda il trasporto per mare non riguarda mai solo il trasporto per mare. Se questo è vero per uno shock di durata limitata come un virus, immaginate cosa può accadere se il problema è di natura sistemica come un’emergenza climatica globale.

Specie per un settore, lo shipping, che contribuisce il 3 per cento delle emissioni di gas serra e che, per essere economico come gli si chiede di essere, utilizza alcuni tra gli idrocarburi più inquinanti del pianeta.

Una situazione che non può andare avanti. E infatti tra novembre 2022 e gennaio 2023 è prevista l’entrata in vigore di nuove norme promosse dalla Organizzazione Marittima Internazionale, sigla delle Nazioni Unite che si occupa del settore, che promettono di cambiarne il volto.

Le nuove regole

Le nuove regole richiederanno agli operatori di navi di misurare e comunicare alle autorità un indice di efficienza energetica e ambientale degli scafi, tramite una funzione che determina il rapporto tra capacità di carico, tipo di carburante e quantità di emissioni rilasciate. Tale indice (CII, Carbon Intensity Index) permetterà di classificare le navi secondo una scala che va da A e E.

Le navi da A a C verranno ritenuti idonee. Quelle da D avranno tre anni di tempo per mettersi in regola mentre quelle da E appena uno.

I requisiti diventeranno ogni anno più stringenti e richiederanno un miglioramento delle prestazioni anno su anno, pena la retrocessione nelle categorie inferiori. Quando la nave diventa obsoleta la si manda in demolizione.

Questo è l’unico sistema che si è trovato per dare incentivi chiari alla decarbonizzazione a un’industria spesso reticente a prendere sul serio le responsabilità ambientali. Una reticenza figlia anche del fatto che il settore dello shipping è spietato in termini di competizione e costi.

Non solo i margini di profitto sono risicati e molto sensibili alle condizioni esterne ma, trattandosi di navi con cicli di produzione ed attività molto lunghi (25 anni di media), anche la quota di rischio connessa agli investimenti è molto alta. Sbagliare una nave, o peggio una flotta, non è un errore da cui si torna indietro.

Come adeguarsi

Da quando sono state annunciante le nuove norme, le principali compagnie di shipping si stanno interrogando per capire come adeguarsi senza perdere in competitività.

Se gli esempi del passato valgono qualcosa è probabile che alla fine assisteremo a un ulteriore ciclo di ingigantimento: navi più grandi equivalgono a maggiori economie di scala, migliore efficienza dei costi, superiori capacità di assorbire le spese per gli adeguamenti energetici e minori emissioni in proporzione al carico.

La differenza è che in passato tutto ciò avveniva in seguito a crisi economico-finanziarie o all’incremento del prezzo dei carburanti. Sarebbe la prima volta che si verifica in risposta a normative ambientali.

Un evento recente che illustra bene questa tendenza è il varo, la scorsa settimana, in Cina, di MSC Irina e MSC Loreto: colossi da 400 metri di lunghezza e da 24.346 container disposti su 25 “piani”.

Le dimensioni da sole, tuttavia, non bastano. È necessario intervenire anche sul tipo di carburanti. È quello che, per esempio, sta facendo Maersk che ha ordinato dodici navi da 16mila container alimentate a metanolo.

Una riduzione del volume di carico che in parte tradisce il fatto che le previsioni del colosso danese sul futuro dei flussi logistici non sono rosee.

Per l’industria del trasporto via mare i costi connessi alle nuove normative saranno enormi. Si parla di quasi 2 triliardi nei prossimi vent’anni. Chi li pagherà? La risposta è: tutti. Visto che, più o meno direttamente, le variazioni nei costi dei trasporti marittimi riguardano ogni attività economica.

Per far fronte all’aumento delle spese, Maersk ha già annunciato un rialzo delle tariffe sulle rotte tra Asia ed Europa e su quelle tra Europa e Usa. Altre compagnie si stanno adeguando.

Nel momento in cui, per esempio, muovere componenti via container non dovesse più essere economico come un tempo, ciò avrà un sicuro impatto sulle scelte delle aziende in materia di supply chain. Il bassissimo costo del trasporto era infatti una componente essenziale del calcolo economico che ha portato le grandi aziende a spargere pezzi di produzione su più continenti.

Ecco dunque che l’interazione tra politica del clima e shipping potrebbe fare il gioco di coloro che, per ragioni di politica interna o internazionale, sostengono la necessità di riportare il più possibile le industrie a casa.

Secondo diversi analisti è possibile che rotte più brevi e locali finiranno per generare operatori più specializzati in singoli mercati o tipi di operazione.

Si finirebbe così per applicare anche ai grandi trasporti la stessa mentalità, basata su “guadagni di specializzazione”, che è alla base della logica delle value chain produttive. Chiamatele meta-value chain, se vi pare.

 

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