Buongiorno a chi è arrivato da poco su Areale e anche a chi è in giro da queste parti da un po’.
Come stai?
Sono settimane di dolore, di speranza, di costruzione, di ostacoli e di possibilità. «Scrivo di ogni cosa che mi ha fatto piangere», dice Paolo Giordano alla fine di Tasmania. Ma anche di ogni cosa che ci ha fatto urlare, arrabbiare o sperare. (Oggi e domani siamo a Torino come Domani a parlare proprio di questo: speranza. Vieni? Qui c’è il programma). Iniziamo.

Quello che succede a Ischia non rimane a Ischia

(AP Photo/Salvatore Laporta)

Partiamo da Ischia, da Casamicciola. Io sono nato a Napoli, la famiglia di mio padre viene dall’isola, è il posto delle mie prime estati e la ferita di quei dieci morti, di quel fango, di quel dolore, del collasso del Monte Epomeo, per me è una ferita decisamente personale. E ci riguarda tutti, quello che succede a Ischia non rimarrà solo a Ischia, se vogliamo usare la narrativa del Pakistan a Cop27. Danni e perdite ci riguardano.

Dobbiamo imparare a guardare nella frattura: quella di Ischia è allo stesso tempo una storia di incuria umana, abusi umani e corruzione umana, e di crisi climatica, di collasso ecologico. Il dissesto idrogeologico è esattamente quella frattura lì, umano e naturale, clima e suolo, errori su vasta e piccola scala. Nel rapporto Città Clima di Legambiente si parla di 100 eventi estremi in Campania dal 2010 a oggi, diciotto solo quest’anno. L’abusivismo è una cosa pericolosa, e questo è un mondo pericoloso per fare cose pericolose.

È come se fossimo una persona su un motorino: costruire correttamente è decidere di mettere o non mettere il casco, ma il contesto climatico è la strada piena di buche e fossi che percorriamo. Serve tutto, serve saggezza e servono occhi nuovi per navigare questo mondo.

Per questo motivo non riesco a smettere di pensare all’uomo che si è salvato a Ischia, aggrappato per ore nel fango, la foto simbolo della crisi climatica nel 2022 in Italia, il nostro falling man su Ground Zero, per fortuna lui ancora tra noi per raccontarci la sua caduta e il suo atterraggio. La storia che – tra le righe – ci racconta è per esempio che noi abbiamo un urgente bisogno di un sistema di early warning nazionale, che sia in grado di mandare informazioni tempestive, capillari e convincenti alle persone in immediato pericolo durante un evento estremo.

Se ne è parlato a Cop27, è un progetto del segretario generale Guterres in persona: «Early warning for all» dal 2027, un piano Onu da 3,1 miliardi di dollari, per i paesi vulnerabili e in via di sviluppo, quelli del loss&damage, Bangladesh, Ciad o Vanuatu. Il paradosso però è che, con tutto il nostro sviluppo da paese G20 e G7, nemmeno l’Italia ha un sistema di early warning nazionale attivo. Ne avrà uno, a un certo punto, visto che è in sperimentazione. Il punto è che quella sperimentazione doveva andare più veloce, perché ci sono vite umane in gioco. Occhi nuovi e priorità nuove.

E allora è di questo che parliamo: qui noi dobbiamo decidere di imparare a sopravvivere al nostro territorio. Perché l’Italia non è semplicemente un paese fragile. L’Italia è pericolosa. E finché noi non impariamo a processare questa verità, che questo è un paese che ogni giorno, ovunque tu sia, ti può fisicamente uccidere, non riusciremo mai ad adattarci, e non c’è piano di adattamento che tenga (e comunque magari è la volta buona che lo approvano, questo Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici scritto nel 2017 e nel frattempo invecchiato come tutte le promesse mai mantenute).

Nel processo di adattamento italiano serve un’educazione ambientale di massa, paese per paese, comunità per comunità, per sapere cosa fare, come farlo, come tenere al sicuro sé e gli altri quando arriva il disastro. Il discorso non si può limitare solo agli abusi edilizi. Dobbiamo imparare a tenere insieme il tema abuso edilizio e incuria e quello sulle emissioni e la crisi climatica. Nello spazio pubblico queste due conversazioni si devono fare contemporaneamente. Invece vedo che si parla troppo di condoni e troppo poco di atmosfera.

Nella roulette russa della crisi climatica puntata sul nostro territorio pericoloso, l’atmosfera conta, l’aumento di potenza e frequenza degli eventi estremi conta, essere pronti conta. Stiamo processando questi eventi con gli occhi del passato, invece ci servono quelli del futuro.

Cop15, momento Parigi o momento Copenaghen?

(Joy Asico/AP Images for Avaaz)

Il 6 dicembre inizia a Montreal, in Canada, la Cop15, la conferenza dell’Onu sulla protezione della biodiversità. Ha il sapore e il senso di un evento storico, non c’è solo la prospettiva di aggiornare gli obiettivi di Aichi del 2010 (tutti falliti, per altro, e falliti soprattutto per mancanza di finanziamenti) ma di fare un passo oltre, un accordo di pace con la natura, sul modello di quello di Parigi, che fu un accordo di pace sul clima e col clima.

La Cop15 è stata rinviata, procrastinata, spostata, gonfiata e poi dimenticata, ma ora è finalmente pronta a partire: era la Cop cinese sulla natura (doveva tenersi a Kunming), ora è la Cop cinese sulla natura che si tiene in Canada, ospitalità nordamericana e presidenza cinese, strano mix (anche per le note tensioni tra i due paesi). Dalle Cop si esce spesso piangendo. Di rabbia, come a Copenaghen nel 2009, o di speranza, come a Parigi nel 2015. E allora la domanda che in tanti si fanno oggi, a pochi giorni dall’inizio del negoziato, è questa: da Montreal avremo un momento Copenaghen o un momento Parigi?

Abbiamo segnali in entrambe le direzioni: c’è una forte volontà politica di arrivare a un accordo (soprattutto da parte della Cina, che non può perdere quest’occasione di rafforzare la sua contro-narrazione multipolare ben avviata alle Cop sul clima) ma c’è anche il rischio che manchino proprio i leader a dare quell’indirizzo politico fondamentale, e tra loro proprio Xi Jinping.

Come ha detto Elizabeth Maruma Mrema, capa Onu per la biodiversità, sarebbe singolare e deludente vedere capi di stato o di governo andare in Qatar per la Coppa del mondo ma non a Montreal per Cop15. Inoltre, c’è stato il tempo per costruire il testo, perché a questa Cop15 si lavora da due anni, ma sono stati negoziati prevalentemente online che, dopo una discreta spinta iniziale, si sono arenati e ora troppi punti chiave sono tra parentesi.

C’è la spinta della Cop27, che ha menzionato le nature based solution nel testo finale e ha avuto una giornata tematica sulla biodiversità (prime volte), ma ha anche dimostrato quanto poco il futuro riesca a entrare nei negoziati multilaterali in questo momento. Quindi, per sintetizzare, questa roba può andare molto bene (e darci un accordo generazionale) o molto male (non darcelo e togliere anche margine politico alla sua esistenza, perché tra Copenaghen e Parigi sono passati sei anni e sei anni noi non ce li abbiamo più, né li avremmo avuti nel 2009).

Ma quindi: cosa possiamo aspettarci da Cop15? Le solite cose: ambizione e soldi. Obiettivo chiave: raddoppiare la superficie delle aree protette sulla terraferma e triplicare quelle sugli oceani, portando il livello al famoso 30/30, 30 per cento della Terra area protetta entro il 2030. C’è una coalizione di oltre cento paesi, mancano ancora grandi depositi naturali come Cina, Brasile, Indonesia, ma c’è da pensare che, per motivi diversi, possano decidere di fare questo passo a Montreal.

E, per la complessità che hanno questi temi, il 30/30 va anche problematizzato e governato, perché rischia di essere un massacro per le popolazioni indigene, sarebbe un errore etico e strategico, perché senza di loro non abbiamo biodiversità, ed è la battaglia e posizione di Survival International. Insieme ad Amnesty e altri gruppi, hanno pubblicato una dichiarazione congiunta per denunciare i rischi di questa prospettiva. Senza rispetto dei diritti umani – e in questo caso dei diritti umani delle popolazioni indigene – non esiste ecologia.

Inoltre, per questo vasto programma di protezione globale servono risorse, l’equivalente biodiversità del Green Climate Fund (e non è che questo sia un precedente che faccia ben sperare, dal momento che la quota di 100 miliardi in aiuti climatici promessi nel 2009 non è stata raggiunta nemmeno nel 2022). Le ultime bozze parlano di 200 miliardi di dollari all’anno. Ma attenzione: devono essere nuovi e addizionali. Non il riciclo di vecchi fondi per la cooperazione (come spesso succede per il clima), con l’effetto che per proteggere l’ambiente si tolgono risorse a sanità o istruzione. E serve una roadmap per eliminare i sussidi pubblici nocivi per la biodiversità, e forse questa sarà la parte più difficile del negoziato: la bozza parla di ridurli di 500 miliardi di dollari all’anno.

E sì, se ti colpisce la proporzione tra trovarne 200 all’anno per proteggere la natura e toglierne 500 all’anno per distruggerla di meno, non sei sola. Questo è il contesto, ecco. Come dice Li Shuo, global policy advisor di Greenpeace China: «Abbiamo un pianeta, due settimane, innumerevoli forme di vita sulla Terra. Abbiamo bisogno che Cop15 conti, la nostra relazione con la natura determina la direzione verso la quale stiamo andando come umanità».

Morire di bici in Italia

In Italia si muore in bici. A proposito di pericolosità di questo paese, e di occhi nuovi: le persone che si spostano col mezzo più compatibile col futuro rischiano ogni giorno la vita, e la storia di Davide Rebellin, ucciso da un camion mentre pedalava a Montebello Vicentino, ci ha commosso tutti, così come quella di Manuel Ntube, ucciso quindicenne a Padova da un Suv. Non lo possiamo accettare, non lo accetteremo. La vita per i ciclisti sarà più sicura quando decideremo attivamente di proteggerli, questo è quanto, e i ciclisti si proteggono con spazi sicuri. Le piste ciclabili.

E quindi è importante sapere che la legge di bilancio del governo, in discussione in parlamento della prossima settimana, ha azzerato i fondi per le piste ciclabili in Italia. È quello che denunciano Clean Cities, FIAB, Greenpeace, Kyoto Club, Legambiente e Cittadini per l’aria. Parlano di uno «scippo» ed è un linguaggio che ci sta.

I fondi per le piste ciclabili in Italia vengono da uno strumento legislativo istituito nel 2019: Fondo per la ciclabilità urbana, che aveva una dotazione di 150 milioni di euro all’anno per tre anni: 50 all’anno per 2022, 2023, 2024. Prima c’è stato un taglio di 9 milioni di euro (se si cercano soldi per qualcosa in Italia, è sempre comodo e facile toglierli alle ciclabili). Quelli del 2022 sono spariti, non sono mai stati allocati, rimanevano gli ultimi due anni del fondo, 47 milioni per il 2023 e 47 milioni per il 2024. Una miseria, per altro, dal momento che su questo tema dovremmo ragionare sulla scala dei miliardi, non dei milioni. E anche questa risorsa è sparita, è stata cannibalizzata dalla legge di bilancio 2023.

Allo stato attuale, se non ci sarà un intervento del parlamento, i fondi per le ciclabili in Italia dal 1 gennaio saranno a zero. Non vuol dire che non si faranno più piste ciclabili, tutti i progetti avviati andranno avanti, per fortuna, ma non ci saranno risorse per nuovi progetti. Progetti dei quali c’è disperatamente bisogno. Perché qui la gente sta morendo.

Il contesto è quello dello studio di Clean Cities e altri soggetti di cui ti parlavo la settimana scorsa: il rapporto tra quanto spendiamo per la mobilità a quattro ruote e quanto spendiamo per la mobilità dolce a due ruote in Italia è di cento contro uno. È vero, le ciclabili sono cresciute del 20 per cento tra il 2015 e il 2020, ma oltre un terzo dei comuni non ha costruito un solo chilometro in più, o ne ha addirittura rimossi alcuni.

Giustizia ambientale: tutte le città più ciclabili d’Italia sono al nord, tutte le città meno ciclabili d’Italia sono al centro-sud. Per decarbonizzare i trasporti servirebbero in Italia 16mila chilometri di ciclabili in più entro la fine del decennio, il doppio di quelli che oggi sono previsti dai Piani urbani per la mobilità sostenibile (Pums). Per realizzarli ci vogliono 500 milioni di euro all’anno, 3,5 miliardi di euro in totale. La scala dei miliardi, appunto, ma sarebbero comunque solo il 3,5 per cento di quello che si spende per l’infrastruttura dell’auto.

Una nuova risorsa utile

Tra poco ci salutiamo, ma prima un’informazione di servizio, parlando di occhi nuovi. Il Climate Media Center è un nodo di esperti dal mondo della scienza che provano a indirizzare in modo corretto il dibattito sul clima in Italia, attraverso una serie di strumenti, tra cui comunicazioni rapide e informate sui temi chiave del momento. È un servizio per i giornalisti e per i cittadini: da poco è stata attivata una newsletter preziosa, alla quale – se vuoi – ti puoi iscrivere qui.

Per questa settimana è tutto, ci parliamo la prossima oppure ci vediamo a Torino, se hai commenti, richieste, domande, cose che vuoi far sapere alla comunità (Areale bacheca, diciamo), scrivimi a ferdinando.cotugno@gmail.com e troviamo il modo. Inoltre, il 6 dicembre sarò a Bologna, il 10 dicembre sarò a Trento (alla libreria Duepunti), magari ci vediamo lì, se vuoi dettagli scrivimi.

Se invece vuoi abbonarti a Domani, fino a domenica è attiva l’offerta Black Friday, un anno di abbonamento a 60 euro. Areale è e sarà sempre gratuita, ma l’informazione costa e rimane viva e vigile solo grazie alla partecipazione dei lettori e delle lettrici, e a questo proposito, grazie, grazie di cuore e sentito, a chi è già abbonato, da un po’ o di recente. L’unico Black Friday che ci piace. A presto!

Ferdinando Cotugno

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