La deforestazione dell’Amazzonia ha distrutto un’area grande più di una volta e mezza l’Italia nell’arco di tempo che va dal 2000 al 2018, spazzando via l’8 per cento della più grande foresta pluviale del mondo. Lo studio dell’Amazon Geo-referenced Socio-Environmental Information Network (Raisg) ha messo in luce che dall'inizio del millennio, si sono persi 513.016 chilometri quadrati di foresta. Secondo Raisg l’Amazzonia degli ultimi anni è molto più minacciata di quanto non fosse otto anni fa. Il consorzio infatti, ha scoperto che dopo un rallentamento della deforestazione all'inizio del secolo, la regione amazzonica è nuovamente scivolata in un preoccupante ciclo di distruzione.

Il rapporto afferma che la deforestazione ha raggiunto un massimo di 49.240 chilometri quadrati di perdita di foresta nel 2003 – un record per questo secolo – poi è diminuita fino a un minimo di 17.674 chilometri quadrati nel 2010. Ma da allora la distruzione ha raggiunto livelli sorprendenti. La deforestazione è di nuovo aumentata dal 2012 e l'area persa annualmente è triplicata dal 2015 al 2018.

In quest’ultimo anno 31.269 chilometri quadrati di foresta sono stati distrutti in tutta la regione amazzonica, la peggiore deforestazione annuale dal 2003.

Modificare il clima

Entro il 2025 la Cina cercherà di modificare le condizioni meteorologiche su un’area di 5.5 milioni di chilometri quadrati. Lo ha riferito il Consiglio di Stato cinese. Utilizzando le più avanzate tecniche di semina delle nuvole, i ricercatori cercheranno di far piovere per combattere siccità, ma anche per spegnere incendi di grandi proporzioni.

La metodologia in sé non è nuova in quanto consiste nell’irrorare le nuvole con dei sali come lo ioduro d’argento o l’azoto liquido per aggregare le goccioline d’acqua disperse nell’aria fino a far raggiungere ad esse un peso sufficiente per farle precipitare. La difficoltà sta nel calcolare le giuste quantità di sostanze da immettere nell’aria nel momento più adatto per ottenere i benefici voluti.

La Cina è il paese più avanzato in questo settore e vuole ottenere risultati che le permettano di diminuire le gravi conseguenze che i cambiamenti climatici stanno interessando anche il loro vastissimo Paese.

Le piccole isole e la sopravvivenza

Di fronte all’innalzamento del mare, le isole a pelo d’acqua, soprattutto quelle coralline, sembrerebbero essere le più vulnerabili. Circondate dall'oceano su tutti i lati è stato facile ipotizzare che presto sarebbero inabissate. Ma la realtà si è opposta alle previsioni: anziché essere inghiottite dal mare che si alza le isole diventano più grandi.

Spiega Murray Ford dell’Università di Auckland in Nuova Zelanda, nello studio apparso su Geophysical Research Letters: «Contrariamente alle previsioni, alla copertura mediatica popolare e ai proclami politici, studi recenti hanno dimostrato che la maggior parte delle isole coralline studiate è rimasta stabile o è aumentata di dimensioni dalla metà del XX secolo».

Bene, ma se i mari aumentano di livello come fanno queste isole a tenere la testa fuori dall'acqua? Per scoprirlo, Ford ha indagato quel che succede sulla Jeh Island, una delle 56 isole che compongono l'Ailinglaplap Atoll, un atollo corallino che fa parte delle Isole Marshall, un insieme di isole basse considerate tra le più a rischio a causa dell'innalzamento del livello del mare.

Spiega Ford: «Tali proiezioni si basavano sul presupposto che le isole fossero oggetti geologicamente statici e che, conseguentemente, sarebbero annegate con l'innalzamento del livello del mare». Questa ipotesi risulta essere errata. Un'analisi del 2018 di trenta atolli corallini nel Pacifico e nell'Oceano Indiano, che comprendeva 709 isole in totale, ha rilevato che l'88,6 per cento era stabile e alcune di esse avevano aumentato la superficie negli ultimi decenni e che nessuno degli atolli era scomparso.  

La ricerca della motivazione di un simile fenomeno non era certo semplice. Lo studio metteva in luce che le isole stavano crescendo sia verso l’esterno che, forse, verso l'alto, dal momento che i livelli globali del mare sono aumentati di circa venti centimetri dal 1900. «Ma da dove vengono i sedimenti extra che portano le isole ad allargarsi? È materiale appena prodotto dalla barriera corallina o antiche sabbie residue che in qualche modo vengono trascinate dal mare sulle formazioni coralline?». Ford voleva dare una risposta a tutto ciò.

I dati di rilevamento da satellite hanno indicato che l'isola di Jeh è aumentata di circa il 13 per cento dal 1943, passando da 2,02 chilometri quadrati a 2,28 chilometri quadrati nel 2015. Tra l’altro sembrerebbe che l’attuale isola sia il risultato dell’unione di quattro isole che esistevano precedentemente.

Lo studio in loco, poi, ha permesso di capire che le nuove aree di Jeh sono il risultato di materiale organico generato di recente dalla barriera corallina. A questo punto Ford è giunto alla conclusione che – sebbene non si possa sostenere con certezza che lo stesso processo valga per tutte le altre isole che crescono in dimensioni – i risultati suggeriscono che le barriere coralline sane sono in grado di crescere nonostante l'innalzamento del livello del mare.

Spiega Ford: «Le barriere coralline che circondano queste isole sono la “sala macchine” della crescita delle isole, producendo materiali, ossia sedimenti, che vengono portati sulle rive delle isole. Ma perché tutto ciò possa verificarsi è fondamentale che le barriere coralline siano sane».

È naturale chiedersi se questa situazione potrà continuare nel tempo. Jeh Island non può rispondere a questa domanda, almeno non ora, ma perlomeno ha permesso di capire che è fondamentale che i mari rimangano in buono stato se si vuole che le barriere coralline continuino a sopravvivere.

Jeh Island nel 1943, con il contorno di oggi in rosso. (Archivi nazionali degli Stati Uniti)

Mattiniero, notturno o…

Ci sono persone che per lavorare, studiare o altro, preferiscono alzarsi molto presto al mattino, altre invece preferiscono stare svegli fino a tardi e svegliarsi più in là nella giornata. Si pensava che tutte le persone (salvo eccezioni) entrassero in una di queste due categorie, ma non è così.

Secondo un nuovo studio pubblicato su Personality and Individual Differences ci sarebbero, in realtà, più "cronotipi" distinti rispetto ai due più noti. I cronotipi sono le caratteristiche degli esseri umani che indicano quando si è maggiormente attivi in un particolare periodo della giornata ed è legato ai ritmi circadiani che sperimentiamo durante il giorno e la notte.

La vita da svegli, tuttavia, non è però così binaria come potrebbero suggerire gli stereotipi. Spiega Dmitry Sveshnikov dell'Università Rudn in Russia che ha realizzato lo studio: «La ricerca delle differenze cronobiologiche e cronopsicologiche individuali si concentra prevalentemente sui cronotipi del mattino e della sera, tuttavia, il nostro studio suggerisce che la classificazione esistente deve essere riconsiderata e ampliata».

La ricerca ha visto Sveshnikov e altri ricercatori intervistare circa 2.300 partecipanti, la maggior parte dei quali studenti universitari, ai quali è stato chiesto quale fosse il momento più proficuo della giornata sia dal punto di vista dello studio sia del lavoro. Per convalidare le autovalutazioni, i partecipanti hanno completato una serie di test standard e questionari utilizzati dagli scienziati del sonno, progettati per stimare il livello di sonnolenza o vigilanza dei partecipanti in vari momenti della giornata.

I risultati dicono che la stragrande maggioranza delle persone che si è sottoposta alla ricerca cade non in due, bensì in sei cronotipi, con solo il 5 per cento delle persone che non si identifica con nessuno di essi.

I sei cronotipi suddividono donne e uomini in: attivi al mattino, attivi alla sera, altamente attivi tutto il giorno, sonnolenti durante l’intero giorno diurno, attivi durante il giorno ma non alla sera, moderatamente attivi durante l’intero arco della giornata. È interessante notare che, tolti coloro che non si identificano in nessuna categoria, solo un po’ più di un terzo delle persone dello studio si è effettivamente identificato come mattiniero o nottambulo (14 per cento e 26 per cento rispettivamente), mentre tra gli altri cronotipi il 18 per cento si è identificato come assonnato durante il giorno, il 17 per cento come moderatamente attivo per tutto il giorno, il 16 per cento attivo durante il giorno e solo il 9 per cento ha dimostrato di essere altamente attivo durante l’intero arco della giornata.

Un aereo per lanciare satelliti

Non c’è dubbio che la space economy sta raggiungendo livelli non immaginabili solo qualche anno fa. E ovviamente uno dei settori di maggior richiamo è quello che riguarda la messa in orbita dei satelliti, soprattutto i piccoli satelliti che stanno letteralmente soppiantando quelli molto grandi in diversi settori. E a tal proposito stanno nascendo sempre più società che si immettono sul mercato del lancio di piccoli satelliti.

La startup americana “Aevum” è una di queste, e recentemente ha presentato il suo aereo che servirà per lanciare microsatelliti. Ravn X, questo il nome dell’aereo, non avrà piloti a bordo e avrà il compito di portare fino a circa 10-20 chilometri di quota (l’altezza precisa non è stata detta) un razzo a due stadi, che una volta sganciato spingerà alla quota prevista il satellite.

Non è il primo aereo del genere che utilizza questo sistema. Virgin Orbit, ad esempio, sfrutta le capacità di un Boeing 747 opportunamente modificato per portare in quota un razzo Launcher One. Ma il fatto di utilizzare un grosso drone è certamente una novità, perché questo richiede specifiche di sicurezza molto inferiori rispetto al lancio con un aereo pilotato. Tra l’altro l’aereo potrà partire da numerosi aeroporti e non solo da quelli costruiti ad hoc; basta infatti una pista lunga poco più di un chilometro e mezzo e l’aereo può partire senza problemi.

L’aereo-drone Ravn X in grado di lanciare satelliti nello spazio a basse quote. Crediti Aevum

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