«L’Italia è quel paese che ci passi col treno ed è pieno di colline verdeggianti e di storia e di pianure, città d’arte e tradizioni, letteratura, poesia, dove a noi però, ecco, in sostanza, soprattutto, piace mangiare». Attraverso la cifra della comicità, Mattia Torre – formidabile autore e sceneggiatore scomparso prematuramente -, nel monologo Gola descrive la realtà del paese dei “prodotti d’origine”: quelli a denominazione di origine protetta, quelli a indicazione geografica protetta e le specialità tradizionali garantite.

Ogni regione, città, talvolta ogni paese ha un suo prodotto tipico, a volte più di uno: la patata di Bologna e quella della Sila, in Calabria; il pecorino sardo, quello romano e quello toscano; il carciofo, la mela, i limoni, le lenticchie. Un elenco lunghissimo che è la fotografia più eloquente di quello che Torre definisce il paese “a forma di spuntatura di maiale”, dove cibo e tradizione culinaria sono intimamente connesse alla cultura. Eppure oggi, proprio il cibo è finito sotto la lente dei climatologi per i suoi impatti ambientali.

«Siamo abituati a pensare alle emissioni di CO2 solo a proposito della produzione energetica e dei trasporti. Eppure, l’agricoltura, la deforestazione e gli altri usi del suolo, sono responsabili del 23 per cento delle emissioni totali, cifra che arriva al 37 per cento se si includono i processi di trattamento e trasformazione dei prodotti alimentari», osserva Riccardo Valentini, professore  di Ecologia forestale all’Università della Tuscia  e scienziato dell’IPCC, il principale organismo internazionale che, nell’ambito delle Nazioni unite, si occupa di studiare i cambiamenti climatici.

L’agricoltura sull’ottovolante

La produzione agricola è diventata negli anni un’industria a cielo aperto, alimentata da un utilizzo massiccio di input chimici, che ha causato da un lato una progressiva riduzione della biodiversità a vantaggio di poche varietà prodotte su larga scala, dall’altro un calo della fertilità dei suoli, con conseguenti fenomeni di desertificazione. Tutto questo ha contribuito fortemente alla crisi climatica. E ne paga anche le conseguenze.

Gli eventi estremi – grandinate, inondazioni, forti venti, ondate di calore – causano gravi perdite con frequenza sempre maggiore.

Lo sa bene Giancarlo Sofia, un produttore di mele della Val di Non che da qualche anno sta cercando con ogni mezzo di prevenire gli impatti delle gelate e, allo stesso tempo, di usare meno fitofarmaci.

Racconta di come è cambiato il modo di coltivare: «Una volta da noi si cominciava a irrigare a metà maggio. Ora, visto che le stagioni sono anticipate, il primo di aprile sono in campo a dare l’acqua alle piante».

Per Sofia, come per tutti i produttori della zona, è un dato di fatto, «non c’è bisogno che me lo dicano gli scienziati».

Così come è un fatto che siano aumentati gli eventi estremi. La gelata del 1957 «ha azzerato tutto e ci ha messo in ginocchio», ma era considerata un fatto straordinario fino a qualche anno fa. «Ora invece ogni anno succede qualcosa. La mattina esci di casa a controllare e a mezzogiorno sei povero, perché tutta la frutta è da buttare».

Il singolo agricoltore si trova a produrre sapendo che la gelata, la grandinata o l’anticipo della stagione vegetativa non sono più eventi eccezionali, ma variabili da affrontare ogni anno, con una frequenza che non ha pari nella storia recente.

In Italia, negli ultimi dieci anni gli eventi estremi sono triplicati, arrivando a oltrepassare la soglia dei mille nel 2019. Così, dal Friuli all’Emilia Romagna, dalla Calabria al Piemonte, ogni anno si contano i danni dovuti ai raccolti andati persi perché, come sottolinea Valentini, «l’aumento delle temperature, che a livello globale non supera il grado, in Europa ha già oltrepassato il grado e mezzo».

La migrazione del cibo

I risultati della ricerca sui cambiamenti climatici in agricoltura condotta dall’Agenzia europea per l’ambiente (EEA) sono netti nel sostenere che l’Europa sta rischiando molto.

Pur essendo un continente che ha fatto – e continua a fare – dell’agricoltura uno dei suoi pilastri centrali (il 40 per cento del bilancio europeo sia destinato proprio a questo settore), sta già sperimentando gli effetti del cambiamento climatico, in particolare nell’area del Mediterraneo.

Secondo i ricercatori, l’Unione europea ha già visto la riduzione di 500 mila aziende agricole e nei prossimi trent’anni registrerà perdite economiche in agricoltura del 16 per cento. Parliamo di miliardi di euro, se consideriamo che attualmente il valore dell’agroalimentare supera i 400 miliardi. Oggi, su tre bottiglie di vino due vengono dall’Europa, e lo stesso vale per l’olio. Molte di queste le produce proprio il Bel Paese. Per ora.

Anche il bacino del Mediterraneo è considerato un hot spot climatico, cioè un’area dove gli effetti del cambiamento climatico sono più intensi ed evidenti. In questi “punti caldi”, la temperatura sta crescendo più rapidamente della media, con variazioni importanti di temperatura e precipitazioni che impattano prima di tutto l’agricoltura.

Nei prossimi anni dunque avremo un intensificarsi delle produzioni nei paesi del Nord Europa, poiché ci saranno condizioni più favorevoli per le coltivazioni, al contrario di quanto accadrà nei paesi del Sud Europa – per esempio in Italia –, dove gli eventi estremi più intensi colpiranno la produttività.

Dello stesso avviso i dati raccolti dal Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici (Cmcc) che, nel rapporto Analisi del rischio, prospettano una possibile riduzione delle rese di mais e frumento e una possibile espansione verso il nord Italia degli areali di coltivazione per specie come l’olio e la vite.

La risposta è nel frigo

Se sul fronte della produzione le conseguenze della crisi climatica sono evidenti, su quello dei consumi non sembra esserci la stessa consapevolezza. Pensiamo al nostro frigo: deve contenere prodotti freschi, belli, lucenti. Soprattutto non devono mai mancare.

In un mercato diventato globale troveremo sempre ciò che cerchiamo, che sia di stagione o meno, locale oppure prodotto in qualche angolo sperduto del mondo. Eppure la natura ha i suoi tempi, i frutti le loro stagioni. Invece lo scaffale del supermercato e il frigo di casa devono superare la soglia della stagionalità, nascondere i limiti della natura.

Tutto questo ha delle conseguenze non visibili a noi consumatori, perché il cibo che acquistiamo è apparentemente lo stesso. Ma l’agricoltura vive in una relazione simbiotica con l’ambiente. Per coltivare c’è bisogno della giusta quantità di sole, di freddo, di pioggia. Servono terreni ricchi di sostanze nutritive e stagioni che si alternano in maniera cadenzata.

Ma se il clima cambia, cambia l’agricoltura. Se cambia l’agricoltura, cambia anche il cibo che mangiamo. Se l’equilibrio climatico si rompe, l’agricoltura paga il conto. E le conseguenze sono molto più profonde di quanto immaginiamo.

Probabilmente non ci accorgeremo di tutto questo guardando gli scaffali del supermercato e i ripiani del nostro frigo. Continueremo a mangiare più o meno le stesse cose, senza farci troppe domande.

Magari la produzione del radicchio trevigiano avverrà in Belgio, per quanto bizzarra questa ipotesi possa apparire, ma nel frigo il radicchio continuerà ad esserci.

Lo scenario non è neanche così assurdo se pensiamo che negli ultimi vent’anni sono stati fatti tentativi di coltivazione della vite in Danimarca e in Finlandia. Forse bisognerà produrre sempre più champagne in Inghilterra e sempre meno in Francia.

Ma il prezzo di questi mutamenti lo paga il pianeta, quella enorme massa sferica abitata da sette miliardi di persone che oggi ha la febbre.

La comunità scientifica lo sostiene da alcuni decenni e, anzi, ci dice che la febbre è causata principalmente da attività antropiche, ma la politica non sta facendo abbastanza.

Il professor Valentini, a propostito dell’elezione di Joe Biden alla Casa Bianca e dell’annunciato ritorno degli Stati Uniti nell’Accordo di Parigi, dice: «Non illudiamoci che l’accordo di Parigi sia sufficiente. Mantenere l’aumento medio della temperatura mondiale al di sotto dei 2°C non basta, bisogna fare molto di più».

Papa Francesco nell’Enciclica Laudato Sì si chiede come tutto questo sia stato possibile, «se qualcuno osservasse dall’esterno la società sul nostro pianeta, si stupirebbe di fronte a un tale comportamento che a volte sembra suicida».

La terra troverà il modo di rigenerarsi, assestandosi su un nuovo equilibrio. Ma riusciremo noi a sopravvivere a noi stessi? La risposta è sì, se ognuno di noi farà la sua parte, ma soprattutto se le istituzioni e la politica inizieranno a prendere davvero sul serio la crisi climatica e il suo legame con il cibo. A partire dalla nuova Politica agricola comune (Pac) che rischia di andare nella direzione opposta, finanziando lo stesso modello agricolo iper industrializzato che finora ha contribuito fortemente al riscaldamento globale.

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