E se fosse la remota Nuova Zelanda il paziente zero degli effetti del trumpismo sulle politiche del clima? Al tempo della prima ministra Jacinda Ardern, il paese era stato un campione delle policy ecologiste. Dal 2023 però è governata dal conservatore Christopher Luxon.

Già prima della nuova èra Trump, il suo governo aveva cancellato le moratorie sullo sviluppo dei combustibili fossili, aveva allentato le restrizioni per le emissioni in agricoltura e zootecnia (che sono la fonte di emissioni principale del paese) e aveva attaccato il settore finanziario per la troppa attenzione alla sostenibilità. Luxon ha lasciato all’alleato più di destra del suo governo, David Seymour, il compito di elaborare il seguente pensiero ad alta voce: e se uscissimo anche noi dall’accordo di Parigi?

La Nuova Zelanda è solo il 73esimo paese al mondo per emissioni, che ammontano a una frazione minuscola della crisi climatica, lo 0,08 per cento del totale, ma da un punto di vista simbolico e politico sarebbe una botta molto grande. Con Ardern, la Nuova Zelanda era stato tra i primi paesi al mondo a fissare un obiettivo di azzeramento delle emissioni al 2050.

Ora con il governo di centro-destra al potere da un anno e mezzo è scivolata nel fronte scettici dell’emisfero sud, insieme all’Argentina di Milei, che pochi mesi fa aveva addirittura ritirato la delegazione dalla Cop29. Seymour diventerà vice primo ministro nel corso di quest’anno, per ora ha solo paventato la possibilità, aggiungendo che potrebbe diventare un punto del programma del suo partito, Act, nella prossima campagna elettorale. Insomma, per ora è un ulteriore segnale politico di allineamento più che un’intenzione politica.

Riduzione delle emissioni

Il segnale però cade a pochi giorni dal 10 febbraio, che era la scadenza fissata dalle Nazioni Unite per presentare gli Ndc, i piani di riduzione delle emissioni previsti dall’accordo di Parigi. Ben 170 paesi hanno superato questa scadenza senza averla rispettata, compresi quelli dell’Unione europea, che ha un Ndc comune e che al momento non è riuscita a presentare quello nuovo a causa delle sue tensioni politiche interne.

Non tutto è perduto, c’è tempo fino alla Cop30 del Brasile per presentare i piani, però colpisce che i rappresentanti dell’83 per cento delle emissioni di gas serra (calcolo di Carbon Brief) non abbiano percepito nessun danno reputazionale possibile alla mancata presentazione di un piano in tempo. Segno che buona parte della pressione politica degli ultimi anni è ormai evaporata.

Vedremo come andrà: gli Usa hanno presentato un Ndc, sulla campanella della presidenza Biden, ma con l’imminente uscita dall’accordo di Parigi era una mossa quasi cerimoniale.

C’è enorme attesa per cosa scriverà la Cina nel suo, forse sarà il documento politico più importante dell’anno e rispecchierà gli ultimi dati forniti dall’Agenzia internazionale dell’energia: il rallentamento dell’uso delle fonti fossili in Cina è «senza precedenti per un paese in questo stadio del suo sviluppo economico», ed è sostenuto dalla corsa all’elettrificazione. E c’è attesa anche per l’Unione europea, il focus al momento è sul Clean Industrial Deal che sarà presentato il 26 febbraio e che conterrà i dettagli sulla politica industriale verde della Commissione.

Gli investimenti

Secondo quanto scritto dagli analisti Jean Pisani-Ferry e Simone Tagliapietra su Politico (in un editoriale co-firmato anche da Laurence Tubiana della European Climate Foundation), l’aspetto più importante al quale guardare è quello degli investimenti. «Semplicemente, non si può avere una strategia industriale solida se non ci sono investimenti credibili a sostenerla».

La stima dei due analisti è che serviranno almeno 50 miliardi di euro all’anno dal 2030. «Ed è una stima anche troppo prudente, perché non tiene conto dei costi dell’aumento delle tensioni geopolitiche né dei programmi di formazione dei lavoratori per metterli in condizione di affrontare la transizione». I fondi arriveranno sia dal settore privato che dal pubblico, che avrà un ruolo fondamentale per coprire rischi e mobilitare investimenti.

Da un lato c’è la grande dismissione climatica innescata da Trump, dall’altro c’è la nuova rivoluzione industriale cinese, che non accenna a fermarsi. In mezzo c’è l’Unione, chiamata a scegliere su quale futuro investire.

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