L’accordo siglato due settimane fa da Xi Jinping e Joe Biden per riavviare la cooperazione tra Pechino e Washington sull’ambiente, e i suoi record nella produzione di energie rinnovabili.

La Cina si è presentata così alla Cop28, da leader nella lotta al cambiamento climatico. Allo stesso tempo, Pechino difende l’idea secondo cui non si può pretendere un’ulteriore accelerazione da parte di un paese con 1,4 miliardi di abitanti, che si è industrializzato con 150 anni di ritardo rispetto a quelli più avanzati, i quali in passato hanno potuto inquinare liberamente.

La posizione è rafforzata dal rallentamento dell’economia nazionale (il carbone è ancora più conveniente in tempo di vacche magre) e dalla geopolitica (l’embargo hi-tech Usa colpisce anche i settori green del made in China), ma che mal si concilia con l’urgenza di frenare la corsa verso quella che il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha definito «ebollizione globale».

A rappresentare la Cina a Dubai è arrivato il vice premier Ding Xuexiang, numero sei della nomenklatura comunista, ingegnere esperto di nuovi materiali vicinissimo a Xi, che affiancherà l’inviato per il clima Xie Zhenhua, l’alto funzionario che ha trattato con John Kerry i 25 impegni (la dichiarazione di Sunnylands) sottoscritti da Xi e Biden a San Francisco, tra cui quello per «triplicare la capacità di energia rinnovabile a livello globale entro il 2030».

L’energia di origine non fossile rappresenta il 17,5 per cento di quella consumata in Cina, dove viaggiano 16,2 milioni di veicoli a nuova energia, oltre la metà di quelli in circolazione nel mondo.

La Cina produce il 75 per cento di energia fotovoltaica del pianeta ed esporta le relative tecnologie, come l’impianto di Al Dhafra – il più grande del mondo, 4 milioni di pannelli solari nel deserto di Abu Dhabi – completato cinque giorni fa dagli ingegneri cinesi.

Rinnovabili record, ma...

Il Centre for Research on Energy and Clean Air (Crea) sostiene che la Cina potrebbe raggiungere il picco di emissioni di anidride carbonica entro il 2025, cinque anni prima rispetto a quanto promesso da Xi.

Secondo uno studio appena pubblicato dall’istituzione finlandese, il gigante asiatico quest’anno genererà 440 terawattora (TWh) di elettricità pulita da fonti solari, eoliche, idroelettriche e nucleari. Tuttavia i primati puliti di quello che resta il principale emettitore di CO2 (seguito dagli Usa) potrebbero non bastare, se parallelamente non sarà intensificata la riduzione dell’impiego del carbone.

Soltanto così potrà essere centrato l’obiettivo del contenimento dell’innalzamento della temperatura globale entro gli 1,5 C° rispetto alla media preindustriale, previsto dall’Accordo di Parigi del 2015.

Eppure quest’anno in Cina – secondo un rapporto pubblicato lunedì dal Crea e dalla fondazione Heinrich Böll (Hbf) – le emissioni di diossido di carbonio aumenteranno del 4 per cento su base annua.

Una conseguenza soprattutto del crollo della produzione di energia idroelettrica causato dalla siccità che ha aumentato la dipendenza dal carbone, e della completa ripresa della produzione industriale dopo quasi tre anni di restrizioni anti Covid-19.

Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia (Iea), una tonnellata di carbone ogni quattro impiegata nel mondo viene bruciata in Cina per generare energia elettrica. In una fase di difficoltà economica, Pechino vuole poter contare ancora su questo combustibile fossile, l’unico del quale ha abbondanti riserve.

In vista del primo “global stocktake” (bilancio globale) che - secondo quanto previsto dall’Accordo di Parigi - verrà stilato a Dubai, il ministero degli esteri di Pechino ha messo le mani avanti: «La Cina ha già superato, in anticipo, i suoi obiettivi di azione climatica per il 2020».

Compromesso o scontro?

Per questo motivo a Dubai la Cina, che si ritiene ancora un paese in via di sviluppo, difenderà il principio delle «responsabilità comuni ma differenti», che vuol dire che – secondo Pechino – l’onere di contenere il cambiamento climatico ricade soprattutto sui paesi avanzati, che dovrebbero aiutare quelli più poveri attraverso finanziamenti, tecnologia e “capacity building”.

In definitiva, nonostante la stretta di mano tra Xi e Biden, anche in occasione della Cop28 la Cina si schiererà con il sud globale, con coloro che hanno ancora bisogno dei combustibili fossili e che chiedono aiuti, come il loss and damage fund istituito dalla Cop27 per sostenere i paesi poveri colpiti da catastrofi provocate dal cambiamento climatico.

Washington, al contrario, ha tradizionalmente frenato sull’istituzione e sull’impiego di questo meccanismo.

Mentre continuerà a difendere la sua esigenza di “bilanciare” sviluppo e decarbonizzazione, Pechino proverà a far pesare l’accordo appena raggiunto con gli Stati Uniti per la riduzione delle emissioni da metano.

Durante i negoziati che si svilupperanno fino al 12 dicembre (quando su Cop28 calerà il sipario), Washington potrebbe però provare a schiacciare sull’acceleratore, per l’eliminazione del carbone (che, secondo gli Usa, andrebbe compensata triplicando di qui al 2050 la capacità nucleare installata a livello planetario).

«Nessun politico può fermare ciò che sta accadendo», ha dichiarato Kerry. Secondo l’inviato per il clima di Biden, «le persone si muovono perché la scienza ci dice che dobbiamo muoverci. Non è una questione politica o ideologica, riguarda l’aria che le persone respirano».

Le trattative di Dubai ci diranno qualcosa di più sulla sostanza dei colloqui di Xi e Biden a San Francisco: i due paesi sapranno trovare un accordo su una questione globale così cruciale, oppure avranno il sopravvento gli interessi nazionali e geopolitici?

Se sulle questioni più divisive di Cop28 si andrà allo scontro, con gli Emirati Arabi Uniti che detengono la presidenza di questa COP e Sultan Al Jaber, capo della compagnia petrolifera nazionale del paese, in cabina di pilotaggio, chi frena sul superamento dei combustibili fossili potrebbe averla vinta, come è già successo alla Cop27 dell’anno scorso in Egitto.

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