Questa settimana è uscita su Nature una ricerca sul tempo che rimane da vivere ai mammiferi sulla Terra. Sono 250 milioni di anni circa, anno più, anno meno. Non parliamo in questo caso di crisi climatica, di sesta estinzione di massa, del nostro presente e futuro immediato, qui parliamo proprio di futuro della Terra nella sua interezza, le scale immense e quasi ontologiche del tempo.

Del fatto che tra un quarto di miliardo di anni la chimica dell'atmosfera, la forma dei continenti e l'espansione del Sole renderanno la Terra inabitabile per tutti i mammiferi terrestri. Così va la vita.

In questo futuro anteriore, l'evoluzione del Sole verso gigante rossa e poi nana bianca farà evaporare e poi bollire gli oceani in due miliardi di anni e metterà fine a questa nostra storia tra sette miliardi di anni. Pensare a un tempo tanto remoto da essere astratto in questo concretissimo giovedì mattina d'inizio autunno mi fa venire i brividi, non so se di conforto o di euforia o anche di stanchezza.

Questo è il tempo che non ci riguarda, ma non tutti i futuri non ci riguardano, torna qui, torniamo al futuro molto più vicino, cinquanta, cento, duecento anni. Rispetto a questo giovedì, anche trent'anni sembrano un'enormità, e lo sono, in effetti, un'enormità, ma è un'enormità che ci appartiene, che ci riguarda. Un'enormità che forse non vedremo nella sua interezza.

Non vedremo tante parti del tempo che ci riguarda, ma qualcuno che conosciamo sì, le vedrà, le abiterà, ci farà i conti. Non il futuro della gigante rossa o dei supercontinenti che cancellano i mammiferi, ma quello prossimo, nel quale esisteranno le cose che abbiamo toccato, le persone che abbiamo allevato, da qualche parte saranno in giro le nostre parole, il ricordo di noi in qualcuno e le conseguenze delle nostre azioni dappertutto.

Ci pensavo, in parte, anche pensando alla famosa bambina del famoso spot e a quando sarà grande, la bambina finzionale, l'attrice reale. Sulle infelicità familiari e personali non c'è giurisdizione di Esselunga, mia, tua, o di nessuno. Sul futuro sociale e ambientale un po' si. E di questo parliamo, in questo, che è il numero 139 di Areale. Buon sabato, dunque.

L'opzione non proliferazione

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Dopo qualche mese, torno a parlarti del (tentativo di creare un) Trattato di non proliferazione dei combustibili fossili, e non solo perché sono arrivate tre nuove adesioni (Antigua e Barbuda, Timor Est e il WWF). Parliamo ancora di una cosa piccola con numeri piccolissimi: otto paesi (tutti periferici rispetto alle cose del mondo e spaventati, Tuvalu, Vanuatu, Fiji), qualche istituzione di livello ma senza grande forza di impatto (Oms, il Parlamento europeo), una settantina di città (tra cui Pontassieve e Torino) e tanta società civile.

L'idea è promuovere un trattato sul modello di quello di non proliferazione delle armi nucleari che nel 1968 iniziò a dare una cornice al disarmo durante la Guerra Fredda. Non ha prodotto un mondo senza atomiche, ma ha probabilmente evitato scenari molto, molto peggiori.

Ci sono tanti e grandi motivi per cui è difficile applicare questo modello all'estrazione di petrolio, gas e carbone. Però ho letto una riflessione interessante sul valore di questa prospettiva, l'ha scritta l'ex capo di Greenpeace Pacifico Auimatagi Joe Moeono-Kolio, uno che frequenta la diplomazia climatica da molti anni. «Rispetto molto il processo dell'Onu e l'accordo di Parigi ma pensare che sarà quello a portarci alla fine dei combustibili fossili è un'illusione.

Non tutto ciò che riguarda i cambiamenti climatici può o dovrebbe essere deciso nello schema dell'Onu basato sul consenso». Riprendo la parola: di fatto, decidere per consenso vuol dire decidere sempre e comunque all'unanimità. Basta un paese, uno solo, che alzi la mano e salta tutto. Riprende la parola lui: «Non abbiamo il tempo per altri stalli e blocchi mentre le nostre isole affondano». Ecco.

Il suo ragionamento non è cancellare quel percorso dell’accordo di Parigi e delle COP, ma affiancarlo a qualcosa di nuovo, che non si basi solo sulla diplomazia multilaterale di Unfccc e sul mercato. E qui arriviamo all'ipotesi della non proliferazione: «Non consideratelo come un'alternativa agli sforzi che vengono fatti oggi ma come una continuazione, un prossimo passo necessario». Sono ancora vagiti di un cambiamento, difficile dire ora, autunno del 2023, se questo può essere lo strumento decisivo. Ma chissà.

Altri vagiti di cambiamento. All'High Ambition Summit voluto dell’Onu a New York, proprio mentre il Regno Unito faceva i suoi tragici, spettacolari passi indietro sulla decarbonizzazione (te ne parlavo settimana scorsa), alcuni paesi si sono espressi con grande chiarezza per un percorso concreto di phase-out del fossile e il più discorso più importante di tutti è stato quello della Colombia, che è un paese produttore di fonti fossili.

Non è così comune che un paese produttore di petrolio e carbone dica: dobbiamo fermarci, come ha fatto, per bocca del suo presidente Gustavo Petro, la Colombia a New York. «Noi viviamo di quelle esportazioni, dipendiamo da quelle esportazioni», ha detto. «Ma il vero obiettivo per tutti i paesi del mondo è la produzione zero di petrolio, gas e carbone, se non ci concentriamo su questo non avremo niente da salvare o per cui vivere».

Altre voci della settimana: Gordon Brown (te lo ricordi, Gordon Brown? Tanto che non pensavo a lui), ex premier britannico, ha parlato a favore di una tassa del tre per cento da applicare ai profitti fossili dei petrostati e da destinare alla mitigazione e all'adattamento nel sud globale.

Un potenziale da 25 miliardi di dollari l’anno di gettito. Buffo, come certi ex primi ministri dicano cose così ambiziose e progressiste sui petrostati e altri ex presidenti del Consiglio dei petrostati facciano addirittura i consulenti. 

La Iea ha bocciato la Ccs

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Nel 2021 l'Agenzia internazionale dell'energia aveva pubblicato un rapporto che, a modo suo, aveva fatto la storia: Roadmap to net zero, cioè tutto quello che doveva fare il settore energetico per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione compatibili con l'accordo di Parigi.

Dopo due anni, la Iea ha aggiornato quel rapporto e le notizie sono tre. La prima è che la strada per un futuro energetico sostenibile è ancora aperta. Stretta, problematicamente stretta, ma ancora aperta, anche per tenere l'aumento di temperature nello scenario più ottimistico: «solo» +1.5°C rispetto all’inizio della crisi climatica.

Per farlo, bisogna mettere fine a tutti i nuovi progetti fossili, triplicare le rinnovabili al 2030, raddoppiare l'efficienza energetica, spingere su pompe di calore e auto elettriche. Fin qui, niente di davvero nuovo, sappiamo da tempo che la Iea ha scelto la strada dell'ottimismo della volontà e dei numeri sul clima e questo è l'ennesimo invito pre-COP28 ai paesi a darsi una mossa.

Sono le altre due notizie a fare davvero rumore, perché sono due bocciature rispetto allo scenario che la stessa Iea aveva tracciato nel 2021. Sono le due soluzioni tecnologiche sulle quali punta di più l'industria dei combustibili fossili: la Ccs, cioè gli impianti di cattura e stoccaggio della CO2, e l'idrogeno. Nei nuovi scenari energetici Ccs e idrogeno hanno subito un downgrade brutale, nei dati e nei toni.

Non è un dettaglio tecnico da ingegneri, questa è (anche) una storia politica, perché la Ccs è considerata dai paesi produttori di petrolio e gas la loro grande polizza assicurativa sul futuro, cioè una tecnologia che permette di continuare estrazione e produzione fossile succhiando la CO2 emessa prima che vada in atmosfera e mettendola in grandi depositi geologici sotterranei o sottomarini.

Sulla carta: ottimo. Peccato che non funzioni. Il senso del problema è nella parola scelta dalla Iea: «underdeliver». Queste tecnologie sono una lunga sequenza di promesse (e investimenti e sussidi pubblici) che non hanno mai portato i risultati sperati. Il sistema funziona, su carta e nei prototipi, ma non si avvicina nemmeno lontanamente alla scala richiesta per contrastare la crisi climatica. Costa troppo e produce poco.

A oggi, dopo un decennio di tentativi, la Ccs assorbe lo 0,01 delle emissioni di CO2. Quello che ci dice la Iea è che non abbiamo più tempo per puntare le nostre carte su una tecnologia che ha mostrato di fare poco più del solletico alle emissioni di CO2.

Negli scenari tracciati dalla nuova roadmap to net zero il contributo della Ccs viene tagliato del 40 per cento. Come contesto, il sito Desmog ha analizzato il destino dei dodici impianti di Ccs più grandi al mondo e il risultato, dall'Australia agli Stati Uniti passando per la Norvegia, è una lunga sequenza di fallimenti.

La Iea nel suo rapporto ribadisce che ci sono soluzioni più efficaci, e quelle soluzioni sono: rinnovabili, efficienza, elettrificazione. Come spiega Dave Jones di Ember Climate «la sfortuna della Ccs e dell'idrogeno è anche che le altre soluzioni, a partire da solare ed eolico, stanno funzionando meglio del previsto».

Le parole di Fatih Birol, direttore della Iea, suonano come un funerale per la cattura e stoccaggio della CO2 come techno-fix dei miracoli: «Rimuovere carbonio dall'atmosfera è molto costoso. Dobbiamo fare tutto quello che è in nostro potere per smettere di farcelo andare».

Questo rapporto dovrebbe farci rivalutare con molta attenzione il nuovo progetto di Eni e Snam, il primo impianto di Ccs in Italia, a Ravenna, per catturare 25mila tonnellate di CO2 dalla centrale Eni a gas di Casalborsetti. Questa roba non sta funzionando.

Prospettive meno favorevoli del previsto anche per l'idrogeno, che per la Iea è addirittura passato «da soluzione climatica a problema climatico».

Perché ci avevano promesso che sarebbe stato idrogeno verde (fatto con elettrolisi dell'energia prodotta da rinnovabili, e quindi pulito) e invece oggi ce lo ritroviamo ancora tutto blu, cioè fatto col gas e mitigato con la già bocciata Ccs, quindi attraverso una soluzione che non funziona.

Per l'idrogeno si prospetta una posizione «alla champagne» del mix energetico, come la definisce Jones, cioè di tecnologia d'élite da usare per situazioni e in contesti molto specifici, proprio come lo champagne, e non per processi sui quali ci sono soluzioni molto più semplici ed efficienti (vedi l'auto, i trasporti urbani o il riscaldamento degli edifici). Per gli apocalittici, il rapporto Iea è un'iniezione di ottimismo. Per i tecnottimisti, è un'iniezione di senso di realtà.

Come si parla di Antartide (e come si parla in Antartide)

ANSA

Dobbiamo parlare più spesso di Antartide, perché sta lì a 15mila chilometri di distanza e noi ce ne dimentichiamo, ma lui non si dimentica di noi. La notizia di questa settimana l'ho scritta su Domani mercoledì: il ghiaccio marino non è mai stato così poco alla fine dell'inverno. È ai minimi. È ai minimi di tantissimo margine.

Nel senso che manca più di un milione di chilometri quadrati di ghiaccio marino rispetto al mimino storico precedente. È il motivo per cui la stagione riproduttiva dei pinguini imperatore è stata un disastro: pensavano ci fosse ghiaccio, non c'era ghiaccio. E quindi inauguro una rubrica intermittente di bollettini antartici, e se c'è qualcuno che legge Areale e frequenta l'Antartide scrivimi (o portami con te, i poli sono due, quello Nord l'ho visto, mi manca quello Sud).

La mia storia antartica preferita di questa settimana è che l'Antartide sta sviluppando un suo accento (ricordo che in uno dei primi numeri di Areale, era proprio il primo anno, avevamo parlato della bandiera dell'Antartide). Lo hanno studiato dei linguisti, che hanno pubblicato i risultati nel 2019 in un paper dal titolo di una bellezza sublime: Phonetic change in an Antarctic winter. I ricercatori hanno analizzato la parlata di undici persone che lavorano d'inverno al British Antarctic Survey: cinque inglesi del sud, tre inglesi del nord, uno statunitense, un tedesco e un islandese.

Hanno registrato i loro pattern linguistici prima di partire e poi a intervalli regolari e hanno scoperto che i suoni di una serie di vocali o gruppi di vocali hanno iniziato ad assomigliarsi tra loro, in modo peculiare e inedito, soprattutto quando sono in Antartide, d'inverno.

Lo studio dice che non è qualcosa che riesci a percepire a orecchio, come un accento particolarmente marcato, ma è diventato «acusticamente percepibile». Non una notizia che cambia il mondo, ma una piccola storia affascinante.

Siamo arrivati alla fine, per questa settimana, questa newsletter è stata prodotta ascoltando ossessivamente (e ci mancherebbe) l'ultimo album dei National, leggendo Ricordi della mia inesistenza di Rebecca Solnit e l'ultimo numero della rivista L'Integrale (dove c'è un mio articolo sul catering delle COP e tante altre cose belle). Tra qualche ora intervengo al festival Many Possibile Cities a Firenze, stai bene, vieni a trovarmi, prenditi cura di te, fatti sentire e scrivimi a ferdinando.cotugno@gmail.com, per parlare con Domani, invece, lettori@editorialedomani.it.

Buon sabato!

Ferdinando Cotugno

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