C’è ovviamente un contesto intorno alla terribile ricerca pubblicata questo mese su Nature: l’Amazzonia è diventata emettitrice netta di CO2, restituisce all’atmosfera più carbonio di quello che assorbe, come se fosse una gigantesca centrale a carbone: un miliardo di tonnellate di CO2 all’anno, più dell’intera Germania.

Secondo l’Inpe, l’Instituto Nacional de Pesquisas Espaciais, che ha condotto la ricerca, siamo vicini a un punto di non ritorno, oltre il quale diventa impossibile fermare il degrado forestale. Il contesto di questa corsa verso il baratro siamo noi. Non solo il governo Bolsonaro, sotto il quale la deforestazione ha raggiunto un picco decennale, non solo il ministro dell’ambiente Ricardo Salles che si è dovuto dimettere per uno scandalo sul legname illegale, ma noi, i nostri consumi, le nostre scelte, la carne rossa, il bestiame allevato a mangimi a base di soia, e ogni altro prodotto a rischio deforestazione che entra nella nostra economia. È un problema che colleghiamo all’Amazzonia come foresta carismatica, ma riguarda anche altre aree del Brasile, il Pantanal e il Cerrado, le foreste tropicali dell’Africa, quelle del sud-est asiatico, quelle boreali dell’est Europa.

Il bivio europeo

In questi mesi è in corso una battaglia politica in Europa di cui si parla pochissimo, ma dalla quale dipende il futuro delle foreste globali. L’Unione europea è il secondo importatore mondiale di deforestazione dopo la Cina, i nostri consumi causano il 16 per cento della sua distruzione per cause commerciali. Lo scontro è tra due modelli opposti per evitare che i cittadini europei diventino complici della deforestazione tropicale. Il primo è quello che propongono le industrie di carne, soia, legname, carta, gomma, olio di palma, cacao: l’autoregolamentazione, le buone pratiche auto-certificate all’interno delle filiere, le etichette e gli schemi di certificazione. Il secondo è una regolamentazione europea che obblighi produttori, importatori e distributori a fare una due diligence (un’attività di approfondimento di dati e informazioni) di quello che immettono sul mercato, per fare in modo che le filiere siano trasparenti e verificabili da parti terze.

Il primo modello è quello volontario ed è sostenuto dalle aziende, che in pratica dicono: alla sostenibilità ci teniamo, facciamo da sole, non abbiamo bisogno di briglie pubbliche. È la strada che abbiamo seguito finora e la trasformazione dell’Amazzonia in una fabbrica di CO2 dimostra come la giungla di certificazioni ed etichette non abbia prodotto risultati accettabili. È un sistema che funziona male soprattutto quando nei paesi di origine ci sono problemi di corruzione e un governo complice, che allarga le maglie della legge come sta facendo Jair Bolsonaro, incoraggiando il land grabbing forestale, l’appropriazione privata del suolo pubblico.

Quello che accade all’inizio della filiera diventa impossibile da verificare e facile da ignorare, perché legale corrisponde sempre meno a sostenibile. Secondo Greenpeace, le attuali norme di Paraguay, Argentina e Brasile permetterebbero la distruzione ulteriore di 100 milioni di ettari di foreste senza violare nessuna legge: sarebbe l’equivalente della copertura forestale persa globalmente negli ultimi due decenni. L’alternativa è una regolamentazione che la Commissione europea ha promesso e che continua a essere rinviata, sotto l’enorme pressione dell’attività di lobbying di importatori e trasformatori di materie prime, in particolare carne e soia.

Nel 2020 c’era stata la più grande consultazione pubblica europea in tema ambientale, 1,2 milioni di cittadini europei (e 75mila italiani) si sono pronunciati per chiedere filiere controllate. La Commissione aveva raccolto l’impegno, sollecitata da una risoluzione del Parlamento europeo, ma il processo continua a slittare, grazie a tattiche dilazioniste simili a quelle adottate dall’industria delle fonti fossili di energia: un’opposizione aperta contro le regole anti-deforestazione non sarebbe ben ricevuta dai consumatori, allora la tattica è rinviare, ostacolare, ritardare, obiettare, pur mantenendo fermi gli impegni di massima. Le regole dovevano arrivare a luglio, sono state spostate all’ autunno, hanno appena subìto un nuovo rinvio, a dicembre.

Sabotage

Greenpeace ha denunciato questa pressione industriale in un rapporto intitolato Sabotage. Una regolamentazione europea non sarebbe un proiettile magico, come dimostra la Timber regulation contro il legname illegale entrata in vigore in Europa nel 2013, un sistema pieno di falle e debolezze, ma sarebbe comunque in grado di ridurre il margine che gli importatori hanno di spingere a monte l’onere della sostenibilità. Senza regole certe, chi importa prodotti di origine tropicale può ignorare cosa succede sul campo, i fenomeni come il riciclaggio dei capi di bestiame, che Martina Borghi, responsabile foreste di Greenpeace, spiega così: «Gli animali vengono allevati in un’area sottratta alla foresta. Poi venduti a un’altra azienda, in un’area non deforestata, da lì arrivano al macello o a un’azienda di lavorazione, come il colosso Jbs, che vende ai trader per il mercato internazionale. In Italia la carne arriva ai grossisti, che la distribuiscono a ristoranti e supermercati. In una catena così lunga e confusa, il primo tassello, la distruzione forestale, viene completamente perso di vista».

Il nuovo olio di palma

A maggio ha iniziato a prendere forza un’altra ipotesi: il boicottaggio. Trentasei aziende, tra le quali Aldi, Lidle, Tesco, Sainbury’s, hanno inviato una lettera al Congresso brasiliano chiedendo di riconsiderare le norme sul land grabbing. Per Borghi «il boicottaggio non è la soluzione e noi non lo sosteniamo: è un modo per provocare danni ulteriori, abbandonare un paese a sé stesso e spostare altrove il problema». Per le organizzazioni ambientaliste, la strada è un sistema europeo di regole certe, che da un lato solleva il consumatore dall’onere di doversi pagare la sostenibilità e dall’altro gli offre trasparenza e certezze.

Secondo Isabella Pratesi, direttrice conservazione del Wwf, «il cambiamento vero avviene al livello del consumo. Basta ricordare cosa è successo con l’olio di palma: abbiamo detto per anni quali problemi causasse, poi sono uscite ricerche sui danni alla salute e la pressione istantanea dei consumatori ha cambiato il mercato». L’olio di palma ha solo slittato di filiera (ora i danni li fa nei biocarburanti), ma l’esempio rimane corretto. «La deforestazione deve diventare il nuovo olio di palma, l’aberrazione insostenibile che non ci sogneremmo mai di consumare». In questo momento è difficile per il consumatore orientarsi e sapere cosa sta mangiando, da dove viene, qual è stato il prezzo ecologico all’origine. È per questo motivo che un obbligo di controllo per chi ce lo porta a tavola o nel supermercato oggi farebbe tutta la differenza del mondo.

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