L’esposizione a un cocktail di prodotti agrochimici aumenta significativamente la mortalità delle api. È ciò che rivela una nuova meta-analisi (uno studio che combina tra loro i risultati di numerosi studi scientifici e li sottopone a una procedura statistica) di dozzine di studi pubblicati negli ultimi 20 anni dove si sono esaminate le interazioni tra vari prodotti agrochimici e i comportamenti delle api, come il foraggiamento, la memoria, la riproduzione delle colonie e la salute. Lo studio, pubblicato su Nature, ha anche scoperto che l’interazione con i pesticidi è “sinergica”, il che significa che il loro impatto combinato è superiore della somma dei loro effetti individuali. Queste «interazioni tra più prodotti agrochimici aumentano significativamente la mortalità delle api», ha affermato il coautore Harry Siviter, dell’Università del Texas ad Austin.

Lo studio ha concluso che le valutazioni del rischio che non considerano questo risultato «possono sottovalutare l’effetto interattivo dei fattori di stress antropogenici sulla mortalità delle api. L’incapacità di affrontare questo problema e di continuare a esporre questi insetti a molteplici fattori di stress antropogenici in agricoltura comporterà il loro continuo declino e dei loro servizi di impollinazione, a scapito della salute umana e dell’ecosistema».

Secondo le Nazioni unite, circa il 75 per cento delle colture mondiali che producono frutta e semi per il consumo umano si basa su impollinatori, tra cui cacao, caffè, mandorle e ciliegie. Nel 2019 gli scienziati hanno concluso che quasi la metà di tutte le specie di insetti in tutto il mondo sono in declino e un terzo potrebbe scomparire del tutto entro la fine del secolo. Una specie su sei di api si è già estinta a livello regionale in diverse parti del mondo.

L’era glaciale “improvvisa”

In un periodo compreso tra 40 e 34 milioni di anni fa la Terra venne coinvolta da un importante cambiamento climatico, in quanto, in un lasso di tempo geologicamente breve passò da pianeta molto caldo, con un effetto serra notevole, a pianeta freddo e glaciale. Prima di 40 milioni di anni fa, infatti, la Terra era ricoperta da estese foreste, anche in aree che oggi sono molto fredde come quelle in prossimità dei poli. Poi, ecco un cambiamento sostanziale: le foreste cedettero il posto ai ghiacci che si diffusero con notevoli spessori in grandi aree del pianeta, alcune delle quali poi, rimasero sull’Antartide dei nostri giorni.

Le cause di questo fenomeno sono state cercate da tempo, ma ora, in base a un nuovo studio realizzato da un gruppo internazionale di scienziati guidato da Vittoria Lauretano e da David Naafs, ricercatori dell’Università di Bristol, lo stravolgimento climatico sarebbe stato causato da un anomalo calo dei livelli di anidride carbonica nell’atmosfera.

A questa conclusione i ricercatori sono giunti dopo aver analizzato la distribuzione di membrane cellulari di particolari batteri le quali, con il trascorrere del tempo, cambiavano per far sì che i batteri stessi potessero adattarsi ai cambiamenti di temperatura, ma anche di acidità. «Grazie al modo con cui si sono conservati alcuni di tali batteri si è potuto ottenere importanti indizi riguardo le condizioni ambientali di quell’epoca», ha spiegato Rich Pancost, della Scuola di chimica dell’università di Bristol che ha seguito lo studio. I dati rilevati hanno mostrato che le temperature terrestri hanno raffreddato gli oceani di valori tali che il raffreddamento generale dell’atmosfera deve essere stato di circa 3 gradi centigradi. Una situazione, che stando a simulazioni al computer, si sarebbe potuta ottenere solo con un calo effettivo dell’anidride carbonica atmosferica.

Speranza per il clima

Lo storico rapporto pubblicato settimana scorsa dal Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (Ipcc) ha lasciato molte persone sconcertate sullo stato attuale e futuro del nostro pianeta. Tamsin Edwards del King’s College di Londra, una delle principali autrici del rapporto, ha affermato a NewScientist che «molte persone non sono ancora così consapevoli che ci siamo già all’interno di cambiamenti irreversibili».

Per Edwards, un messaggio chiave del rapporto è il passaggio dall’influenza umana sul riscaldamento globale da “chiaro” in un rapporto Ipcc del 2013 a “inequivocabile”. I risultati dell’Ipcc sembrano davvero cupi, ma la stessa Edwards dice che esiste ancora speranza. Il rapporto rileva che nel più difficile dei cinque scenari che si potranno avere con le future emissioni di anidride carbonica, non è da escludere che il mondo possa raggiungere l’obiettivo dell’Accordo di Parigi di contenere l’aumento della temperatura terrestre a 1,5 gradi centigradi nei prossimi 20 anni. «È importante rendersi conto che è ancora possibile limitare il riscaldamento a 1,5 gradi con riduzioni immediate, rapide e su larga scala. Ovviamente, diffondere ottimismo o pessimismo non era il mandato della nostra relazione, ma esporre le prove», afferma Edwards.

Inger Andersen del Programma delle Nazioni unite per l’ambiente ha dichiarato che il mondo non ha ascoltato trent’anni di avvertimenti dall’Ipcc. «Il mondo ha ascoltato ma non ha sentito. Ha ascoltato ma non ha agito abbastanza forte. Di conseguenza, il cambiamento climatico è un problema, qui, ora», ha detto.

Il mammut viaggiatore

Un gruppo di ricerca internazionale ha ripercorso l’incredibile viaggio che un mammut lanoso artico, che visse in Alaska, fece durante la sua vita che durò circa 28 anni: coprì distanze paragonabili a due volte il giro del nostro pianeta. Lo studio, i cui risultati sono apparsi sulla rivista Science, ha interessato un mammut fossile di 17mila anni fa che si trova nel Museo del Nord dell’università dell’Alaska. Studiando particolari atomi presenti in una zanna i ricercatori sono stati in grado di abbinare i suoi movimenti e la sua dieta alle mappe della regione. Finora erano noti pochi dettagli sulla vita e sui movimenti dei mammut lanosi e lo studio offre la prima prova che essi erano grandi viaggiatori e durante la loro vita coprivano enormi distanze. «Non è chiaro se fosse un migratore stagionale o se si muoveva in continuazione, sta di fatto che ha coperto distanze davvero significative», ha affermato Matthew Wooller dell’università dell’Alaska Fairbanks, e tra gli autori della ricerca. «L’animale ha visitato molte parti dell’Alaska, il che è piuttosto sorprendente se si pensa a quanto è grande quell’area». I ricercatori dell’Alaska Stable Isotope Facility, di cui Wooller è direttore, hanno diviso la zanna, lunga 1,8 metri, in modo longitudinale e hanno studiato con un laser e altre tecniche circa 400mila punti. Le analisi dettagliate che hanno effettuato i ricercatori sono state possibili grazie al modo in cui sono cresciute le zanne del mammut. Questi animali infatti, aggiungevano nuovi strati alle zanne ogni giorno che passa, per tutta la vita. Quando la zanna è stata divisa longitudinalmente, queste bande di crescita sembravano coni gelato impilati, permettendo ai ricercatori una registrazione cronologica dell’intera vita del mammut. «Di solito madre Natura non offre registrazioni così precise e durature della vita di un individuo», ha detto Pat Druckenmiller, paleontologo e direttore dell’Ua Museum of the North. Gli scienziati sapevano che il mammut è morto a nord dell’Alaska, sopra il circolo polare artico, dove i suoi resti sono stati ritrovati da un gruppo di ricercatori che includeva Dan Mann e Pam Groves dell’Uaf, che sono tra i coautori dello studio. I ricercatori hanno ricostruito il viaggio del mammut fino a quel momento analizzando le firme atomiche lasciate dagli isotopi (ossia atomi che possiedono lo stesso numero di protoni, ma diverso numero di neutroni) dello stronzio e dell’ossigeno nella sua zanna, che sono state abbinate a mappe che mostrano le variazioni isotopiche in tutta l’Alaska. I ricercatori avevano creato le mappe analizzando i denti di centinaia di piccoli roditori provenienti da tutta l’Alaska conservati nelle collezioni del museo. Questi animali percorrono distanze relativamente piccole durante la loro vita e dunque dicono quali isotopi vi sono in una determinata area con estrema precisione. Usando tali dati si è potuto mappare la variazione, fornendo una linea di base per tracciare i movimenti dei mammut. Dopo aver preso in considerazione le barriere geografiche e la distanza media percorsa ogni settimana, i ricercatori hanno potuto tracciare i probabili percorsi che l’animale ha seguito durante la sua vita.

E così, ad esempio, un brusco cambiamento nella sua firma isotopica, ha permesso di affermare che a circa 15 anni probabilmente abbandonò il suo branco, rispecchiando uno schema visto in alcuni elefanti maschi dei giorni nostri.

Il Dna conservato nei resti del mammut poi, ha permesso ai ricercatori di identificarlo come un maschio imparentato con l’ultimo gruppo della sua specie che viveva nell’Alaska continentale. «Sapere che era maschio ha fornito un contesto biologico migliore in cui potevamo interpretare i dati isotopici», ha detto Beth Shapiro, professoressa presso l’Università della California Santa Cruz e ricercatrice presso l’Howard Hughes Medical Institute.

Gli isotopi hanno anche offerto un indizio su ciò che ha portato alla morte dell’animale. Gli isotopi di azoto sono aumentati durante l’ultimo inverno della sua vita, un segnale che può indicare fame nei mammiferi.

© Riproduzione riservata