Buongiorno, lettrici e lettori di Domani, questa è la prima edizione natalizia nella storia di Areale, grazie per avermi seguito fin qui, tra poco compiamo un anno, questa comunità è un regalo vero, non so bene come ricambiare, però, davvero: grazie. Partiamo? Partiamo!

Cile, il paese del litio e del rame

Ci sono diverse chiavi di lettura possibili per la svolta politica del Cile e la vittoria di Gabriel Boric: la chiusura intergenerazionale della ferita della dittatura di Pinochet, la contestazione studentesca e la generazione dei nati negli anni Ottanta che arrivano al potere, la fine, almeno annunciata, del modello neoliberista alla cilena. Ma c’è anche la chiave climatica ed è una serratura complessa da scassinare, senza soluzioni facili.

Il Cile è un paese fondamentale per la transizione energetica: è il secondo produttore mondiale di litio (31,9 per cento del totale nel 2021), il primo per riserve di litio, ed è il primo esportatore di rame (26,7 per cento).

19/12/2021 Santiago del Cile, il candidato del centrosinistra Gabriel Boric festaggia la vittoria alle elezioni presidenziali in Cile

Ecco, senza litio e senza rame non c’è energia pulita. Il 60 per cento della domanda di rame viene dal solare, dal fotovoltaico, dai veicoli elettrici e dalle nuove infrastrutture verdi. Le tecnologie per le rinnovabili usano dodici volte più rame dell’elettronica tradizionale, è un materiale che non ha alternative, che può essere riciclato ma ha una ciclo di vita lungo, e che rischia di vedere il 90 per cento delle riserve esaurirsi già a metà secolo.

Il paese che ha preso più sul serio la questione del rame è la Cina, che ha una strategia apposita dai primi anni 2000 e che ha investito 18 miliardi di dollari in progetti di estrazione in America Latina (14 solo in Perù).

E poi c’è il litio, architrave del processo di produzione e distribuzione dell’energia verde, dalle auto alle reti. La domanda di litio per fare le batterie per veicoli elettrici e stoccaggio di energia è cresciuta da 0.5 GW/h nel 2010 a 526 GW/h nel 2020. Secondo Bloomberg, non smetterà di farlo: aumenterà di 17 volte entro il 2030. Il futuro come lo immaginiamo si basa sul litio, almeno per ora. E in Cile c’è un terzo del litio mondiale, quindi un terzo del nostro futuro. 

Il piano di Boric per il settore minerario è chiaro nelle intenzioni generali ma ancora povero di dettagli. Sappiamo che il nuovo presidente considera la privatizzazione delle miniere nel Cile turboliberista un errore da non ripetere, che ha in programma di creare un’azienda nazionale per l’estrazione e la valorizzazione del litio e che è contrario a Dominga, la nuova immensa miniera di rame contestata dagli ambientalisti, ma approvata ad agosto dopo anni di battaglie legali.

Qui c’è un paradosso.
Il paradosso.
Un nodo sul quale il Cile di Gabriel Boric sarà un paese laboratorio per la ricerca di equilibri sostenibili: l’estrazione di minerali come rame e litio ha un grande valore dal punto di vista del clima, della mitigazione del riscaldamento globale e della riduzione della CO2. Vuol dire più turbine eoliche, più pannelli solari, più energia verde.

Ma rischia di creare nuove catastrofi ambientali locali.

La nuova miniera di rame è in un ambiente costiero delicato per flora e fauna, non lontano dalle “Galápagos cilene”, ovvero l’Humboldt penguin national reserve.

Boric ha annunciato che farà leva sulle autorizzazioni ambientali per fermare il progetto. «Non vogliamo creare zone di sacrificio per la popolazione locale, non vogliamo progetti che distruggono il paese e le comunità», ha spiegato. Le miniere di rame anche energivore: secondo la Comisión Chilena del Cobre l’estrazione di rame usa il 14 per cento di tutta l’energia del paese.

L’estrazione di litio è altrettanto nociva, perché ha bisogno di acqua. Quantità enormi di acqua. Servono 2 milioni di litri per tonnellata per l’estrazione dai laghi salati del deserto di Atacama, il 65 per cento di quella disponibile nella regione.

Come contesto: il Cile è in siccità da dieci anni. Le comunità indigene, una delle basi per l’alleanza sociale e il successo di Boric, hanno chiesto al regolatore ambientale cileno di sospendere i permessi di estrazione del litio.
Quindi: il nuovo presidente rischia di trovarsi a scegliere tra l’ambiente e il clima, avanguardia di un problema che riguarderà tutti.

C’è una parte del mondo che guarda con interesse a quello che succederà nel Cile di Boric ed è l’Unione europea, che ha da tempo messo l’autosufficienza per le batterie e lo stoccaggio di energia elettrica tra i pilastri della sua strategia di decarbonizzazione.

Questa autonomia passa dal deserto di Atacama. La domanda di litio per le batterie in Europa crescerà di 18 volte nel corso di questo decennio e di 60 volte entro il 2050. L’Unione oggi importa il 78 per cento del suo litio dal Cile e – come dimostrano le proteste in Portogallo – farà fatica a usare le poche riserve sul suo territorio.

Il piano di Boric di creare un soggetto statale del litio è tutto da definire ma non può che passare da uno sfruttamento locale del materiale, per smettere di esportarlo appena estratto, aumentarne il valore e creare una filiera di lavorazione dentro il Cile. È un progetto che va in rotta di collisione con i piani energetici dell’Unione europea.

Perché cinema e clima non si incontrano (quasi) mai?

È quasi Natale.

Se siete arrivati fin qui, avete letto di un argomento complesso e probabilmente scoraggiante come il litio e il rame. Visto che in fondo a questo numero di Areale c’è un contributo interessante (e denso) di un ospite speciale, su una figura rasserenante e per niente divisiva come Elon Musk, facciamo un intervallo e parliamo di un argomento più leggero: i film, o meglio, il confronto tra l’industria del cinema e la crisi climatica.

Lo spunto me lo ha suggerito un articolo del Washington Post sui titoli che hanno trattato meglio l’argomento. La lista è interessante. È anche un po’ scarna e datata, e non è affatto colpa del Washington Post. Ci sono davvero pochi film sul clima.

Mentre la crisi diventava politicamente e socialmente vistosa, il cinema si è sottratto a questo racconto. La letteratura ha avuto lo sguardo e la capacità di affrontare il tema con ricchezza di angoli e voci (e ne abbiamo parlato spesso in questa newsletter), autori di film e case di produzione hanno iniziato a girare alla larga.

Ce ne erano di più quindici anni fa che oggi, ed è strano. Quindi il primo titolo che viene citato in questi elenchi, e probabilmente quello che vi era già venuto in mente quando avete iniziato a leggere questo blocco di Areale, è The Day After Tomorrow, col quale ci tocca tornare al 2004.

Ronald Emmerich lo mise in cantiere subito dopo il successo di Independence Day, rinunciando a un facile sequel per inseguire l’idea di raccontare una catastrofe climatica. Era il periodo che avrebbe incubato il documentario su Al Gore Una scomoda verità, c’era un’urgenza nell’aria e The Day After Tomorrow è riuscito a intercettarla – pur con tutti i suoi limiti di plausibilità e l’ampio uso di ogni cliché a disposizione.

«I miei amici hanno pensato che fossi pazzo», racconta il regista. «Ogni volta che mi chiedevano di cosa parlasse il film, io rispondevo: riscaldamento globale. All’epoca, nel 1999, era un argomento laterale, la gente ne leggeva ma nessuno sapeva davvero cosa fosse».

È come se confini indefiniti e conoscenza vaga avessero permesso un’esplorazione più libera. Il progresso della nostra comprensione e i vari rapporti dell’Ipcc hanno tolto margine di azione alla capacità di immaginare? È diventato tutto troppo serio e personale per parlarne?

Non casualmente, per avere un altro grande film climatico, Mad Max: Fury Road, abbiamo dovuto cercare altrove, in una forma scarna, spinta ed estrema di fantascienza (oltre che in un auto-remake, quindi lavoro su un materiale e un universo narrativo già esistenti).

Il Mad Max di George Miller con Tom Hardy e Charlize Theron esce nel 2015, lo stesso anno dell’accordo di Parigi: oltre a essere uno dei grandi film del decennio, ha il merito di aver definito il tono dell’accesso alle risorse e, anzi, della loro scomparsa, con una forza e una chiarezza che nessun altro ha avuto (solo il Dune di Villeneuve ci si è avvicinato).

Mad Max: Fury Road riesce contemporaneamente a parlare di crisi climatica e a non essere un film sulla crisi climatica. È la denuncia di un collasso e delle sue conseguenze esistenziali, sociali, fisiche, ma ci permette ancora di guardarlo come se non ci riguardasse. È un grande film, ed è anche cinema di evasione.

È difficile uscirne personalmente turbati (o a voi è successo?), come se l’unico modo per parlare di clima fosse fingere di non parlare di clima. E infatti il film del momento su questo argomento, Don’t Look Up di Adam McKay, fa il giro largo e ufficialmente parla dell’impatto di una cometa sulla Terra, non di riscaldamento globale.

C’è un ultimo titolo che vi cito, perché è quello che è riuscito a parlare meglio di giustizia climatica, oltre a essere uno dei miei film preferiti: Re della terra selvaggia di Benh Zeitlin. È ambientato su un’isola della Louisiana che ricorda molto quella dei primi migranti climatici degli Stati Uniti (raccontati benissimo ne L’altro mondo di Fabio Deotto).

È la storia di un padre e di una figlia, la bravissima Quvenzhané Wallis, che sarebbe diventata grazie a questo film la più giovane nominata a un Oscar di sempre, la cui vita viene travolta dall’inabissamento della loro terra, delle loro case, della loro identità.

Il clima non viene nominato, ma non ce n’è bisogno, questa era una storia del presente, non serve dire le cose ad alta voce quando le immagini le mostrano così bene. Re della terra selvaggia è il miglior «Show, don’t tell» applicato ai cambiamenti climatici. Il problema? È un film del 2012, quasi dieci anni fa.

Cosa ci siamo persi? Cosa mi sono perso? Se avete suggerimenti, titoli o spiegazioni, sono qui, potrebbe essere una buona scusa per farci gli auguri.

Elon Musk il terraformatore

L’ultimo pezzo di Areale prima di Natale è affidato ad Andrea Zanni, che avrete sicuramente già letto su Domani. Ci parla, come annunciato sopra per prepararvi, della persona dell’anno 2021 secondo Time, cioè Elon Musk.

(Zanni è un bibliotecario digitale. Ha una laurea in matematica e un master in Digital libraries conseguito fra Oslo, Tallinn e Parma. Scrive su giornali e riviste online di cultura digitale, letteratura, cambiamento climatico, è un piccolo investitore in Tesla e ha delle opinioni precise e interessanti su Musk. Non condividerete tutto quello che scrive, gli ho chiesto di aiutarmi e aiutarci a guardare a questa storia da un altro angolo. Eccolo).

Partiamo dalla conclusione: pensare che la transizione energetica, in un mondo capitalista che ha basato tutto sui combustibili fossili, avvenga in maniera naturale, organica, senza conflitti, portata avanti da persone di buona volontà, con spirito ambientalista, di comune accordo, è puro pensiero magico.

E sognare a occhi aperti, con il climate change, non è permesso: diventa solo un altro modo di perdere tempo.

Elon Musk è un terraformatore. In questa singola parola abitino tutti i suoi difetti e tutti i suoi pregi. È testardo, ambizioso fino alla follia, terribilmente determinato verso i suoi obiettivi. E terribilmente capace.

Quali sono i suoi obiettivi? Rendere gli esseri umani una specie multiplanetaria e accelerare l’avvento di una civiltà che utilizzi energia sostenibile. Per il primo ha creato SpaceX e per il secondo ha co-fondato Tesla.

Usiamo dunque il suo metodo: una civiltà sostenibile, per definizione, è una civiltà che si basa su energia rinnovabile, senza emissioni.

Qual è la maggiore e più sostenibile fonte di energia rinnovabile? Il sole. Nel 2003, Musk investì in un’azienda di energia solare, SolarCity, che è stata leader del mercato americano per anni prima di venire acquisita da Tesla nel 2016.

Qual è il settore che emette più emissioni e che ha più probabilità di essere reso sostenibile da una svolta tecnologica? Quello dei trasporti. Sempre nel 2003, Musk investì in Tesla e ne divenne Ceo.

Nel 2006, scrisse il Tesla “Master Plan”. L’idea era semplice: costruire una macchina elettrica di lusso; con i profitti costruirne una più abbordabile, in volume maggiore; con i profitti costruire un’auto veramente di massa.

Con qualche rallentamento, il piano ha funzionato. Al momento, Tesla è leader del mercato globale delle auto elettriche con il 21 per cento (in crescita), e vende circa un milione di auto all’anno, con l’intenzione di raddoppiare l’anno prossimo, grazie alle Gigafactory di Berlino e di Austin, appena aperte. E continuando a raddoppiare negli anni seguenti. In termini di autonomia, batterie, velocità, software, connettività, rete di ricarica, Tesla è nettamente la prima al mondo.

A tutto questo si aggiunge la guida autonoma, che, quando arriverà, renderà possibile un modello di sharing molto più capillare, e, si spera, aiuterà anche ad avere meno auto su strada, ma usate molto di più.

Avendo le migliori batterie al minor costo, Tesla ha diversi prodotti: soprattutto auto, e a breve camion a lunga e media percorrenza. Ma anche batterie per accumulo, come i Megapack, che permettono ai sistemi di energia solare ed eolica di diventare stabili e quindi cambiare totalmente la rete elettrica. O i Powerwall, che a livello residenziale si connettono per formare delle “centrali elettriche virtuali”.

Tesla ha verticalizzato la produzione più di ogni altra casa automobilistica, in modo da non essere dipendente da decine di migliaia di fornitori, ed evitare che migliaia di pezzi facciano il giro del mondo.

La transizione energetica globale non è una condizione sufficiente per mitigare il climate change. Ma è assolutamente necessaria. Altrimenti stiamo parlando di fuffa. In un’epoca divisa fra il sacrosanto movimentismo dei giovani (che però hanno poco potere) e gli spuntatissimi politici dei governi (tipo l’ultima Cop..), ridotti al più classico dei dilemmi del prigioniero, l’industria deve fare la sua parte, e seriamente. Al netto di tutto il greenwashing.

È ormai assodato che senza Tesla tutte le altre case automobilistiche avrebbero continuato con il loro lobbying e rallentato la transizione elettrica, facendo uscire il minimo di modelli elettrici per ingraziarsi pubblico e politica. Altrimenti, come sarebbe stato possibile per una piccola startup californiana battere giganti come Toyota e Volkswagen in una delle industrie più costose e ricche del mondo? Al momento, Tesla è la più forte realtà industriale a lavorare nella direzione giusta.

Che a farlo sia una persona che «non ci piace» è un problema minore, a mio avviso. In un mondo capitalista l’azienda che guida la transizione è ovviamente valutata triliardi. Quindi Musk, che ha milioni di azioni, è diventato l’uomo più ricco del mondo: se può consolare qualcuno, tutti i 100mila dipendenti per contratto hanno delle stock options, aspetto più unico che raro nel panorama industriale.

Musk non è l’eroe ambientalista che può piacere all’ambientalismo – per quello c’è Greta – ma è quello che ci serve adesso.

È davvero tutto, per pareri, opinioni, film climatici, auguri, repliche su Musk o sulla vita in generale scrivetemi a ferdinando.cotugno@gmail.com. Per comunicare con Domani, l’indirizzo è lettori@editorialedomani.it.

Buon Natale!

Ferdinando Cotugno

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