I recenti dati relativi alla siccità basati su una ricerca condotta negli ultimi due anni e redatta dalle Nazioni unite indicano «un’emergenza senza precedenti su scala planetaria, dove gli impatti massicci delle siccità indotte dall’uomo stanno appena iniziando a manifestarsi».

Il report

Secondo il rapporto “Global Drought Snapshot”, lanciato dalla Convenzione delle Nazioni unite per combattere la desertificazione (Unccd) all’inizio dei colloqui sul clima della Cop28 negli Emirati Arabi Uniti, pochi, se non nessuno, tra i pericoli causano più morti, maggiori perdite economiche e colpiscono più settori della vita sociale dell’uomo della siccità.

L’Unccd è una delle tre convenzioni stipulate al Summit della Terra del 1992 a Rio de Janeiro. Ibrahim Thiaw, segretario esecutivo dell’Unccd, afferma: «A differenza di altri disastri che attirano l’attenzione dei media, la siccità avviene in modo silenzioso, spesso passando inosservata e non riuscendo a provocare un’immediata risposta pubblica e politica».

Dati allarmanti

Stando al rapporto, questi sono i punti salienti del grave problema: vi sarà un aumento dell’80 per cento di siccità in Cina entro il 2100, e dal dicembre dello scorso anno 23 milioni di persone sono in grave insicurezza dal punto di vista alimentare nel Corno d’Africa.

Inoltre, è all’incirca di 630mila chilometri quadrati (poco meno di due volte la superficie italiana) l’area dell’Europa che è stata colpita dalla siccità nel 2022, che ha vissuto l’estate più calda e il secondo anno più caldo mai registrato. Circa quattro volte la media di 167.000 chilometri quadrati colpiti da siccità tra il 2000 e il 2022. Sono trascorsi 500 anni dall’ultima volta che l’Europa ha vissuto una siccità così grave. E si prevede che 170 milioni di persone subiranno una siccità estrema se la temperatura media globale aumenterà di 3°C rispetto ai livelli preindustriali, 50 milioni in più del previsto se il riscaldamento sarà limitato a 1,5°C.

Nel rapporto si legge inoltre che il 70 per cento delle colture di cereali è stato danneggiato dalla siccità nel Mediterraneo, tra il 2016 e il 2018, e che il 33 per cento dei pascoli del Sud Africa è andato perso sempre a causa della siccità. Inoltre, sono cinque le stagioni delle piogge mancate consecutive nel Corno d’Africa, e ciò ha causato la peggiore siccità degli ultimi 40 anni nella regione. In tutto il continente africano, sono 70 miliardi di dollari le perdite economiche legate alla siccità negli ultimi 50 anni.

La siccità ha un impatto differenziato anche a livello socioeconomico: l’85 per cento delle persone colpite dalla siccità vive in paesi a basso o medio reddito. Dal 2010 al 2020 è aumentata di 15 volte la probabilità di morire a causa di inondazioni, siccità e tempeste in regioni altamente vulnerabili rispetto a regioni con vulnerabilità molto bassa.

Morti da inquinamento

Stando a una ricerca intitolata “Harm to human health from air pollution in Europe, burden of disease 2023”, pubblicata dall’Agenzia europea dell’ambiente (Eea), che non riguarda il problema dell’anidride carbonica o di altri gas serra, bensì unicamente quello di sostanze che hanno impatti negativi sulla salute umana, l’inquinamento atmosferico in Europa «rimane al di sopra dei livelli raccomandati dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms)». E questo ha causato nel solo 2021 almeno 253mila decessi di persone.

L’elemento più pericoloso risulta il particolato fine (PM2.5), ossia le particelle più piccole di 2,5 micron, dove un micron è uguale a un millesimo di millimetro. Questo infatti è presente nell’aria di molte regioni europee in quantità superiori a quelli raccomandati dall’Oms (5 µg/m3, leggi: microgrammi per metro cubo). L’inquinamento da biossido di azoto (NO2) ha provocato 52mila morti mentre, sempre secondo la ricerca, i decessi attribuibili all’esposizione a breve termine all’ozono (O3) risultano circa 20mila.

È evidente che la situazione va al di là dei problemi di salute delle persone, già di per sé gravissima, ma comporta costi significativi per i sistemi sanitari di tutti i paesi. Nel rapporto dell’Eea si legge anche che «ulteriori misure con l’obiettivo di ridurre l’inquinamento atmosferico ai livelli proposti dalle linee guida dell’Oms eviterebbero quei decessi attribuibili agli inquinanti ambientali e ridurrebbero il numero di persone costrette a convivere con le ricadute debilitanti dovute a malattie la cui insorgenza o il cui decorso sono legati proprio all’inquinamento atmosferico».

Ancora una volta la ricerca sottolinea che l’esposizione all’inquinamento atmosferico «causa o aggrava alcune malattie quali il cancro al polmone, le cardiopatie, l’asma e il diabete». C’è comunque da sottolineare un dato confortante, ossia che tra il «2005 e il 2021 il numero di decessi nell’Unione europea attribuibili al particolato fine (PM2.5) è diminuito del 41 per cento». Ciò non toglie, però, che l’inquinamento atmosferico continua a rappresentare il principale rischio ambientale per la salute degli europei ed è responsabile di malattie croniche e decessi, in particolare nelle città e nelle aree urbane.

Virginijus Sinkevičius, commissario europeo per l’Ambiente, ha sottolineato: «I dati pubblicati dall’Eea ci ricordano che nell’Unione europea l’inquinamento atmosferico rimane il principale problema per la salute legato all’ambiente. La buona notizia è che la politica in materia di aria pulita funziona e la nostra qualità dell’aria sta migliorando. Dobbiamo però fare di più e ridurre ulteriormente i livelli di inquinamento ambientale se non vogliamo che ogni anno vi siano centinaia di migliaia di decessi». Sembrerebbe dunque ovvio che tutti debbano puntare a ridurre l’inquinamento per rientrare nei parametri dell’Organizzazione mondiale della sanità, ma alcuni paesi, tra cui l’Italia chiedono di continuo di dilazionare i valori e i tempi per rientrare al di sotto dei valori utili alla buona salute. E questo nonostante il nostro paese segni il record di morti proprio dovute all’inquinamento atmosferico, con ben 52.300 decessi all’anno da PM2.5 e altri 11.200 da NO2 e 5.100 da O3.

La forma della Sfinge

La Grande Sfinge di Giza è una struttura monolitica e uno dei monumenti più iconici del mondo antico, insieme alle Piramidi di Giza. Tuttavia, a differenza delle piramidi, che furono costruite utilizzando milioni di blocchi di calcare da due tonnellate, la costruzione della sfinge potrebbe aver avuto un piccolo aiuto da madre natura. Anche se si ritiene che la forma riconoscibile della Sfinge e soprattutto il suo volto siano stati modellati sul faraone Chefren (2558-2532 a.C.), poco dopo la costruzione della piramide di quel faraone, la struttura potrebbe non essere completamente artificiale.

In effetti, un nuovo studio pubblicato su Physical Review Fluids suggerisce che la sfinge abbia iniziato la sua vita come una forma naturale del terreno. Lo studio, che ha ricreato modelli di erosione naturale su modelli di tumuli di argilla, ha dimostrato che in condizioni normali è possibile che l’erosione in ambienti desertici crei strutture che somigliano grosso modo alla figura di un leone sdraiato. Questa non è la prima volta che un’ipotesi del genere viene avanzata, poiché il geologo egiziano Farouk el Baz la suggerì per la prima volta nel 1981. Secondo el Baz, gli antichi egizi probabilmente scolpirono la Sfinge in uno yardang, un substrato roccioso naturale. Oggi sono noti diversi yardang che portano forme simili a leoni. Questa caratteristica naturale sarebbe stata la base perfetta per ritagliare e modellare la Sfinge. Il nuovo studio, condotto da ricercatori della New York University, dà ulteriore credito alla teoria originale di el Baz. Oggi, la Grande Sfinge di Giza misura 79 metri di lunghezza e 21 metri di altezza. Con il corpo di leone e il volto umano, la sfinge prese il nome, già menzionato nell’antichità, dalla bestia mitologica greca.

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