Uno studio pubblicato su Nature Communications da un gruppo internazionale di scienziati, dimostra che una perdita irreversibile delle calotte glaciali dell’Antartide occidentale e della Groenlandia e una corrispondente rapida accelerazione dell’innalzamento del livello del mare potrebbero essere imminenti se non si riesce a bloccare la crescita della temperatura globale al di sotto di 1,8°C rispetto ai livelli preindustriali.

L’innalzamento imminente

Sergio Pitamitz

Le popolazioni costiere di tutto il mondo dovrebbero già prepararsi alle contromisure, si legge nel loro lavoro, da adottare all’innalzamento marino, ma la loro pianificazione per prevenire inondazioni e altri danni è estremamente difficile da attuare poiché le ultime proiezioni del modello climatico presentate nel VI rapporto di valutazione dell’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc) non concordano sulla rapidità con cui le principali calotte glaciali risponderanno al riscaldamento globale e questo fa sì che i politici tergiversino sulle soluzioni da intraprendere. La fusione delle calotte glaciali è potenzialmente il maggior contributo alla variazione del livello del mare, anche se, storicamente, il più difficile da prevedere, perché la fisica che governa il loro comportamento è notoriamente complessa.

Spiega Young Park, dell’IBS Center for Climate Physics e della Pusan ​​National University, Busan, Corea del Sud e primo autore dello studio: «I modelli computerizzati che simulano la dinamica delle calotte glaciali in Groenlandia e in Antartide spesso non tengono conto del fatto che la fusione delle calotte glaciali influisce profondamente sui processi oceanici, i quali, a loro volta, si ripercuotono sulla calotta glaciale e sull’atmosfera». Usando un nuovo modello computerizzato, che mette insieme per la prima volta le ricadute tra le calotte glaciali, gli iceberg, l’oceano e l’atmosfera, il gruppo di ricercatori del clima ha scoperto che conseguenze disastrose in seguito all’aumento del livello del mare può essere prevenuto solo se il mondo raggiunge emissioni zero di carbonio entro il 2060.

«Se manchiamo questo obiettivo, le calotte glaciali potrebbero disintegrarsi e fondersi ad un ritmo accelerato. Lo dicono i modelli. Se non intraprendiamo alcuna azione, le calotte glaciali in ritirata faranno aumentare il livello del mare di almeno 100 centimetri entro il prossimi 130 anni. Questo andrebbe ad aggiungersi ad altri contributi, come l’espansione termica dell’acqua oceanica», afferma il prof. Axel Timmermann, coautore dello studio e direttore dell’IBS Center for Climate Physics. Le calotte glaciali rispondono al riscaldamento atmosferico e oceanico in modo ritardato e spesso imprevedibili.

E in più, a volte, vi sono interpretazioni sul loro comportamento non del tutto corrette. Varie ricerche avevano puntato il dito sull’azione degli oceani nel fondere le calotte glaciali da sotto di esse, in una forma di erosione dal fondo verso l’alto. «Tuttavia le nostre simulazioni dicono che ciò ha un valore parziale, mentre l’azione di fusione può derivare soprattutto dalla circolazione atmosferica che andrà riscaldandosi nei prossimi decenni», continua lo scienziato.

È dunque necessario mettere a punto nuovi modelli del sistema terrestre che mettano in collegamento tutto ciò che ruota attorno ai cambiamenti climatici e non solo singoli elementi, in altre parole, sostengono questi ricercatori, è necessario che entrino in gioco i supercomputer per elaborare le complesse interazioni, che soprattutto ai poli, vengono a crearsi tra le distese glaciali e l’atmosfera

La grotta di Bàsura 

Le stalattiti e stalagmiti della grotta della Bàsura in Liguria hanno rivelato l’andamento delle precipitazioni negli ultimi millenni nel Mediterraneo. Un gruppo internazionale guidato dalla National Taiwan University al quale ha partecipato anche l’università di Pisa con l’archeologa Elisabetta Starnini e il geologo Gianni Zanchetta ha studiato questo sorprendente archivio naturale a Toirano in provincia di Savona. La ricerca, pubblicata sulla rivista Nature Communications, è partita dall’analisi della composizione di due concrezioni carbonatiche. Successivamente, i risultati sono stati confrontati con altri simili provenienti da altre grotte italiane e spagnole.

«Le concrezioni delle grotte, stalattiti e stalagmiti, registrano le condizioni climatiche dei millenni durante i quali si sono lentamente formate e, grazie a specifici metodi di datazione, offrono la possibilità di ricostruire con buona precisione l’andamento del clima nel passato, informazioni che sono fondamentali per comprendere le variazioni climatiche in atto e la loro evoluzione futura», spiega Elisabetta Starnini.

In particolare, i ricercatori hanno ricostruito il rapporto fra precipitazioni e venti occidentali in funzione della posizione dell’alta pressione delle Azzorre e della bassa pressione islandese a livello europeo e mediterraneo nel corso degli ultimi 6500 anni. I venti occidentali hanno infatti un ruolo fondamentale nel trasportare calore ed umidità e nel regolare quindi le temperature e le precipitazioni. Secondo la ricostruzione, tra 5.400 e 3.500 anni fa i venti occidentali complessivamente occupavano una posizione maggiormente spostata verso nord, mentre tra 2.200 e 1.200 anni fa la posizione era più meridionale, il che indica che vi era una situazione che alimentava una maggiore piovosità in quello stesso periodo nell’area del Mediterraneo occidentale. «Lo spostamento dei venti occidentali è legato ai cambiamenti della circolazione atlantica e della temperatura degli oceani», conclude Gianni Zanchetta, «e questo fa sì che guardando la situazione attuale, è possibile ipotizzare variazioni significative a seguito del riscaldamento globale. Capire cosa è successo nel passato è quindi molto importante per riuscire a prevedere nel prossimo futuro quali potrebbero essere i cambiamenti della direzione dei venti occidentali e delle precipitazioni».

C’è un nuovo nucleo all’interno della Terra

Science Photo Library

I dati acquisiti dalle onde sismiche prodotte dai terremoti hanno gettato nuova luce sulle parti più profonde del nucleo interno della Terra. Ne sono certi sismologi dell’Australian National University (Anu). Misurando le diverse velocità con cui le onde sismiche penetrano e passano attraverso il nucleo interno della Terra, i ricercatori ritengono di aver documentato la presenza di uno strato distinto nel nucleo interno del pianeta che è stato chiamato “nucleo interno del nucleo interno”, e che può essere immaginata come una solida sfera metallica che si trova proprio al centro della Terra, con un diametro di circa 650 chilometri.

Non molto tempo fa si pensava che la struttura del nostro pianeta fosse composta da quattro strati distinti: la crosta (spessa da cinque a 70 km), il mantello (che arriva a 2890 km), il nucleo esterno fluido (arriva a 5.150 km) e il nucleo interno solido (arriva al centro della Terra a 6.360 km). 

I risultati, pubblicati su Nature Communications, confermano l’esistenza di un quinto elemento. Spiega Thanh-Son Phạm, della Anu Research School of Earth Sciences: «L’esistenza di una sfera metallica interna all’interno del nucleo solido, il nucleo interno più interno, è stata ipotizzata circa 20 anni fa, ma non si avevano prove definitive. Ora forniamo le prove per dimostrare che quell’ipotesi è reale». Hrvoje Tkalčić, anch’egli dell’Anu, ha affermato che studiare l’interno profondo del nucleo interno della Terra può dirci di più sul passato e sull’evoluzione del nostro pianeta. «È come una capsula del tempo della storia evolutiva della Terra», ha spiegato, «è una registrazione fossilizzata che funge da porta d’accesso agli eventi del passato. Eventi accaduti sulla Terra da centinaia di milioni a miliardi di anni fa». I ricercatori hanno analizzato le onde sismiche che viaggiano direttamente attraverso il centro della Terra e «spuntano fuori» dal lato opposto del globo rispetto a dove è stato innescato il terremoto, noto anche come antipodo, per poi ritornare alla fonte del sisma.

Gli scienziati dell’Anu descrivono questo processo simile ad una pallina da ping pong che rimbalza avanti e indietro. «Sviluppando una tecnica per potenziare i segnali registrati da reti sismografiche densamente popolate, abbiamo osservato, per la prima volta, onde sismiche che rimbalzano avanti e indietro fino a cinque volte lungo il diametro terrestre. Precedenti studi avevano documentato un solo rimbalzo antipodale», ha detto il dottor Phạm, il quale ha aggiunto. «Questo ha permesso di modellare con estrema precisione l’interno della Terra e i risultati sono entusiasmanti perché forniscono un nuovo modo per sondare il nucleo interno e la sua regione più centrale». Uno dei terremoti studiati dagli scienziati ha avuto origine in Alaska. Le onde sismiche innescate da questo terremoto sono “rimbalzate” nell’Atlantico meridionale, prima di tornare in Alaska.

Ma cosa differenzia la “palla di ferro” dal nucleo anch’esso di ferro che la circonda? Secondo i ricercatori la differenza potrebbe consistere in una diversa disposizione degli atomi di ferro alle temperature e pressioni che vi sono quasi al centro della Terra o dall’allineamento preferito dei cristalli in crescita. Questa diversa caratteristica fisica potrebbe spiegare perché le onde accelerano o rallentano a seconda del loro angolo di entrata nel nucleo interno più interno.

Anche se le condizioni del in cui si trova il nucleo più interno potrebbe essere dovuto solo alle temperature e alle pressioni esistenti i ricercatori non escludono che la sua formazione potrebbe essere legata ad un importante evento globale avvenuto durante l’evoluzione della Terra che ha portato ad un cambiamento significativo nella struttura cristallina o nella consistenza del nucleo più interno. Per la loro ricerca i geofisici hanno analizzato i dati di circa 200 terremoti di magnitudo sei e superiori avvenuti nell’ultimo decennio.

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