Nessuno si aspettava di vedere quel che il Telescopio James Webb ci ha mostrato: un buco nero che sta divorando la galassia in cui si trova e che risulta essere il più antico mai osservato dall’uomo. Lo stiamo vedendo infatti, esattamente com’era circa 400 milioni di anni dopo il Big Bang, ovvero 13.3 miliardi o poco più di anni fa.

A quel tempo l’Universo era infante, in quando aveva appena il tre per cento dell’età attuale. Una scoperta importante, perché si aggiunge a vari altri buchi neri che risultano essere troppo massicci, ossia troppo “grossi”, per la loro età e questo è un enigma che si aggiunge ai tanti misteri che circondano i buchi neri primordiali.

La scoperta a Cambridge

La scoperta è stata realizzata da Roberto Maiolino dell’Università di Cambridge con la collaborazione di ricercatori del Consiglio europeo della ricerca, della Royal Society e del Science and Technology Facilities Council (STFC) ed è stata pubblicata su Nature. Il buco nero oggetto di questa ricerca si trova nel cuore della galassia denominata GN-z11, la quale a metà dello scorso anno era ritenuta la più antica mai osservata.

È una piccola galassia, con una massa che è circa 100 volte inferiore a quella della Via Lattea. Venne scoperta grazie al telescopio spaziale Hubble e poi ripetutamente studiata con altri telescopi terrestri. Va detto che il suo “redshift” ha un valore uguale a 10.6.

Il redshift è una misura che rappresenta lo spostamento verso il rosso della lunghezza d'onda di una sorgente luminosa, quale può essere una stella o una galassia, ed è in qualche modo proporzionale con la distanza stessa. Per GN-z11 quel valore sta a significare che si trova ad oltre 13 miliardi e 400 milioni di anni luce da noi, quindi è una galassia che si formò più o meno 400 milioni di anni dopo il Big Bang.

Al suo interno però vi è un buco nero che compromette notevolmente la sua crescita. Gli astronomi infatti, hanno rilevato emissioni di raggi ultravioletti che starebbero ad indicare che il buco nero sta consumando rapidamente il gas della galassia.

È una specie di erosione dall’interno che avviene senza fine. Il gas avvolge il buco nero in quello che viene chiamato dagli astronomi come “disco di accrescimento”. Ed è proprio ruotando attorno al buco nero che diventa estremamente caldo così da irradiare energia ultravioletta. Il processo fa sì che una parte del gas venga allontanato dal disco di accrescimento e ciò va a rallentare il processo di formazione delle stelle.

Si può dire dunque, che quel buco nero sta divorando la galassia che lo ospita per alimentare la sua crescita. Tuttavia questo banchetto lo sta facendo ad una velocità la cui intensità è di molto superiore a quella dei buchi neri di epoche successive. Questo risulta un vero e proprio enigma per gli astronomi in quanto si chiedono come possa essere cresciuto così tanto in soli 400 milioni di anni. Guardando i buchi neri attuali infatti, un simile buco nero dovrebbe impiegare almeno un miliardo di anni per formarsi, ossia più del doppio.

Per spiegare ciò, c’è chi ipotizza che quei buchi neri potrebbero essere nati molto più massicci rispetto ai loro cugini successivi e direttamente dal gas che si formò subito dopo il Big Bang. In ogni caso quei buchi neri così massicci sono oggetto di notevoli studi da parte di astronomi perché dicono che le conoscenze di quel che avvenne dopo il Big Bang sono ancora lontane dal capire cosa è esattamente avvenuto.

In Giappone è nata una nuova isola

La Terra, si sa, è in continuo divenire: si formano montagne, i creano mari ed oceani, ma tutto questo in archi di tempo che sfuggono all’uomo. Solo raramente è possibile osservare una importante variazione morfologica del nostro Pianeta. Ed è quello che sta succedendo in prossimità del Giappone, dove dalla seconda metà di ottobre del 2023 un vulcano sottomarino ha generato una eruzione di tale portata che, nel giro di una settimana, ha dato vita ad una nuova piccola isola. Si trova a circa 1200 chilometri a sud-est di Tokyo e a meno di un chilometro al largo dell’isola vulcanica di Ioto, una delle isole Ogasawara.

L’isola di Ioto è meglio conosciuta come Iwo Jima, ed è famosa perché è stata sede durante la Seconda Guerra Mondiale di una importante battaglia tra truppe giapponesi e forze statunitensi, che ebbero la meglio sui nipponici.

Qui esiste una situazione geologica che vere la zolla dell’oceano Pacifico andare in subduzione sotto quella delle Filippine, in altre parole la prima va sotto la seconda. Ciò crea una serie di vulcani spesso di origine esplosiva. Nel loro insieme le isole Ogasawara, costituite da numerosi coni di tufo, si trovano all’interno di una caldera sottomarina larga circa nove chilometri, la quale, nell’ultimo secolo, è stata interessata da frequenti eruzioni, l’ultima delle quali si è avuta nel 2021. In generale dunque, si tratta di una zona estremamente attiva sia dal punto di vista sismico che vulcanico.

L’ultima eruzione, quella verificatasi a partire da ottobre 2023 è durata circa un mese e mezzo e non ha arrecato danni all’isola principale di Ioto. Ha prodotto ceneri, pomici e scorie scure che, accumulandosi, hanno formato un’isola alta circa 169 metri. Nel corso dell’eruzione si sono verificate frequenti esplosioni in cui i materiali espulsi hanno raggiunto un’altezza di circa 800 metri sopra la bocca eruttiva.

Nell’acqua intorno all’isola sono state osservate piccole isole di pomici galleggianti di colore marrone. Vi sono state anche emissioni importanti di vari gas e vapore acqueo. Una volta emersa, la nuova isola è stata intensamente aggredita dal moto ondoso che ne ha cambiato sensibilmente la forma iniziale, che da circolare si è trasformata in un’isola allungata con un diametro principale di circa 500 metri.

Il materiale eroso è andato a depositarsi verso la parte settentrionale dell’isola stessa portandola quasi a congiungersi con l’Isola di Ioto. Circa un mese fa l’eruzione vera e propria sembrava essersi fermata, ma c’è ancora una forte degassazione legata soprattutto all’interazione tra magma e acqua. In ogni caso i vulcanologi non escudono una ripresa dell’eruzione. Quanto sta accadendo in Giappone ricorda quello che si verificò nel 1831 nel Canale di Sicilia, quando un’eruzione sottomarina diede origine all’Isola Ferdinandea, a circa 50 chilometri di distanza dalla costa meridionale della Sicilia. Allora un’isola fece capolino dal mare e creò un contrasto tra francesi e inglesi per il possesso di quella nuova terra.

Entrambi sostenevano di averla osservata per primo e dunque spettava a loro il dominio. Ma in quel caso, in pochi mesi, l’isola fu completamente erosa dal moto ondoso ed ora la punta più elevata delle eruzioni vulcaniche si trova a circa otto/nove metri al di sotto del livello del mare per buona pace di tutti i contendenti. La nuova isola giapponese tuttavia, potrebbe sopravvivere all’erosione marina in quanto, al momento, è più grande rispetto all’Isola Ferdinandea. In tal caso però la proprietà è indiscutibilmente del Giappone.

Piante pioniere, poi competitive

In tutto il Pianeta, i ghiacciai si stanno ritirando rapidamente. Le aree che si liberano dopo il loro ritiro sono velocemente colonizzate da una moltitudine di organismi. Tra questi, le piante sono sicuramente quelli più visibili. Dopo la colonizzazione di queste aree, le comunità di piante cambiano nel tempo, in un processo chiamato “successione ecologica”. Quali meccanismi determinano queste successioni? Negli anni, ne sono stati proposti due: la prima vuole che nuove specie possono arrivare senza escludere quelle che erano già presenti (aggiunta), la seconda avanza l’idea che le nuove arrivate vanno a sostituire le specie già presenti (sostituzione).

L’importanza di questi due processi è stata molto dibattuta nell’ultimo secolo, anche perché il loro ruolo potrebbe variare nel tempo e a seconda del contesto ambientale. Le aree che si formano dopo il ritiro dai ghiacciai sono un laboratorio formidabile per testare queste ipotesi, perché permettono di raccogliere misure accurate di come la diversità delle comunità cambia nel tempo.

Per capire l’evoluzione di questi ecosistemi i ricercatori dell’Università Statale di Milano, in collaborazione con numerosi colleghi di 13 Paesi diversi, hanno visitato ed analizzato con diverse tecniche ben 46 ghiacciai in fase di ritiro in tutto il mondo. Per ogni ghiacciaio, hanno analizzato le aree lasciate libere dai ghiacci negli ultimi secoli, confrontando siti in cui il ghiacciaio si è ritirato recentemente (nell’ultimo decennio) con siti in cui i ghiacciai si sono ritirati diversi decenni fa. Confrontando questi siti, hanno misurato come le comunità di piante cambiano del tempo e quantificato l’importanza relativa di “addizione” e “sostituzione” delle specie.

Lo studio pubblicato su Nature Plants ha confermato che le comunità di piante cambiano rapidamente nel tempo, ma i due meccanismi hanno un’importanza variabile. Appena dopo il ritiro del ghiacciaio, i suoli sono poveri ed instabili e vengono colonizzati da poche piante pioniere. In questa fase prevale il meccanismo di addizione: i primi arrivati possono aiutare a stabilizzare il terreno, favorendo l’aggiunta di nuove specie. Questo processo di “aggiunta” continua per i primi 50 anni, ma poi le cose cambiano. Circa 50 anni dopo che il ghiacciaio si è ritirato, entra in gioco il nuovo meccanismo: la “sostituzione”.

A questo punto i suoli sono diventati abbastanza ricchi e stabili, permettendo l’arrivo di specie più competitive che si stabiliscono, escludendo le specie pioniere e rimpiazzandole. Il confronto di un gran numero di ghiacciai suggerisce che questi due meccanismi siano importanti in tutto il mondo. Commenta Francesco Ficetola, coordinatore dello studio ed esperto di biodiversità dell’Università Statale di Milano. “Queste informazioni ci aiutano a capire come evolveranno i nuovi ecosistemi, sempre più ampi, che si stanno formando in montagna e nelle aree intorno ai poli in conseguenza del ritiro dei grandi e piccoli ghiacciai”

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