Nessuno aveva più un grammo di fiato. Fabio Fognini boccheggiava, Daniil Medvedev era una maschera di sudore e fatica. A un certo punto, durante il secondo set, l’arbitro aveva chiesto al russo se fosse in grado di continuare. «Io continuo, ma posso morire. Se muoio chi se ne assume la responsabilità?». Troppo caldo.

All’Ariake Tennis Park di Tokyo il termometro segnava 36 gradi e un’umidità al 79 per cento. Un incubo. L’Olimpiade del 2021 però non ha messo in luce nulla che non sapessimo. Due anni prima, a New York, gli organizzatori degli Us Open avevano implementato la politica sul calore estremo per aiutare i tennisti a far fronte alle temperature vicine ai 38 gradi: una pausa di 10 minuti fra il terzo e il quarto set, a richiesta del giocatore.

Novak Djokovic e Márton Fucsovics ne approfittarono alla seconda partita del torneo. Nole ringraziò lo staff di Flushing Meadows. «Di quella pausa avevamo davvero bisogno». Il cambiamento climatico non sta rendendo solo più difficoltoso il gesto e la performance. L’innalzamento delle temperature e i picchi di caldo stanno cambiando la pelle degli sport.

La neve

Quelli invernali prima di tutti. Secondo uno studio dell’Università di Waterloo, in Canada, solo una delle 21 città che hanno ospitato i Giochi invernali negli ultimi 100 anni avrà un clima adatto a questo tipo di sport entro la fine di questo secolo. E chi vive trecento giorni l’anno sopra i 2.500 metri non ha bisogno di studi: il climate change lo sente addosso.

Livio Magoni, allenatore di Tina Maze e Petra Vlhova, è chiaro: «Il nostro sport è cambiato e negli ultimi anni è diventato sempre più difficile. Finiamo l’attività in aprile. Ma nei mesi successivi dobbiamo vivere in questi frigoriferi giganti per allenarci». Sono gli ski-dome, stazioni sciistiche al coperto. Un tempo erano le oasi dentro Dubai, davano un tocco di folklore al deserto. Oggi, dice Magoni, «spuntano come funghi perché sono il futuro».

Il problema della neve è complesso. Di vera ce n’è sempre meno, quella artificiale costa e richiede un alto dispendio energetico. A Pechino 2022, mentre il presidente Xi Jinping dichiarava che le sue Olimpiadi sarebbero state le più «verdi, inclusive, aperte e prive di corruzione» di sempre, venivano utilizzati 49 milioni di litri d’acqua per produrre neve sufficiente a coprire le quattro sedi di eventi all’aperto intorno alla capitale cinese. Quasi 300 generatori di neve a ventola e 83 generatori di neve a lancio prodotti dell’azienda italiana TechnoAlpin.

Le gare vengono rinviate, o annullate. La neve è poca, e fragile. Il Comitato olimpico internazionale ha fatto slittare l’assegnazione dei Giochi invernali del 2030: chi si assume il rischio? Nessuno si senta escluso. Negli Stati Uniti è prevista una riduzione dall’84 al 62 per cento dell’innevamento delle montagne.

Sulle Alpi il calo potrebbe essere del 70 per cento entro il 2100. Sembra lontano, non lo è. E nel frattempo, dice Magoni, «il calendario è cambiato, gli sponsor vogliono più eventi, e però la stagione è sempre più corta per via di questi fenomeni climatici».

Le stazioni di Coppa del mondo provano a metterci una pezza sparando neve artificiale nei periodi più freddi. Si produce una sorta di strato-accumulo alto anche 15 metri. Un aiutino. L’artificiale è però la negazione del naturale e le ricadute toccano tutti. Anche gli atleti, che vedono aumentare il rischio di infortuni. I materiali durano meno. Magoni dice che «ormai ci vogliono molti più scarponi perché a fine estate il caldo li ha resi non dico inutilizzabili, ma certamente meno reattivi».

I protocolli del ciclismo

Il clima che cambia modifica il nostro modo di fare sport. Secondo una ricerca dell’Università dello Utah, le discipline all’aperto e in estate diminuiranno del 18 per cento nei prossimi 30 anni. Il surf è in pericolo per l’innalzamento e l’acidificazione degli oceani: l’onda perfetta sarà sempre più utopica.

Nel baseball la percentuale di fuoricampo è cresciuta: l’aria rarefatta influenza la traiettoria. Di ciclismo, sport comprensibilmente tra i più esposti, parla Daniele Zaccaria, responsabile sanitario della Bahrain Victorious, un passato nella F1 alla scuderia Toro Rosso, l’attuale Alpha Tauri. Il caldo potrebbe portare a cambiare il calendario, a pensare al Tour de France o alla Vuelta – dove nel 2021 sono stati raggiunti i 43 gradi – non più in piena estate.

«Il business e i media la fanno da padroni, ma se io dovessi essere consulente medico dietro una scelta del genere la approverei. Col caldo estremo anche il mezzo meccanico può avere dei limiti. Ricordo un Tour dell’Oman dove esplodevano gli pneumatici per la temperatura dell’asfalto». Business is business. In tutti gli sport. Il calcio è andato a cercare soldi in mezzo al deserto, in Qatar. Salvo costruire stadi da milioni di euro con l’aria condizionata causando un dispendio energetico inimmaginabile. L’alter ego è il Mondiale femminile in questi giorni in Nuova Zelanda e Australia, il più freddo di sempre. Dal punto di vista medico la ricerca scientifica propone nuove strategie per far fronte alle temperature estreme. Ma adattarle alla realtà è una sfida.

«Il ciclismo è uno sport soggetto a tante variabili. Quando lavoravo in F1 – dice Zaccaria – sport più controllabile perché il pilota è seduto dentro un abitacolo, c’erano strategie di preraffreddamento, come i gilerini sul torace dell’atleta». Dal 2016 nel World Tour vige l’Extreme Weather Protocol: le corse possono essere modificate, accorciate o annullate in condizioni limite. E ci sono protocolli pre, durante e post gara: dalle immersioni in vasche di ghiaccio agli ice-vest fino all’uso di cerotti per misurare la temperatura e la perdita di sudore. Un corridore di 70 chili che si disidrata vedrà le sue prestazioni calare del 10 per cento. La Israel-Premier Tech all’ultimo Tour aveva maglie termoregolate che sfruttano le proprietà del grafene. «Quella dei materiali traspiranti è la nuova frontiera».

La maratona

La corsa è tra gli sport più colpiti. A Tokyo 2021 si dovette trasferire la sede della maratona 800 chilometri a nord, a Sapporo, per evitare i 41 gradi della capitale. E se quella volta la politica non poté nulla contro le pressioni del Cio, in altri casi il clima ha inciso non poco.

Ai Mondiali di atletica di Doha del 2019, per esempio, i 33 gradi e il 90 per cento di umidità ancora presenti a un’ora dalla mezzanotte avevano spinto molti sportivi ad abbandonare. La situazione, dicono gli esperti, è ormai irreversibile. Cosa fare è la vera domanda. Lo sport arranca, boccheggia, ma continua a essere uno strumento efficace per veicolare messaggi. I professionisti dello sci hanno suggerito programmi «geograficamente ragionevoli» per ridurre le emissioni di carbonio dei viaggi aerei, evitando spostamenti avanti e indietro da un continente all’altro.

Sofia Goggia vede le sue montagne messe a dura prova, «ciascuno di noi deve fare la sua parte attraverso l’impegno quotidiano». Puntando a una riduzione dell’impronta carbonica del 55 per cento rispetto alle edizioni precedenti, Parigi ha ottenuto la sua Olimpiade. Anche le calciatrici del Mondiale vogliono essere parte della soluzione: sono partite donazioni e campagne per sostenere progetti attivi sul fronte della sostenibilità ambientale. Non sarà una rivoluzione, ma almeno è un passo nella direzione giusta, quello che i loro colleghi maschi non hanno ancora osato fare.

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