Gli scienziati hanno pochi dubbi sul fatto che il crollo di una parte del ghiacciaio della Marmolada, che probabilmente ha causato la morte di un ventina di persone, sia stato causato almeno in parte dall’aumento delle temperature dovuto al cambiamento climatico. «L’atmosfera e il clima, soprattutto al di sotto dei 3.500 metri di quota, è in totale disequilibrio a causa del "nuovo" clima che registriamo», ha scritto Renato Colucci, ricercatore del Cnr che da anni studia il ghiacciaio. 

Ma quando più in generale parliamo del rapporto tra cambiamento climatico e valanghe, la faccenda si fa molto spinosa. Le valanghe sono fenomeni complessi e ancora più complesso è il cambiamento climatico. In luoghi diversi, ad altitudini e in condizioni differenti, gli effetti potrebbero essere diametralmente opposti. L’unica cosa certa è che il cambiamento climatico sta modificando profondamente le nostre montagne e difficilmente questo sarà per il meglio.

Facile parlare di valanghe

Quella della Marmolada non è stata una vera e propria valanga di neve, come la intendiamo normalmente. Si è trattato di un distacco di ghiaccio, causato dalle alte temperature che sciogliendo neve e ghiaccio superficiali creano dei rivoli d’acqua che si insinuano nel ghiaccio, erodendone la base e creando i presupposti per un distacco come quello di domenica.

L’Ipcc, l’organizzazione scientifica delle Nazioni unite che studia il cambiamento climatico, ha dedicato alcuni paragrafi del suo ultimo rapporto proprio a questo fenomeno. Gli esperti consultati sono d’accordo nel sostenere che l’aumento delle temperature causa maggiori rischi per i ghiacciai, ma questi rischi possono tradursi sia in un aumento che nella diminuzione delle probabilità di un crollo come quello della Marmolada: «Dipende strettamente dalle condizioni locali e quindi non ci aspettiamo una chiara tendenza regionale o mondiale».

Nei molti luoghi dove i ghiacciai stanno scomparendo, ad esempio, il rischio di distacco si riduce, semplicemente perché la superficie ghiacciata è ormai divenuta troppo piccola o è scomparsa del tutto. Ma dove invece i ghiacciai restano, come sulla Marmolada ma anche in Asia centrale, dove interi ghiacciai sono crollati su sé stessi, il rischio aumenta a causa dell’innalzamento delle temperatura.

Valanghe di neve

Sono tutta un’altra storia le vere e proprie valanghe di neve, come quella che nel gennaio del 2017 ha travolto l’albergo di Rigopiano causando la morte di 29 persone, una delle più letali dell’ultimo secolo. 

Semplificando una questione piuttosto complessa, le valanghe di neve possono avvenire di inverno, quando sono in genere causate da un accumulo di neve soffice e spesso per colpa dell’uomo (ad esempio dagli sciatori fuoripista), oppure alla fine della stagione invernale o d’estate, quando lo scioglimento della neve può causare una valanga “umida” in cui la neve è mista ad acqua e viaggia molto più velocemente. Anche se sono valanghe molto diverse da quelle di ghiaccio, l’impatto che ha su di loro il cambiamento climatico è altrettanto ambiguo.

Uno dei problemi nel valutare se le valanghe stanno aumentando o diminuendo in questi anni di riscaldamento climatico è il fatto che non possediamo un studio storico accurato delle valanghe avvenute in passato, anche perché molti di questi fenomeni avvengono in aree remote e non vengono registrati.

Per ovviare a questo problema gli scienziati utilizzano la dendrocronologia, ossia lo studio degli effetti climatici sugli alberi. Le valanghe, ad esempio, lasciano delle “cicatrici” sulla corteccia degli alberi. Oppure, quando ne piegano il tronco senza ucciderlo, lasciano dei segnali che gli scienziati possono successivamente interpretare per valutare la frequenza delle valanghe.

Utilizzando questo metodo su alcuni alberi delle Montagne rocciose, nello stato americano del Montana, un gruppo di ricercatori ha notato una riduzione del 2 per cento annuo delle valanghe di grosse dimensioni nel periodo 1950-2017 dovuto, ritengono, alla riduzione dei carichi nevosi e quindi delle valanghe più tipiche della stagione invernale.

Secondo gli studiosi, il riscaldamento climatico continuerà a causare una continua riduzione delle valanghe dovuta all’accumulo di neve, ma sarà probabilmente accompagnato «da un aumento delle valanghe di grosse dimensioni causate dall’aumento della temperatura e dalle precipitazioni primaverili».

Altitudine e temperature

Un altro studio realizzato con lo stesso metodo, ma esaminando gli alberi dell’Himalaya indiano, ha invece mostrato risultati diversi. Lo studio, scrivono i ricercatori, mostra «un aumento negli ultimi decenni della frequenza delle valanghe e della distanza percorsa». «Queste scoperte – proseguono i ricercatori – contraddicono l’assunzione intuitiva che il riscaldamento climatico causi automaticamente meno neve e quindi meno valanghe nella regione».

Una possibile differenza con le Montagne rocciose è la maggior altitudine della catena dell’Himalaya. A grandi altezze la riduzione delle precipitazione nevose è molto minore, ma l’aumento delle temperature e l’accorciamento degli inverni rendono comunque più probabili le valanghe a fine stagione o in periodo primaverile. 

Gli scienziati che studiano le nostre Alpi sono giunti a conclusioni simili. Secondo uno studio pubblicato nel 2015, intorno al 1980 si assiste al periodo in cui viene raggiunta l’altitudine minima alla quale si verificano valanghe. Nel periodo 1980-2005, un periodo che coincide con un netto riscaldamento dell’arco alpino, l’altitudine minima cresce rapidamente. Se dividiamo il numero di valanghe tra quelle che si sono verificate sotto e sopra i duemila metri, si scopre che più in basso la riduzione di valanghe è stata netta, ma ad altitudini maggiori è invece aumentata. Studi come questo sono alla base, ad esempio, degli avvertimenti ufficiali delle autorità della Svizzera, che negli ultimi anni hanno avvertito turisti e abitanti dell’aumento del rischio valanghe causato dal cambiamento climatico.

Un futuro incerto, ma spiacevole

La complessità del fenomeno, l’incertezza del futuro climatico del pianeta e la mancanza di studi storici contribuiscono a rendere difficile prevedere cosa accadrà alle nostre montagne. Ma gli scienziati hanno alcuni punti fermi. Le nostre montagne saranno prive di neve a quote sempre più alte. Il fenomeno sarà più visibile alle quote più basse, sotto i duemila metri, ma per il momento meno visibile sulle grandi catene montuose, come l’Himalaya. 

Lo stesso sta accadendo ai ghiacciai. Scompariranno quelli alle quote più basse, mentre saranno ridotti e indeboliti quelli alle quote più alte. Complessivamente, una minore superficie ghiacciata e innevata dovrebbe portare a una riduzione nel numero di eventi come quello che abbiamo visto sulla Marmolada e questa è la conclusione su cui gran parte degli scienziati concorda.

Ma, allo stesso tempo, l’aumento delle temperature e l’accorciamento delle stagioni invernali renderà i ghiacciai e le grandi superficie innevate più vulnerabili allo scioglimento e alle infiltrazioni di acqua, che sono tra le prime ragioni di crolli e valanghe nelle stagioni più calde. Se questo fenomeno non sarà comunque sufficiente a bilanciare la riduzione della superficie ghiacciata e innevata, e produrrà comunque una riduzione nel numero di crolli, non sarà comunque una buona notizia. Montagne prive di ghiaccio e neve saranno maggiormente soggette ad erosione e frane. Cesseranno poi di essere quei fondamentali serbatoi di acqua che nelle regioni temperate rendono possibile la nostra agricoltura intensiva, l’industria e i comfort casalinghi a cui siamo abituati.

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