Era la sera del 12 dicembre 2015 quando il ministro degli Esteri francese Laurent Fabius annunciò all’assemblea generale dell’annuale Conferenza delle Parti, o Cop21, la firma di quelli che passeranno alla storia come Accordi di Parigi. Gli impegni presi quel giorno avevano l’ambizioso scopo di contenere l’aumento indiscriminato delle emissioni di gas climalteranti in atmosfera. Una necessità data dal moltiplicarsi di alluvioni, incendi, ondate di calore e altri effetti della crisi climatica.

Gli accordi ruotavano attorno all’aumento delle temperature medie globali rispetto all’epoca preindustriale. I paesi firmatari - la quasi totalità dei membri delle Nazioni Unite - si impegnarono nel contenere questa crescita al di sotto dei due gradi centigradi, puntando a una cifra ottimale di più un grado e mezzo. Per raggiungere questi obiettivi il trattato prevedeva una diminuzione graduale delle emissioni a partire dal 2020 e la seconda metà del secolo a zero emissioni nette. Non solo: le nazioni del cosiddetto primo mondo promisero di stanziare cento miliardi di dollari l’anno, sempre a partire dal 2020, a favore della transizione ecologica nei paesi in via di sviluppo.

Di tutti questi impegni, però, ben poco è stato tradotto in pratica. Secondo un report pubblicato nel novembre dell’anno scorso da Climate Trasparency, nessuno dei paesi del G20 sta tenendo fede agli accordi presi a Parigi. Nemmeno il lockdown ha aiutato. A settembre la World Meteorological Organisation, l’ente meteorologico dell’ONU, ha registrato nel suo osservatorio di Manua Loa, Hawuaii, l’ennesimo aumento della concentrazione di CO2 in atmosfera.

Le speranze suscitate dalla Cop21 stanno venendo deluse, e la colpa non è solo di leader apertamente negazionisti come Donald Trump o Jair Bolsonaro. La Germania di Angela Merkel ha recentemente inaugurato la centrale a carbone Datteln-4, mentre il primo ministro canadese Justin Trudeau ha firmato nello stesso giorno una solenne dichiarazione di emergenza climatica e l’autorizzazione per un nuovo oleodotto. Anche i governi progressisti non hanno brillato nella gestione della crisi climatica.

Cosa è andato storto?

«Per 15 anni, fino alla Cop di Copenaghen del 2009, le Nazioni Unite insistettero su una strategia di tipo top-down. Si partiva dalle cifre che venivano dalla comunità scientifica e si cercava di distribuire il taglio delle emissioni tra le diverse nazioni» ci spiega Antonello Pasini, ricercatore del Centro Nazionale Ricerche e tra i più noti climatologi italiani. «Il fallimento di quell’edizione, però, convinse le delegazioni a cambiare approccio» prosegue lo scienziato «dal 2011 in poi si è preferito che ogni paese decidesse autonomamente quale contributo dare in termini di riduzione delle emissioni. Ma la somma dei tagli promessi da ogni delegazione non ha mai raggiunto la cifra richiesta dagli esperti». Gli Accordi di Parigi sono frutto di questo secondo approccio, e ne riflettono tutta la debolezza.

Il mondo ecologista e gli esperti del settore già al momento della firma denunciarono le criticità dell’intesa. Sottoscritti nel 2015, gli accordi prevedevano di iniziare il percorso di riduzione delle emissioni solo a partire dal 2020. Cinque anni che pesano come piombo nel contesto emergenziale in cui ci troviamo. Non solo: i paesi emergenti hanno ottenuto che le emissioni di ogni nazione fossero calcolate dallo stato interessato, e non da enti certificatori terzi. Una scelta che ha reso più difficile verificare la correttezza dei numeri dichiarati. Ma più di tutto, a pesare è l’assenza di meccanismi punitivi che dissuadano i governi dal rimandare la riduzione delle emissioni. Per chi non rispetta gli impegni presi niente sanzioni, ma solo l’inserimento in una “lista della vergogna” senza alcuna conseguenza.

La difficoltà nell’attuare i pur timidi impegni presi a Parigi ha portato movimenti e ong a puntare il dito contro le stesse regole di svolgimento delle Cop, le conferenze sul clima che l’Onu porta avanti da ormai un quarto di secolo. Le critiche degli attivisti, riuniti nella campagna Polluters Out, si sono concentrate sulla presenza di multinazionali del fossile tra gli sponsor delle Cop, considerata un’indebita influenza sulle trattative.

Cosa aspettarsi dal futuro

Nonostante il covid, l’anno appena concluso ha portato con sé alcune significative dichiarazioni d’intenti. L’Unione Europea ha annunciato l’intenzione di raggiungere la carbon neutrality, cioè le zero emissioni nette, entro il 2050. Sulla stessa linea si sono schierati i governi di Giappone, Corea del Sud e Nuova Zelanda, mentre la Cina ha portato la deadline al 2060. Quest’ultima decisione, in particolare, testimonia la volontà di Pechino di ritagliarsi un ruolo guida nel contrasto alla crisi climatica. «La Cina, che ha convissuto e in parte convive tuttora con livelli di inquinamento spaventosi, ha conosciuto una forte pressione dal basso nel senso di una conversione ecologica dell’economia» ci spiega Pasini. Il Regno Unito, fresco di Brexit, ha deciso di diminuire le emissioni del sessantotto per cento rispetto ai livelli del 1990 (meglio dell’Europa, che alla stessa data punta al cinquantacinque per cento).

I numeri, però, non devono trarre in inganno. È più facile promettere obiettivi importanti, ma relativamente lontani nel tempo, che portare avanti azioni immediate. E così le promesse dell’Unione Europea vengono bollate come «mendaci e molto, molto lontani dall’essere sufficienti» dalla celebre attivista Greta Thunberg. Dei piani cinesi sappiamo ancora poco o nulla, mentre gli Stati Uniti mantengono la maglia nera di primo emettitore ed unico grande paese a non aver presentato un piano di riduzione delle emissioni. Il prossimo inquilino della Casa Bianca, Joe Biden, ha promesso di porre rimedio al più presto, ma non è chiaro come intenda far coesistere l’abbandono dei combustibili fossili entro il 2050 con la difesa del fracking, l’inquinante modalità di estrazione che ha trainato la recente crescita del petrolio statunitense.

Nel frattempo, miliardi vengono ancora stanziati in infrastrutture non in linea con gli Accordi di Parigi. Lo raccontano da ultime diciotto ong, tra cui l’italiana Re:Common, in un report pubblicato proprio in occasione dei cinque anni da Cop21. Gasdotti come EastMed; progetti estrattivi come quelli portati avanti nelle acque dell’artico, del Regno Unito, del Mozambico; centrali a carbone come quelle previste in Cina e nelle Filippine. Tutte grandi opere accomunate dalla pesantissima impronta climatica.

Tra un anno, intanto, si svolgerà la Cop26, chiamata tra le altre cose a verificare e rivedere i termini degli Accordi di Parigi così come previsto dal meeting di cinque anni fa. Si terrà a Glasgow, Scozia, ed è co-organizzata da Regno Unito e Italia. Chiediamo al professor Pasini cosa dobbiamo aspettarci. «La mia speranza è che si crei un asse tra scienziati e giovani» ci risponde «entrambi condividono la stessa prospettiva temporale, che va ben oltre la fine della legislatura dei politici con la p minuscola». A cinque anni dagli accordi che dovevamo salvare il mondo, la battaglia contro la crisi climatica è ancora ben lontana dall’essere vinta.

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