Buongiorno lettrici e lettori di Domani, questo è un nuovo numero di Areale, è stata un’altra settimana difficile, la parola che dobbiamo tenere a mente è adattamento. È il tema del rapporto Ipcc (ne discutiamo tra poco), ma è una parola anche più ampia, e più vasta. Adattamento personale e collettivo a una crisi che da due anni ha colpito qualunque cosa ritenessimo salda. Sicurezza, energia, libertà, democrazia, pace. Adattamento ai traumi e alla possibilità di un futuro diverso. Necessità, compito, dovere e potenziale: ecco cosa c’è nell’adattamento. Iniziamo.

Selfie dell’umanità in pericolo

Lunedì 28 febbraio è uscita la seconda parte del sesto report dell’Ipcc sui cambiamenti climatici. La prima parte era stata pubblicata ad agosto, ed era sulla scienza e i limiti fisici del pianeta. La seconda parla di adattamento, impatto e vulnerabilità. Il primo capitolo era sulla Terra, il secondo su noi, le nostre comunità, le nostre società, i paesi e le regioni, un selfie dell’umanità in pericolo, «atlante della sofferenza umana», lo ha definito António Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite.

Nel giorno della pubblicazione ho scritto questo. Il rapporto comprende oltre 3mila pagine di dati, scienza, prospettive, note e bibliografia. Lo stiamo leggendo tutti, si sta sedimentando un po’ alla volta. Potete leggerlo qui.

Ecco secondo me cinque punti fondamentali.

Uno. Scienza senza voce

La divulgazione è un’emergenza democratica. È un problema vero. Il rapporto è atterrato mentre inevitabilmente eravamo costretti a guardare altrove, è stato quasi ignorato al di fuori della nostra bolla. In parte è un problema di attenzione, la nostra mente è portata a considerare il pericolo più immediato e quindi l’Ucraina ora risucchia tutto.

Ma è anche un problema di comunicazione: il rapporto Ipcc nella sua forma attuale è un documento improponibile per un dibattito civile, l’opinione pubblica non sa cosa farsene di una tale giungla di numeri, studi e riferimenti. La scienza deve entrare in gioco in modo diverso, deve imparare a parlare in modo diverso. Serve una restituzione più articolata, più facile da comprendere, più immediata, più all’altezza dei tempi e del caos che viviamo.

Roberto Cingolani, nell’assemblea pubblica chiesta e ottenuta da Extinction Rebellion (ne discutiamo sotto), ha parlato anche di questo e ha ragione: questo tipo di scienza, così rilevante e importante, va tradotto in termini più comprensibili. Extinction Rebellion ha parlato di una lettera da spedire a tutti gli italiani, il ministro della Transizione ecologica ha detto di voler andare in televisione a spiegarlo (e farebbe benissimo, lo faccia), ma anche gli scienziati devono prendere la parola al di fuori della bolla, devono attrezzarsi, servono strumenti e strategie che al momento non ci sono, né possono affidarsi solo alla stampa e all’attivismo per recapitare il messaggio.

Per ora il viaggio del rapporto è stato: pubblicazione, un webinar chiuso, qualche articolo sui giornali, fine. Non potrà mai essere sufficiente così. La scienza del clima deve ancora trovare la sua voce. Se leggete questa newsletter e fate parte della comunità scientifica, vi chiedo di dirmi cosa ne pensate.

Due. Sommersi e salvati

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Questo «atlante» è la fotografia di un mondo diviso in due, una linea frastagliata e invisibile oltre la quale c’è quasi metà del genere umano, 3,3 o 3,6 miliardi di esseri umani che vivono nella parte del pianeta a estremo rischio e vulnerabilità, dove un evento estremo (un’alluvione, ma anche una siccità sistemica come quella del Madagascar) ha quindici volte in più la possibilità di uccidere.

Da qui al 2050 un miliardo di persone rischia di perdere la propria casa solo per tempeste potenziate dall’innalzamento e dal riscaldamento dei mari. Dal 1970 il 44 per cento dei disastri, praticamente uno su due, è stato causato da un allagamento. Le aree urbane esposte contemporaneamente ad alluvioni e siccità raddoppieranno. Un essere umano su due oggi nasce ed è già un bersaglio climatico per fame, migrazioni, malattie, morte.

Questo rapporto è l’immagine più eclatante della giustizia climatica, di una solidarietà globale che – anche prima della guerra – esisteva ancora solo nel vuoto delle promesse. Di fronte a questi numeri, l’osceno ritardo dei paesi più ricchi nel mettere insieme la colletta da 100 miliardi dollari all’anno fa ancora più male.

Tre. Conflitto

C’è innanzitutto l’invasione russa dell’Ucraina. Nei negoziati online per scrivere il riassunto per i policymaker, le delicatissime quaranta pagine pesate parola per parola da mandare ai decisori politici, ucraini e russi si sono parlati in modo diverso da come si parlano altrove. La delegata ucraina ha usato parole di buon senso e logica: crisi climatica e guerra sono legate dalla dipendenza da fonti fossili, che ha creato lo spazio politico ed economico all’invasore. E la sua controparte russa, Oleg Anisimov, si è scusato per un’«aggressione ingiustificata». È una delle poche ammissioni di responsabilità che abbiamo visto in questi giorni da parte di figure istituzionali legate al governo russo. I negoziati per il clima possono (e devono) essere un processo di pace.

Ma c’è un altro tipo di conflitto che ha agitato la pubblicazione. Ruota intorno a due parole che erano emerse con forza anche a Cop26: loss and damage, danni e perdite, il principio per il quale i responsabili della crisi climatica devono risarcire le vittime. Diversi paesi, tra cui gli Stati Uniti, hanno provato in ogni modo a eliminare o ad annacquare la menzione di questo aspetto, che è cruciale in un documento Onu sull’adattamento. Ci sono riusciti? In parte: il piano diplomatico era sostituire la formula con «impatti avversi». Sembra una minuzia semantica, ma in diplomazia niente è una minuzia semantica.

Alla fine la formula scelta è stata: «Widespread adverse impacts and related losses and damages», ed è stata spostata dal testo a una nota. È un segnale: i paesi che si sono presi la leadership climatica non vogliono pagare i danni storici che hanno causato, non li riconoscono, non li vedono, sono in cerca di un’amnistia.

Quattro. Il tempo è tutto, ogni decimo di grado conta

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Il tempo è davvero il messaggio chiave di questo rapporto. Il tempo per agire e salvare il salvabile c’è, ma non ne avremo ancora a lungo, la finestra per agire si sta chiudendo. Mitigare (cioè ridurre le emissioni) può ancora cambiare le dimensioni dell’onda che ci investirà: «Una cosa è adattarsi a un mondo 1.5°C più caldo, una cosa è farlo a 4°C, perché aumentano i costi e diminuisce l’efficacia»; mi ha detto Piero Lionello del Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici (e autore Ipcc).

È difficile parlare di tempestività in un contesto così dominato da un’altra crisi, ma – come spiega un altro autore Ipcc, Edward R. Carr: «Se agiamo ora, abbiamo ancora molte scelte e possibilità. Tra dieci anni, molte meno. Tra trent’anni, non lo so. Avremo sempre scelte, ma saranno opzioni meno buone e molti più difficili da attuare».

Un corollario importante: ogni decimo di grado di aumento della temperatura conta. 1.5° e 1.6°C sono già due mondi diversi. Probabilmente supereremo 1.5°C prima di riuscire (eventualmente, forse) a tornare indietro, e alcuni dei cambiamenti saranno irreversibili. Da lì in poi è una scala in cui ogni gradino verso l’alto è la cartolina di un mondo diverso e peggiore.

Cinque. Gli impatti sulla salute

«La crisi climatica aumenterà significativamente le morti per malattia e quelle premature, sia nel breve che nel lungo termine». Quando parliamo di clima, dobbiamo ricordarci che uno dei punti fondamentali è la salute dei nostri corpi e delle nostre menti, che rischia di essere sempre più difficile da preservare man mano che il mondo si riscalda.

È già aumentato il rischio di malattie cardiovascolari dovute all’esposizione al fumo degli incendi, che nel corso del biennio 2020-2021 sono stati una crisi globale. In uno scenario di emissioni medie, 2,25 miliardi di persone saranno a rischio di febbre Dengue. Ma non è solo un problema di malattie tropicali, le morti da stress da caldo rischiano di raddoppiare nell’Europa meridionale, e sopra i 3°C di aumento delle temperature arriverebbero, qui da noi, entro la fine del secolo, a un livello che i nostri sistemi sanitari non sarebbero in grado di gestire.

Alla crisi climatica serve più democrazia

Giovedì 3 marzo, nel tardo pomeriggio, si è svolta l’assemblea pubblica tra attiviste e attivisti di Extinction Rebellion e il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani, ottenuta dopo un lungo e pericoloso sciopero della fame. «Ci aspettiamo un confronto umano», mi aveva detto al telefono Laura Zorzini, l’attivista che aveva rischiato la salute e la vita per avere questo incontro. E lo è stato, un dialogo umano e utile, pur se tra le enormi differenze di approccio e linguaggio, e di questo penso che dobbiamo ringraziare XR.

Due attivisti, il ministro, un mediatore professionale dei conflitti, un piccolo pubblico in sala, centinaia di persone collegate in streaming, proprio mentre Putin parlava ancora una volta in diretta dalla Russia, come segno della complessità (anche comunicativa) del contesto. I temi sul tavolo erano: la consapevolezza della crisi climatica, il terrore di essere l’ultima generazione a poterci fare qualcosa e la richiesta di istituire un’assemblea pubblica con potere deliberativo su questi argomenti.

«Non piove da mesi, non c’è neve, non ci sono più i ghiacciai. Ho ventotto anni, ho interrotto gli studi, faccio fatica a pensare di avere una carriera o una casa, o di fare dei figli. Sono preoccupata per la mia vita. Ministro, siamo l’ultima generazione a poter fare qualcosa?».

Si chiama Beatrice Costantini l’attivista che ha dato l’avvio al dibattito, toccando la corda più delicata e sensibile. La paura, la perdita di prospettiva, l’ansia (cose di cui parla, per altro, anche lo stesso report Ipcc). «Non siete l’ultima generazione a poter fare qualcosa, siete la prima generazione alla quale è stato dato questo messaggio di pericolo», le ha risposto il ministro.

Al di là del consueto linguaggio di Cingolani (sostenibilità ecologica ma anche sociale, «Sono uno scienziato», «Il problema è termodinamico») e della proposta di un’assemblea di cittadini scelti a sorte con potere di scrivere le leggi (difficile da ottenere sia per la Costituzione che nella realtà politica italiana), è interessante quello che c’è sotto questo incontro, il bisogno evocato dall’attivismo radicale di Extinction Rebellion, dalla loro campagna Ultima generazione e dallo stesso enorme sforzo di ottenere questo incontro. Il bisogno di contare, l’urgenza di contare.

«Vogliamo partecipazione e non più delega», ha spiegato Laura Zorzini. «La risposta alla crisi climatica è avere più democrazia».

È un punto fondamentale, quello che solleva, ed è al centro di tutto il nuovo attivismo dei movimenti per il clima: se questa è una crisi esistenziale (come continua a definirla l’Onu) allora anche la risposta dei cittadini (soprattutto di quelli più giovani) deve essere altrettanto esistenziale. Di esistenziale c’è innanzitutto la paura, quella descritta da Beatrice a Cingolani, dall’altro c’è l’impegno totale, assoluto, fino a mettere in gioco i propri corpi.

La richiesta dei movimenti è di poter partecipare democraticamente a decisioni che avranno un impatto enorme e sproporzionato a seconda delle generazioni e delle età anagrafiche. L’inserimento dell’ambiente in Costituzione ha segnato simbolicamente il riconoscimento delle persone giovani come soggetto politico. È un punto di passaggio epocale.

La risposta alla crisi climatica è innanzitutto più democrazia, più partecipazione, meno delega in bianco.

I riferimenti di Extinction Rebellion sono il movimento per il diritto di voto alle donne e quello per i diritti civili negli Stati Uniti, Laura cita i «freedom rider», che all’inizio degli anni Sessanta viaggiavano in autobus mescolati tra bianchi e neri per combattere la segregazione razziale negli stati del sud degli Usa. «All’inizio erano in tredici, poi furono centinaia. Anche noi vogliamo allargare lo spettro del consenso su quello che viene ritenuto accettabile e giusto in Italia».

È un grande obiettivo, sono scettico sull’idea dell’assemblea, e credo che la democrazia abbia bisogno di personale politico migliore, sia dal punto di vista etico che professionale, e non di cittadini estratti a sorte, ma magari anche lo spettro del mio consenso si allargherà.

Ovviamente, sono curioso di conoscere la vostra opinione su questo. Cosa ne pensate delle assemblee proposte da Extinction Rebellion?

Plastica: una buona notizia

Chiudiamo con una buona notizia, qualcosa di cui c’è un bisogno vitale. È Il nuovo capitolo di una storia che abbiamo raccontato spesso qui ad Areale: il genere umano contro l’inquinamento da plastica. La notizia è arrivata sullo sfondo di una guerra, quindi ha ricevuto poca attenzione, ma quelle gettate a Nairobi all’Assemblea ambientale delle Nazioni Unite sono le basi per il più importante trattato ecologico multilaterale dai tempi dell’accordo di Parigi del 2015.

La comunità internazionale, con un importante sforzo diplomatico da parte dell’Unione europea e degli Stati Uniti, ha dato con una risoluzione mandato all’Onu di scrivere un accordo per la riduzione del catastrofico impatto della plastica sugli ecosistemi. È una buona notizia, non solo perché un’intesa è stata trovata, ma anche perché – almeno in questi stadi diplomatici iniziali – non è un’intesa al ribasso, ma apre alla possibilità che tra due anni avremo un «accordo di Parigi della plastica» molto ambizioso.

I punti chiave sono due: sarà un impegno legalmente vincolante e coprirà tutto il ciclo di vita della plastica: dalla produzione – basata su fonti fossili – al fine vita. «Non ne usciremo riciclando», aveva detto Inger Andersen, la direttrice esecutiva dello United Nations Environment Programme (Unep).

Sono i numeri a suggerirlo: oggi solo il 9 per cento della plastica prodotta al mondo viene effettivamente riciclata e due miliardi di persone vivono in paesi dove non ci sono nemmeno le strutture per farlo. C’erano due bozze in competizione all’Assemblea ambientale: quella giapponese si focalizzava sulla parte più visibile del problema, lo sversamento dei rifiuti negli oceani. Quella proposta da Ruanda e Peru, che possiamo considerare la «vincitrice» del negoziato, invece propone uno sguardo più olistico e impone di cercare soluzioni che vadano oltre il riciclo e la pulizia degli ecosistemi.

Ancora non ci sono contenuti veri e propri, quelli verranno definiti nel corso di questi due anni di negoziato che – nel miglior scenario possibile – porteranno a un accordo vincolante e operativo nel 2024.

«È interessante che sia stato un fronte dei paesi più poveri a spingere per una soluzione efficace sulla plastica», spiega Giuseppe Ungherese, responsabile della Campagna Inquinamento di Greenpeace Italia. «Sono quelli che pagano i costi ambientali e sociali più elevati del consumo di plastica, quelli che hanno le armi spuntate contro le tonnellate di spazzatura che ricevono per presunte attività di riciclo e che hanno dovuto subire un modello di consumo imposto dalle multinazionali occidentali».

Tra i punti più interessanti della cornice negoziale c’è anche il riconoscimento dei milioni di waste picker informali che – soprattutto in Africa subsahariana – vivono raccogliendo e vendendo gli scarti della plastica. Saranno inseriti nel processo di transizione giusta che dovrà tutelare anche tutti gli altri lavoratori riconosciuti e ufficiali del settore.

Quella approvata dai 3.400 delegati in persone a 1.500 collegati online (tra cui quello ucraino da un bunker anti-aereo) di 175 paesi membri è l’inizio di un percorso, che aggregherà nella cornice Onu le iniziative già prese su base nazionale e regionale da 60 paesi del mondo contro l’abuso di questo materiale.

Come ha detto il presidente dell’assemblea Espen Barth Eide (ministro dell’Ambiente norvegese), «l’inquinamento da plastica è un’epidemia, con la risoluzione di oggi siamo ufficialmente al lavoro per trovare una cura».

L’Onu svolgerà anche un negoziato parallelo con governi e aziende per combattere la plastica monouso e soprattutto per mobilitare il supporto finanziario del quale i paesi più vulnerabili avranno bisogno per la giusta transizione da questo materiale.  

Siamo arrivati alla fine, è stata un’edizione lunghissima, grazie per aver letto fin qui. Come sempre, per parlarci scrivetemi: ferdinando.cotugno@gmail.com (oppure mi trovate su Instagram e Twitter). Per comunicare con Domani: lettori@editorialedomani.it.

A presto!

Ferdinando Cotugno

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