Buongiorno lettrici e lettori di Domani, questo è un nuovo numero di Areale, la newsletter ambientale e ambientalista del sabato mattina. Un mese fa stava per iniziare Cop26 a Glasgow, sembra già passato un anno: il tempo sta correndo e il primo anno del decennio decisivo si sta per chiudere. Bilanci personali? Collettivi? Se avete qualcosa da dire, raccontare o valutare, l’indirizzo al quale scrivermi per parlarne è in fondo alla newsletter.
Cominciamo?
Cominciamo.  

Intro: la bellezza e la megattera

Questa settimana è uscito un testo lungo e bello della scrittrice americana Rebecca Solnit per il Guardian, una guida in dieci punti per confrontarsi con la crisi climatica senza perdere la speranza. Potete anche chiamarla fiducia, o ottimismo, potete avere il parere che preferite sulla sfumatura da dare a questo campo semantico, ma non possiamo essere la generazione che salverà il futuro senza una dose cospicua di speranza.

Tra i dieci punti di Solnit quello che preferisco è l’ultimo: non trascurate la bellezza. «Parte di quello per cui stiamo combattendo è la bellezza e questo significa prestare attenzione alla bellezza nel tempo presente. Se dimentichi quello per cui ti stai battendo, rischi di diventare infelice, amareggiato, perduto».

C’è un collasso in atto e non può essere trascurato ma, scrive Solnit, questo non è solo un racconto del buio e della paura. «Dobbiamo raccontare anche le storie di quanto è bella, ricca, armoniosa la Terra che abbiamo ereditato. Dobbiamo prendere questa bellezza come una cosa sacra e celebrarne la memoria, altrimenti dimenticheremo quello per cui stiamo combattendo».

Qui il resto, leggetelo per favore.

Mi ci ha fatto pensare un video della Bbc nel quale la biologa Nan Hauser racconta la storia di come una megattera le ha salvato la vita mentre stava nuotando nell’oceano, trascinandola lontano da un enorme squalo tigre, «il più grande che avessi mai visto», una minaccia della quale lei non si era nemmeno accorta.

Non è un comportamento insolito per le megattere, questo di salvare animali di altre specie – che siano umani o foche – da predatori in agguato, senza apparente vantaggio personale. Ovviamente è scivoloso proiettare sentimenti umani – pietà, compassione, altruismo – sugli animali. Ma questa storia e le immagini del video sono un buon modo per ricordarci la complessità e la meraviglia del pianeta che abitiamo e che sarebbe tutto sommato bello continuare ad abitare insieme anche dopo la metà del secolo, convertendo l’economia e l’uso delle risorse. Alla fine è di questo che parliamo: preservare la possibilità della bellezza. 

Sogni verdi tedeschi

Nel 2021 la Germania è stato il paese europeo più colpito dalla crisi climatica: quasi 200 vittime nelle alluvioni della scorsa estate.

Eravamo nel mezzo della campagna elettorale, il programma della nuova “coalizione semaforo” è figlio anche di quello shock e di quella presa di coscienza. Olaf Scholz dovrebbe essere eletto cancelliere e successore di Angela Merkel entro la prima settimana di dicembre, il suo governo sarà edificato su un accordo di governo tra socialdemocratici (rosso), verdi e liberali (giallo) (da qui il semaforo) di 177 pagine, nel quale la parola clima viene menzionata ben 198 volte, un calcolo non banale, che restituisce il peso che ha assunto la questione nelle grandi democrazie.

Il programma è ambizioso e per alcuni versi irrealistico: sta di fatto però che la più grande economia d’Europa ha intenzione di intraprendere uno dei percorsi più avanzati al mondo di transizione energetica.

«La crisi climatica minaccia la libertà, la prosperità e la sicurezza. Raggiungere gli obiettivi dell’accordo di Parigi è la nostra principale priorità. Vogliamo reinventare la nostra economia sociale di mercato e trasformarla in economia social-ecologica di mercato», si legge nel patto di governo.

Sui risultati giudicheremo nel decennio e nei prossimi anni di governo, ma la scala dell’ambizione è quella corretta. Tutto questo sarebbe stato politicamente impensabile anche solo, poniamo, due anni fa. Ve lo ricordate il mondo di due anni fa?

Per il nuovo governo tedesco l’orizzonte è il 2030: entro quell’anno la Germania dovrà aver raggiunto una quota di energia elettrica da fonti rinnovabili dell’80 per cento, il che significa più che raddoppiarla dall’attuale 35 per cento, arrivando a 600 TW/h sui 750 TW/h totali consumati.

Nel 2030 sarà anche spenta l’ultima centrale a carbone, “idealmente” almeno, in anticipo di otto anni rispetto al phase-out previsto in precedenza da Merkel.

Come si raggiunge un risultato così ambizioso? I 16 länder dovranno destinare il 2 per cento del territorio a impianti per l’energia eolica di terra. L’obiettivo inoltre è triplicare l’eolico in mare e quadruplicare il fotovoltaico. Tutti i nuovi edifici commerciali dovranno avere pannelli solari sul tetto, e ci saranno forti incentivi per quelli residenziali.

Un’altra pietra angolare dell’energia verde tedesca saranno gli investimenti in idrogeno. Il gas viene citato come energia di transizione ma non c’è menzione del Nord Stream 2 o della dipendenza dal gas russo.

Nel 2030 immaginato dalla nuova coalizione semaforo ci saranno 15 milioni di auto elettriche. Per consentire questa transizione, la rete di colonnine di ricarica passerà dalle circa 50mila attuali a un milione su tutto il territorio.

C’è anche l’impegno per aumentare del 25 per cento i trasporti merci su rotaia, portandoli via dalle strade e dall’economia del gasolio.

Il governo tedesco sostiene inoltre un prezzo minimo della Co2 e i meccanismi di aggiustamento del carbonio alle frontiere (Cbam), misura che le economie emergenti considerano un dazio e che sarà una grande faglia tra l’ambizione europea e quella del resto del mondo che emette Co2. Si litigherà molto sul Cbam nel 2022. La sigla è brutta ma tenetela a mente.

Il tema del piano è «osare più progresso»: se la roadmap della decarbonizzazione non sarà solo un libro dei sogni la Germania sarà carbon neutral nel 2045. La realizzazione di questo piano dipende in gran parte dal budget che il governo avrà a disposizione e c’è una evidente contraddizione tra la volontà dei Verdi di lanciare soldi alla transizione energetica (Annalena Baerbock in campagna elettorale aveva parlato di 50 miliardi di euro all’anno) e il rigore promesso dai liberali, che con Christian Lindner controlleranno il ministero delle Finanze e quindi i limiti del budget.

Ai Verdi va il nuovo super ministero di Economia e clima, che sarà guidato da Robert Habeck (anche vice-cancelliere), mentre Baerbock sarà la prima donna a essere ministra degli Esteri. La sfida che la Germania ha davanti è enorme, le elezioni l’hanno trasformata in un’apripista per una nuova fase della transizione: «Sarà la più grande modernizzazione industriale negli ultimi cento anni», ha detto Scholz.

L’Artico russo e le promesse italiane

C’è una promessa italiana – fatta a Glasgow – che porta diretta in uno dei posti più remoti sulla Terra: il Golfo di Ob nell’Artico russo. Quanto remoto?
Così remoto.

Cinque giorni dopo la fine ufficiale di Cop26, Reuters ha dato una notizia interessante, anche se non del tutto inattesa: Sace, l’agenzia pubblica italiana del credito all’estero, sta per assicurare il finanziamento del progetto Arctic LNG-2 da parte di Intesa Sanpaolo e di Cassa depositi e prestiti.

È significativo perché uno degli accordi più d’impatto a margine di Cop26 era la fine del supporto pubblico in forma di sussidi a progetti all’estero di estrazione di fonti fossili. È un impegno preso anche dall’Italia, che diventa operativo nel 2023. Sapevamo che in questa finestra di tempo avremmo visto intensificarsi questo tipo di operazioni, cioè la corsa a investire nel fossile finché si può.

Arctic LNG-2 è un progetto preoccupante per tanti motivi: fa parte dei piani russi di industrializzare l’Artico, è un progetto da 21 miliardi di dollari di investimento e 6,6 milioni di tonnellate di gas liquefatto all’anno nella penisola di Gyda, sul mare di Kara, in Siberia, in un’area che contiene il 20 per cento delle riserve di gas nel mondo. Ha questo aspetto qui.

Quel golfo è anche un ecosistema fragilissimo, messo gravemente a rischio da un progetto su questa scala. Nei prossimi anni ottanta milioni di tonnellate di fondale marino dovranno essere rimosse per agevolare il traffico marittimo collegato all’esportazione del gas liquefatto, con effetti impossibili da prevedere su flora e fauna per un tratto di costa che prima dell’estrazione era profondo solo tre metri.

Questo tipo di progetti sono impossibili senza finanziamenti e soprattutto coperture assicurative come quella a cui parteciperà l’Italia con fondi pubblici. È questo il senso di quell’impegno preso a Glasgow da Italia, Regno Unito, Germania, Olanda, Francia.

Il finanziamento di Arctic LNG-2 non è una violazione, ma è una sconfessione. Ricordiamolo ancora una volta: per rimanere nei parametri dell’accordo di Parigi il 60 per cento di petrolio e gas e il 90 per cento del carbone ancora disponibili devono rimanere dove stanno: nel suolo.

Italia: bendati nella tempesta

In Italia ci sono in tutto 8mila comuni: nell’ultimo decennio 602 sono entrati in crisi climatica, cioè hanno dovuto sperimentare almeno uno dei 1.181 eventi estremi e anomali che hanno colpito il nostro paese dal 2010 a oggi. Sì, è uscito il nuovo rapportò Città Clima di Legambiente, uno degli osservatori più interessanti e completi per capire cosa significa, sul campo, anno dopo anno, vivere in un territorio che è un hotspot dei cambiamenti climatici.

Gli eventi estremi sono aumentati del 18 per cento nel 2021 rispetto al 2020 (e l’anno non è ancora finito), con l’immagine di copertina da affidare purtroppo alla Sicilia colpita questo autunno dal Mediterraneo trasformato in una catapulta di perturbazioni: secondo le rilevazioni Cnr, lungo le coste i mari intorno all’Italia sono fino a quattro gradi più caldi rispetto medie storiche. I picchi di anomalia sono: Adriatico centro-settentrionale, il Tirreno centro-settentrionale, il Mar Ligure orientale e lo Ionio.

Le città più colpite dagli eventi estremi secondo i calcoli di Legambiente sono Roma (56 eventi estremi e una fragilità che finora è cresciuta di amministrazione in amministrazione), Bari e Milano.

La parte più interessante del rapporto è quella sull’adattamento. Per ogni euro che in Italia si spende in prevenzione, se ne spendono cinque per riparare i danni, cioè 1,55 miliardi di euro all’anno. Vuol dire che l’emergenza sappiamo soltanto soltanto inseguirla.

Un altro dato: in Europa ci sono 23 paesi che hanno adottato un piano nazionale di adattamento al clima e tra questi non c’è l’Italia. Inoltre: 54 città francesi hanno un piano di adattamento urbano, 31 in Germania, 11 in Spagna. In Italia? 4: Torino, Padova, Ancona e Bologna. Affrontiamo la tempesta bendati, e non va bene.

Come se la passano le sequoie della California

A un certo punto su Areale torniamo ciclicamente a parlare di alberi millenari e spesso quegli alberi millenari sono sequoie giganti. La stagione degli incendi è finita in California (ma sta per ripartire in Australia) e quindi è un momento di bilanci e quei bilanci sono dolorosi. Tre immensi incendi hanno ucciso o mortalmente ferito migliaia di sequoie giganti, si stima che nell’ultimo anno abbiamo perso tra il 13 per cento e il 19 per cento di tutta la popolazione mondiale.

Quelle gravemente ferite non sopravviveranno ai prossimi cinque anni, dopo averne vissuti più di mille e aver resistito a ogni tipo di incendio. Le sequoie giganti infatti si sono evolute per convivere con il fuoco, un elemento che fa parte degli ecosistemi naturali come il suolo o l’aria. La loro corteccia spessa e la loro altezza le avevano attrezzate agli incendi ma non a reggere quelli sconfinati di una crisi climatica come quella in atto. Sono incendi che non avevano, e avevamo, mai visto. Sono sentinelle.

Siamo arrivati alla fine di questo numero di Areale, per questa settimana è tutto, mi raccomando state al sicuro, se avete qualcosa da dire o da raccontare scrivetemi a: ferdinando.cotugno@gmail.com. Se volete comunicare con Domani, l’indirizzo è: lettori@editorialedomani.it

A presto, buon sabato pomeriggio o buona settimana.

Ferdinando Cotugno

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