Pensa te, a volte, lo sport. (È un weekend particolare, la prendo alla larga e non arriverò al punto, se sai: occhiolino).

Comunque, tornando allo sport, Giannis Antetokounmpo è un giocatore di basket dell'NBA, è nato in Grecia, è una leggenda dei Milwaukee Bucks, lo chiamano The Greek Freak, è molto forte. Si è trovato a rispondere a una domanda sul fallimento della stagione della sua squadra, e ha dato una risposta che ci è utile anche nel nostro \cammino, quindi eccola.

Dice al giornalista: «Tu ottieni una promozione ogni anno, nel tuo lavoro? No, giusto? E può essere considerato un fallimento? Sì o no? No. Ogni anno lavori per un obiettivo, che può essere ottenere una promozione o prenderti cura della tua famiglia, o dei tuoi genitori. Non è un fallimento. Ci sono dei passi verso il successo. Ci sono sempre passi da fare. Michael Jordan ha giocato 15 anni e vinto 6 campionati. Gli altri 9 anni sono stati un fallimento? Non c’è fallimento nello sport. Ci sono giorni buoni e giorni cattivi, alcuni giorni sei in grado di avere successo, e altri giorni no. Alcuni giorni tocca a te, altri giorni no. Per 50 anni, dal 1971 al 2021, non abbiamo vinto. Sono stati 50 anni di fallimento? No, non lo sono stati. Erano passi da fare per arrivarci. Siamo stati in grado di vincerne uno, e speriamo vincerne un altro».

Il discorso sul fallimento, saper maneggiare il fallimento, saperci stare dentro (come saper stare dentro l'ansia, la paura, il dolore, senza negarli) è uno dei grandi temi del presente. Si perde, si cade, ci si rimette in piedi, si continua a giocare.

La storia della transizione è stata, è e sarà anche la storia di fallimenti, di cose che vanno storte, di policy sbagliate, di sconfitte politiche, di vicoli ciechi. Ma ogni volta che perdiamo, ogni volta che ci sentiamo sconfortati, stiamo comunque costruendo qualcosa.

Noi siamo qui per il mondo nella sua lunga durata. Possiamo accettare la paura, e possiamo anche viverci, nella paura. Per certi versi, dobbiamo impararlo, siamo costretti a imparare questa cosa. Il nostro orizzonte non è oggi, qualunque cosa sia oggi. Speranze grandi, tempi lunghi. Questa è la volta 120 che spedisco Areale, cominciamo.

Non sono mai solo numeri

Se dovessimo scegliere un solo numero per raccontare lo stato del clima nel momento in cui l'emisfero boreale si trova nel pieno della primavera del 2023, con un'estate più che preoccupante in vista, sarebbe +13.8°C.

È lo sbalzo di temperatura rispetto alle medie degli ultimi trent'anni registrato da uno studio del Mercator Ocean International nell'Oceano Atlantico al largo della costa orientale degli Stati Uniti. È uno sbalzo spaventoso: quando la BBC ha riportato la notizia, ha provato a sentire diversi oceanografi per commentarla, e alcuni non hanno voluto parlare alla stampa, perché «terribilmente stressati e preoccupati». Forse è questo il «tipping point» umano: non quando la scienza ci lancia allarmi, ma quando la scienza inizia a rinunciare a lanciare l'allarme.

Perché a volte il racconto della crisi climatica sembra una sfilza di numeri su uno schermo ma, per chi li sa leggere, quei numeri possono essere terrificanti. L'aumento della temperatura degli oceani sta diventando il segnale più lineare e preoccupante della crisi climatica.

Intanto la prima ondata di calore dell'anno è arrivata in Europa, senza nemmeno aspettare l'arrivo del mese di maggio, e ha colpito la Spagna e il Portogallo: un blocco di aria calda in risalita dall'Africa ha portato le temperature in Andalusia a 38.8°C, siamo 11°C sopra le medie che si dovrebbero sperimentare alla fine di aprile.

Il servizio meteo spagnolo ha fatto sapere che almeno venti città hanno raggiunto il proprio record storico per questo mese, situazioni simili in Portogallo e Nord Africa, le scuole stanno attuando misure di cautela che di solito si fanno scattare all'inizio dell'estate, la metropolitana di Madrid fa più corse per ridurre tempi di attesa e malori, le piscine pubbliche hanno aperto con un mese di anticipo.

Il 60 per cento della Spagna è in siccità, la produzione di cereali è dimezzata, ed è anche la dimostrazione che la capacità di invaso (cioè di raccogliere la pioggia) non è il proiettile d'argento contro la siccità. In Spagna è il triplo che in Italia ma questo non ha protetto l'agricoltura iberica, l'adattamento è una cosa molto più complessa del progetto laghetti (che pure avrà una sua utilità).

La scorsa primavera l'India fu colpita da un'ondata di calore spaventosa, quest'anno il clima sta offrendo il bis in tutta l'Asia. In Thailandia per la prima volta è stata superata la temperatura di 45°C ad aprile, in Cina c'è una siccità paragonabile a quella europea, che rischia di far crollare la produzione industriale, in particolare nei distretti dell'alluminio.

Temperature record anche in Myanmar, Bangladesh e Vietnam. Colpisce quello che sta succedendo nell'altro emisfero, nel tardo autunno del Sudafrica, della Namibia, del Botswana e dell'Angola sono stati superati i 35°C, anche oltre i mille metri di altitudine. Fine del giro sull'Isola di Breevort, in Canada, dove sono stati raggiunti 11.1°C. Non sembra una temperatura incredibile, ma siamo nel territorio del Nunavut, nell'Arcipelago artico canadese, a 63°C di latitudine. Record precedente polverizzato. Il mondo sta bollendo, è solo fine aprile e stiamo per uscire da un ciclo fresco di La Niña.

I primi segnali del ritorno di El Niño sono stati registrati al largo di Peru ed Ecuador, vuol dire che ci siamo, l'oscillazione ciclica sul Pacifico sta cambiando verso, stiamo per uscire dalla fase fresca (durata insolitamente tanto, tre anni, e abbiamo visto che triennio è stato) per entrare in quella calda. Il passaggio da La Niña (che rinfresca la temperatura degli oceani e del mondo) a El Niño (che aumenta quella temperatura) è un fenomeno naturale che rischia di potenziare il riscaldamento globale causato dalle attività umane.

Secondo il Potsdam Institute for Climate Research, da solo questo passaggio aggiunge fino a 0.25°C di aumento di temperatura ai 1.15°C dove già ci troviamo in questo momento ed esiste la possibilità che il 2024 sarà l'anno più caldo della storia, il primo nel quale supereremo, anche se solo temporaneamente, la soglia di sicurezza di +1.5°C di riscaldamento globale (ricordiamo che l'Europa si riscalda al doppio di questa velocità, l'Artico al triplo). È per questo che alcuni scienziati non sono più in grado di parlare in modo sereno con la stampa: perché questi non sono solo numeri.

La volta che ho visto tagliare il corno di un rinoceronte

Olycom/LaPresse

La settimana scorsa ti ho parlato della complessità di rapportarci all'idea di animale carismastico, discutevamo di JJ4 (a proposito, al Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica è partito il tavolo tecnico sugli orsi bruni) e delle nostre mancanze cognitive, della nostra ricerca di parole giuste, di una giusta distanza. Amplifichiamo questa complessità. Per farlo, parto da una cosa che ho letto e poi ti racconto una cosa che ho visto, nel 2019.

Il rinoceronte bianco settentrionale è virtualmente estinto, gli ultimi esemplari rimasti sono endling, le ultime propaggini vive di una creatura che abbiamo ormai fatto sparire dalla Terra, i loro corpi sono con noi, la loro eredità è già dispersa. Il rinoceronte bianco meridionale è seriamente minacciato, perché il suo corno, sul mercato nero asiatico, al chilo vale quanto la cocaina.

Dicono curi il cancro (chiaramente non è vero) e aumenti la virilità (tra i 1001 motivi per combattere la mascolinità tossica: salvare i rinoceronti). In Sudafrica mi raccontarono che nell'immenso parco del Kruger, in ogni momento, ci sono almeno quattro bande di bracconieri che simultaneamente danno la caccia a questo animale. La protezione di questa specie è diventata simbolo, totem, ultima trincea.

Bloomberg ha raccontato il fallimento economico di un progetto di rewildling eticamente discutibile. Magari con una sua logica, ma, come scrive David Foster Wallace in Infinite Jest, «la validità logica di un ragionamento non ne assicura la verità».

Il Platinum Project prevedeva l'allevamento di esemplari di rinoceronte bianco in una riserva a 155 chilometri a sud di Johannesburg. Uno dei modi per finanziare l’impresa era tagliarne il corno, venderlo legalmente, lasciando vivere l'animale, perché il corno in tre anni ricresce e il rinoceronte può sopravvivere, anche se mutilato. Non è andata bene, da un punto di vista commerciale, perché il prodotto rimane illegale a prescindere dal metodo di estrazione, e il proprietario sta mettendo in vendita gli animali.

La complessità, quando tracima nell'assurdità: in Sudafrica gli animali selvatici non sono davvero selvatici, non da un punto di vista giuridico, sono spesso proprietà privata di qualcuno, e le aste di fauna selvatica sono un mercato fiorente, soprattutto tra le riserve private (la maggior parte li acquistano solo a scopo turistico, ma ce ne sono diverse che li comprano a scopo ci caccia) (sai come chiamano i leoni comprati in questo mercato e immessi nelle riserve private solo per essere cacciati da ricchi occidentali armati? «Canned hunt», caccia in scatola, perché l'animale arriva nell’ecosistema disorientato dalla cattività, non conosce il territorio, non sa come tenersi al sicuro, e il cacciatore a quel punto deve solo puntare e sparare). C'è un solo grande mammifero che in Sudafrica è, per così dire, demaniale: il leopardo. Perché non c'è recinto che tenga un leopardo dove deve stare, si spostano usando gli alberi, e quindi i leopardi sono sempre e solo di se stessi.

Il Platinum Project era una validità logica senza verità. Ma ora ti racconto una cosa a cui ho assistito con i miei occhi: la decornazione di un rinoceronte, in una riserva privata, quella di Phinda, nel KwaZulu-Natal, a un paio di ore di volo su un trabiccolo che decolla da Johannesburg.

Quella che ho visto io era una decornazione a fin di bene, una specie di resa controllata, un'eutanasia della nostra etica, un modo per salvare l'animale da noi stessi. Una cosa che non dimenticherò finché vivo. Come detto, i rinoceronti sono l'equivalente di un borsone di cocaina su quattro zampe, da un punto di vista criminale. Per proteggerli, servono piccoli eserciti.

I grandi parchi dispongono di forze di sicurezza armate (e sulla complessità di questa idea militare di conservazione ti ho parlato tante volte su Areale, ti rimando alle edizioni passate e al lavoro di Survival International), le riserve piccole non hanno il budget per tutte queste guardie, e l'unica soluzione che hanno è togliere valore economico all'animale, e l'unico modo per farlo è levargli il corno.

Noi arriviamo in jeep, il veterinario arriva con un piccolo elicottero da due posti, atterra, scende ed è proprio come immagini un bianco afrikaans che fa il veterinario dei big five e allo stesso tempo sa pure guidare un elicottero da solo, quel tipo di persona lì, grosso come un baobab, cappello a tesa larga, la materia di cui sono fatti i libri di Wilbur Smith, poco tempo da perdere. Il corno di un rinoceronte è durissimo, e c'è un solo strumento per toglierlo via: una motosega.

Il veterinario lo addormenta con un dardo direttamente dall'elicottero, l'animale barcolla, in pochi secondi si accascia e si addormenta con un tonfo. Pof. C'è qualcosa di ancestrale e primario nell'avvicinarsi a una creatura così altra, così pericolosa, così vulnerabile, ti lacera i confini dell'io, vorresti solo chiedere scusa, scusa, scusa. Il veterinario aziona la motosega, la frizione fa le scintille e il rumore di un'impresa boschiva in Trentino, l'operazione dura dieci minuti, produce frammenti che per legge devono essere distrutti, ne raccolgo uno, sembra corteccia bianca.

C'è una decina di persone sulla scena, nessuno dice niente, né quando il rumore impedirebbe di parlare, né quando il silenzio imporrebbe di dire qualcosa. L'anestetico sta per finire, l'animale si alza, è confuso, è difficile capire se nell'autopercezione di quella mutilazione ci siano dolore, umiliazione, paura. Sicuramente, dice il veterinario, non c'è dolore fisico, e non c'è perdita di funzioni vitali.

Come viveva prima, vivrà nei prossimi anni in attesa che il corno ricresca, e la validità logica di questa affermazione è che per tre anni nessuna banda armata lo vedrà come un borsone di cocaina da rubare, ma la verità, ecco, la verità è che ti viene da chiederti quanti piccoli fallimenti di cui nessuno sa niente l'umanità può accettare prima di decidersi a smettere di fare schifo.

Come dormono gli elefanti marini

Olycom/LaPresse

«L'oceano è pieno di cose strane e meravigliose e, se vogliamo darci una regola generale, più vai in profondità e più le cose diventano strane». Grazie, persona della sezione scienze di ABC che hai scritto questo attacco che mi ha migliorato la giornata (e spero migliori anche la tua), per parlare di un paper pubblicato su Science su un argomento che non pensavo essere così interessante (e invece). Ma come dormono gli elefanti marini? Ecco, dunque, gli elefanti marini, quando si addormentano, precipitano verso il fondo dell'oceano, e a volte arrivano sul fondale e rimangono lì a dormire.

La ricerca è stata fatta nella Monterey Bay, in California, dove un team di ricercatori ha attrezzato una serie di esemplari con sensori per fare l'elettroencefalogramma, aggiungendo anche una serie di altri wearable device medici per animali marini: accelerometro, sensore di profondità, cronometro. Poi hanno salutato gli elefanti marini e hanno recuperato i dati in un secondo momento.

Questa specie non è come i delfini o gli uccelli, che sono capaci del sonno uniemisferico, e riescono a nuotare e volare anche dormendo. Gli elefanti marini sono come te e me: quando dormono, dormono. E quando trascorrono lunghi periodi in acque profonde, gli elefanti marini entrano nella fase REM sperimentando una sorta di paralisi corporea, che li fa cadere verso il basso «come una foglia che cade da un albero». I periodi di sonno durano intervalli di venti minuti, in cui possono cadere per circa 400 metri, a volte si svegliano quando toccano il fondale, altre volte no, la ricerca non dice niente su cosa sognano, chissà.

Immagina un armadillo, prima di salutarci. Lo trovi carismatico? Forse no (ma, poi, i gusti sono gusti). Ora immagina un armadillo molto piccolo, delle dimensioni di un criceto, il più piccolo armadillo che esista. E ora arriva il meglio, immagina che questo piccolo armadillo sia anche rosa. Eccolo, si chiama Chlamyphorus truncatus, vive nei deserti del Sudamerica, nella lista IUCN delle specie minacciate è considerato data deficient, sono difficilissimi da avvistare, vivono prevalentemente sotto terra, escono fuori solo quando piove tanto (e quindi eventi sempre più rari in quei deserti) e si trovano in un mondo pericoloso, sia umano che animale. Atlas Obscura racconta l'affascinante storia di una scienziata ossessionata dagli armadilli rosa.

Ti ho raccontato queste due piccole storie perché senza un costante e ben allenato senso di meraviglia non ce la faremmo mai.

Per questa settimana è tutto, passa un buon weekend e un buon primo maggio, spero che sarai felice, spero che saremo felici, ci sentiamo la settimana prossima. Se hai voglia di scrivermi, fallo: ferdinando.cotugno@gmail.com. Per comunicare con Domani, invece, lettori@editorialedomani.it

Ferdinando Cotugno

© Riproduzione riservata