Negli ultimi vent’anni, l’agenzia spaziale nazionale cinese (Cnsa) ha realizzato alcune missioni di grande interesse tecnologico e scientifico. Ciò include l’invio di astronauti nello spazio, il dispiegamento di tre stazioni spaziali (come parte del programma Tiangong), lo sviluppo di veicoli di lancio pesanti (come il Long March 5) e l’invio di esploratori robotici sul lato opposto della Luna (il lander e il rover Chang’e-4) e su Marte.

Guardando al prossimo decennio e oltre, la Cina sta pianificando di intraprendere passi ancora più audaci per sviluppare il suo programma spaziale. Tra le tante proposte che i governatori del paese stanno valutando per il prossimo piano quinquennale, ce ne è una che prevede la creazione di un “veicolo spaziale ultra-grande lungo chilometri”. Avere questo veicolo spaziale in orbita terrestre bassa (Leo), cioè più o meno dove si trovano le attuali stazioni spaziali, sarebbe un punto di svolta per la Cina, consentendo missioni di lunga durata e lo sviluppo di importanti risorse spaziali.

La nuova, ambiziosa proposta è stata una delle dieci presentate dalla National natural science foundation of China in un incontro a Pechino avvenuto nelle ultime settimane. Ciascuno di questi progetti ha ricevuto 2,3 milioni di dollari in finanziamenti.

Secondo quanto si conosce dai primi dati, uno degli obiettivi principali degli studi che seguiranno è quello di trovare le modalità per far sì che la massa del veicolo spaziale nel suo insieme non sia eccessiva, ma deve comunque garantire una solidità strutturale sufficientemente elevata per il lancio in orbita dei singoli moduli.

Secondo lo schema del progetto, pubblicato dalla fondazione cinese e citato dal South China Daily Mail, gli elementi del veicolo spaziale saranno costruiti sulla Terra e poi lanciati individualmente in orbita per essere assemblati nello spazio. Nel mondo occidentale c’è però molto scetticismo sulla realizzabilità di questa proposta.

Per cominciare, ci vorrebbe un numero elevatissimo di lanci per portare gli elementi necessari nello spazio. Per avere un’idea, la stazione spaziale internazionale (Iss), che è la più grande struttura artificiale mai assemblata in orbita, ha richiesto dozzine di lanci con razzi di vario tipo e molti anni per assemblarla, tra l’altro con costi che sono lievitati considerevolmente nel corso degli anni. Sarebbe dovuta costare 50 miliardi di dollari, ma oggi si parla di un totale di circa 150 miliardi di dollari, con Nasa e Roscosmos che hanno sostenuto la maggior parte di queste spese. La stazione richiede anche 4 miliardi di dollari l’anno per le operazioni e la manutenzione generale, un onere che oggi è condiviso da 15 nazioni membri e dai rispettivi programmi spaziali. Eppure, l’Iss misura “appena” 109 metri di lunghezza, mentre la piattaforma cinese proposta richiede una struttura di almeno 20 volte quella dimensione. Sulla base di stime molto approssimative, si può ipotizzare che un veicolo spaziale «che si estenda per chilometri» dovrebbe costare non meno di 3 trilioni di dollari.

Migrare per il clima

I cambiamenti climatici dei nostri giorni, indotti o meno dall’uomo, potrebbero essere catastrofici per l’intera umanità, perché pochi sono i luoghi della Terra dove grandi masse di popolazioni potrebbero spostarsi per far fronte ai problemi che potrebbero sorgere (e stanno già sorgendo) in futuro. Anche nel passato (parliamo di decine di migliaia di anni fa) le variazioni del clima del tutto naturali, obbligarono a importanti spostamenti di homines, ma risultavano più “semplici” da realizzare perché il pianeta era praticamente vuoto.

Ora un recente studio apparso su Nature ha rivelato come negli ultimi 400mila anni, ci siano state diverse e importanti migrazioni umane in Arabia, nella zona che collega l’Africa con l’Eurasia, di cui non si conosceva quasi nulla e che risultano di particolare importanza perché rivalutano quest’area come luogo importante per la storia dell’umanità. Si pensava infatti che l’area arabica fosse stata un semplice corridoio di passaggio, ma in realtà è risultata essere un luogo dove i nostri predecessori stanziarono per tempi lunghissimi. Gli spostamenti furono guidati da un medesimo tipo di cambiamento climatico, legato a un evidente aumento delle precipitazioni sulla penisola arabica.

Il cambiamento sembra essere stato responsabile di almeno cinque importanti migrazioni. La ricerca parte dagli scavi realizzati in siti che un tempo erano antichi laghi, nel deserto del Nefud, nel nord dell’Arabia Saudita, dove gli archeologi hanno scoperto collezioni di strumenti in pietra e fossili di animali. Una volta datati, hanno rivelato precise migrazioni avvenute a distanza di decine di migliaia di anni le une dalle altre, che hanno poi visto le popolazioni rimanervi per migliaia di anni. «L’Arabia è stata a lungo vista come un luogo vuoto nel passato della storia umana», afferma l’archeologo Huw Groucutt, dell’Istituto Max Planck per la scienza della storia umana in Germania. «Ma non è così e il nostro lavoro dimostra come si conosca ancora poco sull’evoluzione umana in vaste aree del pianeta e pone di fronte a noi il fatto che ci aspettano ancora molte sorprese».

Alcuni dei manufatti recuperati rappresentano la più antica occupazione datata di ominidi in Arabia e in base a quanto scoperto è stato possibile dividere le migrazioni in due gruppi: quelle, più antiche, con “tecnologia acheuleana”, che sono rappresentate da semplici asce a mano, e quelle, successive, con tecnologia del Paleolitico medio, con asce e mannaie più avanzate. Le principali migrazioni si ebbero 400mila, 300mila, 200mila, tra 130mila e 75mila e 55mila anni fa, quando l’arido deserto arabo si trasformava in praterie più ospitali grazie all’arrivo di piogge più regolari. Le datazioni sono state realizzate con il sistema della “luminescenza”, dove la luce viene utilizzata per stimolare minuscoli granelli di sedimento (al cui interno sono stati trovati dei reperti) che permette di determinare quando sono stati esposti per l’ultima volta alla luce solare. La ricerca suggerisce in modo chiaro ed evidente che l’Arabia venne colonizzata da molti gruppi di nostri predecessori, quasi sicuramente di specie diverse (in quanto il sapiens sembra aver fatto la sua comparsa sulla Terra solo 350mila anni fa), oltre a dimostrare come i cambiamenti climatici spinsero e spingono ancora oggi le persone a spostarsi in diverse parti del mondo.

Afferma l’archeologo Michael Petraglia, del Max Planck Institute for the Science of Human History: «Sembra strano, ma fu così: ogni volta che l’Arabia “era bagnata”, arrivava gente», una battuta per sottolineare come quest’area del pianeta abbia avuto un ruolo importante nella storia dell’evoluzione umana.

Più disastri, meno morti

La World Meteorological Organization (Wmo), l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e l’United Nations Office for Disaster Risk Reduction (Undrr) hanno recentemente presentato l’Atlas of Mortality and Economic Losses from Weather, Climate and Water Extremes (1970-2019), un lavoro dove è presentata la più esauriente raccolta sui danni alle persone e danni economici derivanti dai rischi naturali, sia a livello globale, sia regionale.

Da questo lavoro emerge che negli ultimi cinquant’anni, a livello globale, il numero dei disastri legati al clima è quintuplicato, anche se il numero di morti è diminuito drasticamente. Non c’è dubbio, secondo i climatologi, che sia il cambiamento climatico a creare condizioni meteorologiche sempre più estreme e, conseguentemente, danni sempre più gravi. Per fortuna nel corso del tempo c’è stato però un notevole miglioramento nei sistemi di allarme e sono proprio questi che hanno contribuito a limitare il numero di decessi. E c’è da sottolineare un fatto: più del 90 per cento delle morti dovute ai disastri legati alla meteorologia si sono riscontrati nei paesi in via di sviluppo, dove i peggiori fenomeni mortali sono stati la siccità, responsabile di 650mila morti e le temperature estreme che hanno causato quasi 56mila vittime.

Petteri Taalas, segretario generale della Wmo, ha detto che «il numero di condizioni meteorologiche, climatiche e idriche estreme è senza alcun dubbio in aumento e tale numero crescerà in molte parti del mondo. Ciò significa più ondate di calore, siccità e incendi boschivi come quelli che abbiamo subìto negli ultimi anni in Europa e in Nord America. Abbiamo più vapore acqueo nell’atmosfera, il che sta aggravando le precipitazioni estreme e le inondazioni catastrofiche. Il riscaldamento degli oceani ha influenzato la frequenza e l’area di esistenza delle tempeste tropicali più intense. Per fortuna dietro queste drammatiche statistiche si nasconde un messaggio di speranza. Il fatto che c’è stato un netto miglioramento nei sistemi di allarme rapido che ha determinato una significativa riduzione della mortalità».

Il lavoro cita anche numeri impressionanti: i danni economici che si sono avuti negli ultimi cinquant’anni sono aumentati: nel decennio tra il 2010 e il 2019 le perdite furono di circa 383 milioni di dollari al giorno, sette volte di più rispetto ai 49 milioni al giorno tra il 1970 e il 1979.

Sempre secondo l’atlante, nei cinquant’anni tra il 1970 e il 2019, ci sono stati più di 11mila disastri legati ai cambiamenti climatici in atto, con oltre due milioni di persone decedute e perdite economiche pari a 3,64mila miliardi di dollari. L’anno peggiore è stato il 2017 con i tre eventi estremi i cui impatti economici sono stati disastrosi: si tratta degli uragani Harvey, Maria e Irma che hanno colpito gli Stati Uniti.

Non c’è dubbio che si deve lavorare sulla limitazione dei cambiamenti climatici, ma al contempo si può fare ancora molto sui sistemi di allarme, in quanto solo la metà dei 193 paesi membri della Wmo possiedono “sistemi di allarme rapido multirischio” che permettono di salvare molte vite. E si dovrebbe fare ancora molto per lo studio delle previsioni meteorologiche in quanto ci sono enormi lacune nelle reti di osservazione meteorologica e idrologica in Africa, in alcune parti dell’America Latina e negli stati insulari del Pacifico e dei Caraibi.

L’innalzamento dei mari

La memoria dell’uomo sui disastri è solitamente molto breve, ma è difficile dimenticare l’estate appena trascorsa con le temperature record dal nord-ovest del Pacifico alla Sicilia, con le inondazioni in Germania e negli Usa orientali e con i mega-incendi in California, Siberia, Grecia, Italia stessa. Eventi che sembravano rari solo pochi decenni fa, ora sono all’ordine del giorno. Un nuovo studio apparso su Nature Climate Change e realizzato da un gruppo internazionale di ricercatori - che comprende anche Lorenzo Mentaschi dell’Università di Bologna - esamina specificamente i livelli estremi del mare durante le complesse combinazioni di marea e mareggiate e, tra l’altro, è giunto alla conclusione che a causa dell’aumento delle temperature, i livelli estremi del livello del mare lungo le coste di tutto il mondo diventeranno 100 volte più frequenti entro la fine del secolo rispetto ad oggi in circa la metà delle 7.283 località studiate. Questo significa che un evento di innalzamento estremo del livello del mare che si sarebbe dovuto verificare una volta ogni 100 anni si verificherà invece quasi una volta all’anno entro la fine di questo secolo. La principale autrice dello studio, la climatologa Claudia Tebaldi del Pacific Northwest National Laboratory del dipartimento dell’energia Usa, ha detto che una delle domande centrali alla base dello studio era: «Quanto riscaldamento ci vorrà per rendere quello che è stato conosciuto un evento secolare un evento annuale?». La risposta è che siamo molto vicini a tale situazione in quanto il pianeta si è già riscaldato di circa un grado rispetto ai tempi preindustriali.

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