Il cobalto è una delle materie prime fondamentali per la costruzione delle batterie agli ioni di litio che alimentano le auto elettriche e i dispositivi elettronici di largo consumo, ovvero i protagonisti principali di quella rivoluzione ecologica che dovrebbe subire un’ulteriore accelerazione grazie agli investimenti per stimolare la ripresa economica post Covid-19.

La domanda crescente degli ultimi anni ha reso questo minerale, fino a poco tempo fa poco conosciuto e spesso confuso con il coltan, una delle materie prime più scarse e ricercate al mondo. Ciò che lo rende un “sorvegliato speciale” del mercato estrattivo e una “risorsa ad alto rischio” per le aziende che se ne devono approvvigionare, è che la maggior parte dei giacimenti finora noti, da cui proviene il 60-70 per cento della fornitura mondiale, si trovano concentrati in una regione circoscritta della Repubblica democratica del Congo, il Lualaba (parte dell’ex Katanga).

Di cosa succeda nell’ex Katanga si parla poco in Italia, tuttavia la corsa al cobalto, che ha assunto le caratteristiche di una moderna febbre dell’oro, con conseguenze devastanti sui diritti delle comunità locali, ha costretto i giganti dell’elettronica e dell’automotive, da Apple a Bmw, da Google a Mercedes, a preoccuparsene.

La denuncia di Amnesty

Nel 2016, Amnesty International ha denunciato all’Ocse una situazione di sfruttamento umano e ambientale gravissima “a monte” della filiera delle batterie, documentando lavoro minorile diffuso, inquinamento, incidenti gravissimi, violenza sulle donne, nella sostanziale ignoranza o indifferenza della maggior parte delle aziende a valle della filiera e dei consumatori finali. Ciò che complica ulteriormente il quadro e rende difficile identificare i responsabili di questa situazione, è che il 20-30 per cento del cobalto viene estratto in modo artigianale e su piccola scala, un sistema scarsamente regolato e pericoloso, emerso dalla fine degli anni ‘90 con il declino della Gécamines, la società statale di estrazione mineraria.

Con il declino economico del paese e il grave indebitamento infatti si è aperta una fase di privatizzazione e liberalizzazione del settore, che ha portato alla vendita di vaste concessioni a varie multinazionali, tra cui la svizzera Glencore e successivamente varie aziende cinesi. Per tentare di attutire l’impatto della decadenza dell’attività estrattiva statale e mantenere un precario equilibrio sociale, il governo ha inizialmente previsto la possibilità per ogni cittadino congolese di diventare minatore artigianale, un creseur, una sorta di freelance, in modo scarsamente regolato e monitorato.

Così Kolwezi, come una moderna città del Far West, è diventata il luogo in cui arrivano persone da tutto il Congo, alcuni sfuggendo ai conflitti nella parte est del paese, per cercare fortuna estraendo prima rame e adesso cobalto. Piccoli villaggi sono cresciuti a dismisura o spuntati dal nulla, spesso su concessioni di grandi aziende, con alloggi di fortuna costruiti direttamente sopra i cunicoli in cui si scava o in prossimità alle zone di estrazione, a continuo rischio di frane e in condizioni socio-sanitarie devastanti.

L’Uber-izzazione dell’estrazione

Negli ultimi 4-5 anni, nella città e nei dintorni di Kolwezi, si sono formate numerose zono grigie di estrazione, tra l’artigianato minerario e l’estrazione industriale, aree formalmente di proprietà di concessionari industriali, che tuttavia non riescono a controllare territori molto estesi, in cui i creseurs si insediano e avviano attività di escavazione o di lavorazione degli scarti industriali per estrarne residui minerali. Spesso questi creseurs vendono quanto estratto agli stessi concessionari o a intermediari, oppure nei tanti “mercati aperti”, per la maggior parte gestiti da un ristretto gruppo di intermediari che definiscono il prezzo in maniera poco trasparente e svantaggiosa per i creseurs. In alcune concessioni si è venuto a creare un modello ibrido, che potremmo definire “Uber-izzazione dell’estrazione mineraria”: le società estrattive che acquistano i diritti di sfruttamento fanno investimenti minimi con infrastrutture essenziali, impiegano formalmente poco personale locale e sfruttano invece il lavoro di gruppi più o meno organizzati di artigiani minerari, spesso reclutati alla giornata con metodi simili al caporalato, oppure facendo lavorare i membri delle comunità che vivono già nel territorio dato in concessione, per poi imporre di conferire il minerale direttamente al concessionario, ai prezzi decisi dall’azienda senza che i creseur abbiano nessun vero potere negoziale, né la possibilità di vendere al di fuori della concessione a possibili migliori acquirenti.

In queste zone grigie il rischio di sfruttamento è altissimo e le condizioni di lavoro estremamente precarie. La forza lavoro non istruita, non regolamentata è disponibile in quantità praticamente illimitata. È in queste zone, le meno controllate, che si continuano a registrate molti casi di lavoro minorile, di incidenti mortali, di scontri accessi tra creseurs e aziende. A queste condizioni di sfruttamento si aggiungono anche rilocazioni forzate di intere comunità, che nella maggior parte dei casi abitavano in quelle zone ben prima che scoppiasse la febbre del cobalto. Nonostante vari tentativi in corso da parte di consorzi internazionali di creare sistemi di tracciamento con tecnologia blockchain, per le aziende a valle della filiera è praticamente impossibile al momento distinguere il cobalto che proviene da questi siti ad alto rischio, rispetto a quello di altri siti più regolamentati.

Sfruttamento minorile

Dunque è possibile oggi per le aziende a valle approvvigionarsi di cobalto non “macchiato” dal lavoro minorile? Molto probabilmente, no. La Global Battey Alliance sta lavorando a un passaporto delle batterie, ancora di là da venire. Eppure, se anche tutto il cobalto della Rdc venisse estratto all’interno di concessioni regolamentate di cui noi consumatori potessimo tracciare il percorso, potremmo essere soddisfatti e tranquilli che la filiera delle batterie funzioni in maniera responsabile? No. Che fine farebbero infatti i creseurs e le migliaia di donne e bambini che oggi mettono a rischio la loro salute perchè il lavoro estrattivo è la loro principale (unica) fonte di sostentamento?

La vera “maledizione del cobalto”, non dipende infatti soltanto dall’opacità della filiera, ma da ciò che avviene (o meglio, non avviene) al di fuori delle zone di estrazione. Ovvero dalla mancanza di redistribuzione della ricchezza generata dall’attività estrattiva, a causa di corruzione, inefficienza, evasione fiscale. Le grandi aziende estrattive che non impiegano lavoro minorile, assieme ai governi locali, sono ugualmente responsabili di un cronico sotto-investimento in infrastrutture e servizi che creino opportunità di lavoro e crescita in altri settori economici.

Si tratta quindi di una manifestazione esemplare della ben documentata “maledizione delle risorse”, che colpisce quelle comunità nelle quali si trovi in abbondanza una risorsa ad altissimo valore aggiunto, ma nelle quali non esista un sistema di regolamentazione che permetta di redistribuire il valore da essa generato investendo in altre attività meno remunerative, come agricoltura e servizi. Kolwezi è un caso emblematico di tale gravissimo fallimento del mercato. Per chi come la nostra ong lavora dal 2012 a Kolwezi per offrire opportunità alternative ai membri più vulnerabili di queste comunità, attraverso istruzione, sicurezza alimentare, formazione e promozione di imprese sociali, questa “maledizione” si traduce semplicemente nella difficoltà anche di acquistare una dozzina di uova.

Per i nostri operatori è più facile comprare un sacco di cobalto che uno di fagioli per la mensa della scuola che ha portato fuori dalle miniere oltre 3000 bambini in 8 anni. Non esiste in queste zone un settore agricolo moderno perché l’incentivo ad investire e utilizzare i terreni per questo scopo è molto inferiore a quello offerto dallo sfruttamento minerario. La responsabilità dunque dei consumatori è di fare pressione su aziende e regolatori perché la filiera diventi più trasparente e regolata, ma anche perché le grandi aziende di tutta la filiera, non solo quelle a monte, si facciano carico di investire nello sviluppo delle comunità, in partenariato con gli attori locali, creando opportunità di lavoro e condizioni di sicurezza alimentare che eliminino alla radice il problema dello sfruttamento.

Alcune aziende hanno cominciato a percepire la pressione, avviando un dialogo per comprendere meglio la situazione e avviando progetti di lungo termine per lo sviluppo comunitario. Molte realtà, anche italiane, mancano all’appello. Questo è il momento di alzare la guardia e documentare quello che sta accadendo, per valutare criticamente gli sforzi messi in campo dagli attori pubblici e privati, per richiamare alle proprie responsabilità quelle aziende e quei i governi che finora sono rimasti silenti, per mettere in luce e premiare i comportamenti responsabili, informando correttamente i consumatori. Affinché non siano migliaia di bambini, donne e uomini congolesi a pagare il costo umano e ambientale della nostra green economy.

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