Sembrava che l’asticella su come si organizza una conferenza sul clima non potesse essere messa più in basso della Cop28 di Dubai: una storia di violazione dei diritti umani, nessun dissenso ammesso, un’economia petrolifera e un presidente con una lunga storia e un presente operativo nei combustibili fossili. La Cop29 di Baku, in Azerbaigian, ha assorbito tutti gli standard negativi dei predecessori (c’è da contare anche la complicata Cop egiziana del 2022) e li sta pure superando, tutto già nel primo mese del ciclo lungo un anno che porterà all’evento di novembre 2024.

C’è una notizia che avrebbe avuto solo un carattere procedurale, neutro: è stata nominata la commissione organizzatrice, un gruppo di ventotto persone che ha un compito logistico (iniziare a far funzionare la macchina) e politico (scrivere l’agenda dei temi e delle strategie). Il problema è che le ventotto persone che l’Azerbaigian ha scelto per organizzare la sua conferenza sul clima sono tutti uomini, come maschio è il presidente. Persino gli Emirati avevano avuto l’accortezza di non fare una commissione organizzatrice così tragicamente poco rappresentativa della civiltà umana che si prova a salvare: anzi, per Cop28 le donne erano il 63 per cento del comitato.

Christiana Figueres, la diplomatica del Costa Rica che è considerata l’artefice dell’accordo di Parigi, ha detto: «È una cosa che si può ancora correggere, ma è urgente farlo». L’ong She Changes Climate, che si occupa di inclusività nella lotta alla crisi climatica, ha commentato: «Chiediamo un’equa rappresentanza della governance dei negoziati di quest’anno, perché i cambiamenti climatici colpiscono tutto il mondo, non solo metà del mondo». Sono le stesse Nazioni unite nei propri documenti sugli obiettivi di sviluppo sostenibile a scrivere che «la diseguaglianza di genere è una barriera all’azione contro i cambiamenti climatici, perché rafforza le vulnerabilità agli impatti e rende più deboli sia la mitigazione che l’adattamento». Dovrebbero essere le basi del ragionamento, ma non in Azerbaigian.

Da un punto di vista politico, la Cop di Baku è un regalo avvelenato di Vladimir Putin ai negoziati sul riscaldamento globale, che pure snobba dal 2015. Cop29 è la terza conferenza Onu sul clima di fila in un paese produttore di combustibili fossili con una storia di mancato rispetto dei diritti umani. Per il meccanismo di rotazione ideato dalla convenzione quadro, la ventinovesima conferenza era destinata all’area geografica che comprende est Europa e Caucaso. Si erano candidati diversi paesi dell’Unione europea, in particolare la Bulgaria sembrava avere le credenziali più solide. Tutti però hanno incontrato l’ostilità e il veto della Russia. Soltanto i paesi della regione di assegnazione possono opporsi a una candidatura, la Russia ne fa parte e non si è lasciata sfuggire la possibilità di una rappresaglia contro l’Unione europea. La Cop si è trovata così a lungo senza casa e in una situazione di stallo, con la prospettiva che fosse addirittura riconfermata la contestata presidenza emiratina. Poi un avvicinamento diplomatico tra Armenia e Azerbaigian, legato alle dinamiche del conflitto in Nagorno Karabakh, ha sollevato il veto dei primi sui secondi, e la Cop29 di Baku si è materializzata, con il nulla osta, e quindi la benedizione, di Putin.

Presidente petroliere

La Cop29, tutta orgogliosamente petrolio e maschi, è la dimostrazione di quanto i principi di inclusività alla base del processo Onu sul clima possano essere strumentalizzati contro il processo stesso. Le conferenze sembrano ostaggio dei paesi produttori di petrolio e gas: l’Azerbaigian è una delle economie più dipendenti al mondo dagli idrocarburi, in proporzione anche più degli stessi Emirati.

L’Unione europea nel 2021 comprava 8 miliardi di metri cubi di gas dall’Azerbaigian, nel 2022 sono diventati 11, nel 2023 hanno superato i 12, l’obiettivo per il 2027 è arrivare a 20 miliardi: sono le conseguenze della diversificazione post invasione russa in Ucraina, che però ha finito con l’avvantaggiare un altro paese in conflitto, l’Azerbaigian, che col cambio di scenario ha guadagnato 15,6 miliardi di euro nel 2022. Tutto gas in entrata con il gasdotto Tap, la Trans Adriatic Pipeline. La produzione fossile dell’Azerbaigian aumenterà di un terzo nel corso di questo decennio, lo stesso in cui secondo l’accordo finale di Cop28 dovrebbe iniziare il «transitioning away», cioè l’allontanamento dai combustibili fossili.

Gli azeri hanno deciso di nominare come presidente Mukhtar Babayev, che è ministro dell’Ambiente e delle risorse naturali, ma che per 26 anni aveva lavorato all’azienda pubblica di petrolio e gas, la Socar. Non tutte le aziende fossili sono uguali: come sottolineato da un’analisi di Oil and Gas Benchmark (riportata da Climate Home), la Socar è la 91esima (su 99) al mondo per preparazione a un mondo a basse emissioni: in questa stessa classifica l’emiratina Adnoc è 83esima (e l’italiana Eni quinta). «La strategia aziendale di Socar prevede misure scarse per ridurre le emissioni, aumentare l’efficienza energetica, contenere le perdite di metano nei processi estrattivi e ridurre il flaring», dice il rapporto di Oil and Gas Benchmark. Di praticamente tutto quello che predicano la scienza, l’Onu e le Cop, l’azienda oil and gas di stato dell’Azerbaigian fa l’opposto, eppure un suo veterano guiderà Cop29.

Non le prospettive migliori. È Babayev il costruttore della commissione fatta solo da uomini, e l’inclusività non è l’unico problema: al suo interno ci sono Balababa Rzayev, capo di Azerenergy, la più grande utility del paese, alimentata da un mix di idroelettrico, gas e petrolio, o Ruslan Aliyev, direttore generale di Azerigas, la divisione che si occupa di distribuire il gas di Socar. La metà dei componenti sono membri del governo o degli apparati di sicurezza. Il focus primario di Cop29 sarà la finanza climatica, come abilitare i paesi in via di sviluppo e più vulnerabili a realizzare le premesse di uscita dalle fonti fossili decise a Dubai. Sarà l’ennesima Cop delicatissima, ma le premesse non sembrano incoraggianti.

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