Buongiorno, lettrici e lettori di Domani, questo è il primo episodio della seconda stagione di Areale, la newsletter che prova a tenere insieme i fili che legano il clima, l’ambiente, l’attivismo, la politica e la realtà. Grazie per gli auguri di un anno di Areale che mi avete mandato, è stato molto, molto bello riceverli. Niente sentimentalismi, però. Cominciamo.

La prospettiva dei movimenti

Quello del 25 marzo non è stato il primo sciopero globale per il clima durante una guerra, ma è stato il primo durante una guerra così importante, visibile, assoluta. Da quando esistono i Fridays for Future e gli altri movimenti, è la seconda crisi acuta e sistemica dopo la pandemia, un’altra di quelle crisi-mondo che cancellano qualunque altro discorso, che sconvolgono l’idea stessa di priorità, che diventano tutto e non lasciano spazio a niente.

Come per la pandemia, forse più della pandemia, la guerra in Ucraina è anche una parabola perfetta per illustrare i rischi sistemici di una dipendenza dalle fonti fossili di energia o le prospettive dei cambiamenti climatici (sotto parlo di scarsità di acqua e incendi durante la guerra in Ucraina).

La lettura climatica di questa guerra è fin troppo lineare, come è fin troppo lineare che a scatenarla sia stato uno dei grandi giganti del fossile, un paese che si trova ai primi tre posti della produzione di tutte le fonti energetiche di cui stiamo provando a liberarci, gas (secondo), petrolio (terzo), carbone (terzo). Se nemmeno una situazione del genere spinge a un investimento senza precedenti nelle fonti rinnovabili di energia, non so davvero cosa potrebbe farlo. Eppure questa stessa guerra fossile rischia di avere l’effetto di spingere oltre l’orizzonte del presente l’azione per il clima.

La crisi, nonostante tutti i segnali avversi, continua a essere inquadrata come un problema futuro, al quale pensare poi. In questo scenario i movimenti per il clima devono giocare ancora una volta una partita nuova, in un campo politico stravolto per la seconda volta nel giro di tre anni, con adattamento a nuove regole e nuovi schemi. Da quando esistono, Fridays for Future, Extinction Rebellion, Sunrise hanno ottenuto vittorie culturali decisive, hanno cambiato e indirizzato il discorso in un modo che non viene ancora del tutto riconosciuto. Credo nemmeno dai movimenti stessi, ma potrei sbagliarmi.

E sono interessato al vostro parere: si sta sottovalutando o sopravvalutando l’effetto di quattro anni di scioperi?

Ma soprattutto: e ora? che si fa? Naomi Klein ha detto una cosa interessante nell’ultimo pezzo di Bill McKibben sul New Yorker: è il momento delle alleanze. Il movimento per il clima non può pensare di farcela da solo. Ogni altro pezzo della società che può essere interessato deve essere coinvolto. Il clima non deve più essere il problema dei giovani o dei movimenti per il clima. Sta già succedendo, so che è un lavoro avviato da tempo, ed è un segnale bello e importante lo sciopero congiunto su due giorni di Fridays for Future con GKN, una cosa che va nella direzione giusta: allargare il campo.

LAPRESSE

Guerre per l’acqua, guerre con l’acqua

La guerra in Ucraina è anche una guerra dell’acqua. Il fatto che le guerre sarebbero scoppiate nel presente e nel futuro per questo motivo è qualcosa che sappiamo da tempo, uno dei più duraturi (e veri) luoghi comuni della geopolitica. Ma il conflitto ci sta mostrando anche come funziona la militarizzazione di questa risorsa, la sua trasformazione in arma tattica. Dobbiamo guardare al disegno più grande, quello in cui l’acqua diventa sempre più scarsa, per capire quanto l’assedio idrico sarà sempre di più una dimensione dei conflitti che verranno. Combattere per l’acqua ma anche con l’acqua.

Già la primavera scorsa, quando l’Ucraina non era in cima all’agenda di nessuno a ovest di Leopoli, giravano notizie di come le infrastrutture fossero prese di mira lungo la linea del conflitto a oriente, tagliando l’accesso a regioni e villaggi, con centinaia di attacchi mirati nel corso degli ultimi anni. «Qui la situazione è unica», aveva spiegato a Euronews Sebastien Truffaut, responsabile acqua e igiene di Unicef Ucraina. «Qui le grandi città si sono sviluppate intorno al carbone, non all’acqua, e quindi devono riceverla da molto lontano. È un problema per una regione in guerra, le infrastrutture e le persone che ci lavorano sono regolarmente sotto attacco». Era aprile dell’anno scorso.

Alla fine di febbraio, uno dei primi atti di guerra della Russia è stato distruggere la diga che bloccava l’acqua di un canale di èra sovietica che scorreva verso la Crimea, annessa unilateralmente da Putin nel 2014. La costruzione stessa della diga era stata una reazione alla perdita di quel territorio. Le guerre durante un mondo in crisi climatica avranno sempre più questo tipo di obiettivi e dinamiche.

C’è un rapporto, chiamato Water Conflict Chronology, pubblicato dal Pacific Institute, che raccoglie gli episodi di strumentalizzazione militare dell’acqua: tra il 2019 e il 2021 ce ne sono stati 376 nel mondo.

Infografica Water Conflict Chronology

La versione moderna dell’antico avvelenamento dei pozzi, molto più “efficace” quando l’acqua è poca. Peter Gleick, presidente del Pacific Institute, ha detto al New York Times: «I cambiamenti climatici peggiorano l’uso dell’acqua nelle guerre, proprio per la sua scarsità, per le siccità, per le disuguaglianze di base all’accesso».

Vedremo sempre più spesso eserciti colpire l’acqua perché l’acqua è una vulnerabilità. Dal 2000 un quarto di queste rappresaglie idrico-militari sono avvenute in territori come Medio Oriente, Asia meridionale, Africa sub-sahariana, dove la risorsa è estremamente limitata. Le persone di Mariupol ridotte alla sete, a bere dalle pozzanghere, sono solo il nuovo capitolo di questa infezione.

C’è un altro tassello climatico che sta pulsando in Ucraina: gli incendi forestali. Ne sono scoppiati diversi intorno ai reattori nucleari di Chernobyl e nella zona di esclusione, ha fatto sapere il parlamento ucraino. Ed è un problema serio. Nella zona di esclusione ci sono sette grandi incendi in corso, l’area è stata catturata dall’esercito russo e non sono più attive le forze anti incendio forestale ucraine. E siamo all’inizio della stagione degli incendi a quelle latitudini.

Lo sappiamo, non tutti gli anni sono uguali, la scorsa annata è stata particolarmente catastrofica in tutto l’emisfero boreale. Una brutta annata durante la guerra, se questa durerà ancora mesi, sarebbe un altro elemento climatico del conflitto da considerare, perché gli incendi in un raggio di dieci chilometri dalla centrale nucleare pongono un reale problema di contaminazione da radiazioni.

L’agenzia atomica ucraina, Energoatom, ha fatto sapere che non è più in grado di effettuare alcun monitoraggio da quando ci sono i russi, non ci sono dati, non sappiamo cosa sta succedendo e che effetto avranno questi incendi. Sappiamo però – come scrive il Washington Post – che i roghi forestali possono liberare radiazioni intrappolate nello strato superiore del suolo intorno al sito nucleare. Anche le radici degli alberi potrebbero contenere materiale radioattivo, che in caso di incendio sarebbe liberato.

Una ricerca pubblicata dal Center for Security Studies lo scorso anno aveva appurato che gli incendi forestali possono trasportare materiale radioattivo per lunghe distanze. Quel fumo viaggia, non conosce confini nazionali o militari.

Per chiudere questo discorso, a febbraio, poco prima dello scoppio della guerra in Ucraina, l’esercito americano aveva pubblicato le sue prime linee guida su come cambia l’attività bellica in un contesto di cambiamenti climatici. C’erano parti che facevano quasi sorridere: il dimezzamento delle emissioni della metà entro il 2030, l’elettrificazione dei veicoli non di combattimento entro il 2035, l’elettrificazione dei veicoli di combattimento entro il 2050. E c’erano delle prospettive più sostanziali e realistiche: la crisi climatica, la prospettiva di combattere in un mondo più arido, secco e imprevedibile, entreranno a far parte stabilmente dell’addestramento delle forze armate americane.

I guai climatici ai due poli

Le recenti rilevazioni di temperature fuori scala in Artico e in Antartide sono la conferma che la perdita degli equilibri climatici è un territorio per il quale non possediamo nessuna mappa. Pochi giorni fa i due poli sono stati colpiti, quasi simultaneamente, da due ondate di calore senza precedenti, che hanno fracassato ogni record conosciuto.

I dati: sono stati registrati picchi di +40°C rispetto alla media in Antartide, che si sta per inoltrare nell’inverno e che in questo periodo dell’anno perde quasi mezz’ora di luce al giorno, e +30°C in Artico, dove invece l’inverno è appena finito e siamo nella stagione dell’alba artica che segue i mesi di buio totale. I due eventi non sono probabilmente collegati, o meglio, non abbiamo nessuna prova che lo siano, ma temperature del genere sarebbero state impensabili senza un’atmosfera satura di gas serra.

L’attribuzione di singoli episodi estremi ai cambiamenti climatici – che si misurano su scale di partenza trentennali – è una scienza complessa, richiede tempo, studi e dati, e in questo caso è trascorso troppo poco tempo per dirlo con certezza, ma l’oscillazione è stata troppo violenta per non essere sintomo di un pianeta al collasso. Inoltre rispecchia il fatto che i poli, soprattutto quello nord, si riscaldano più velocemente del resto della media globale.

Per l’Artico parliamo già oggi del doppio della rapidità, l’Ipcc nel suo ultimo rapporto prevede che già tra trent’anni potrebbero esserci estati completamente senza ghiaccio. Nel giorno del record, il continente antartico era 4.8°C più caldo della media delle temperature tra il 1979 e il 2000, secondo i modelli dello U.S. National Oceanic Atmospheric Administration. Lo stesso giorno l’Artico nella sua interezza era 3.3°C più caldo della media 1979-2000 nello stesso periodo dell’anno. Sempre l’Ipcc aveva avvisato che sarebbero potuti arrivare nel prossimo futuro segnali di un riscaldamento mai sperimentati, senza precedenti, con effetti rapidi e irreversibili.

Come spiegato al Guardian da Mark Maslin, docente di Scienze della terra a University College London, «Queste temperature da record mostrano che potremmo essere entrati in una nuova fase dei cambiamenti climatici molto prima di quanto ci aspettassimo di farlo».

Come hanno osservato su The Conversation tre esperti di meteorologia polare, in Antartide l’ondata di calore si è formata attraverso un sistema di alta pressione arrivato dall’Australia, un blocco di aria calda e umidità che si è spinto fin nell’interno del continente di ghiaccio, dove si è scontrato con un «fiume atmosferico» di aria calda, mentre l’effetto è stato amplificato dalla copertura di nuvole, che ha intrappolato il calore in una cupola.

All’osservatorio meteo di Vostok la temperatura è arrivata a -17.7°C, che è anche simbolicamente significativo perché qui fu registrata la temperatura più bassa della Terra da quando esistono le misurazioni: -89.2°C. Era il 21 luglio del 1983. La scorsa settimana Vostok era 15°C più calda del precedente record. A Concordia, dove c’è un centro di ricerca italiano a 3.200 metri sopra il livello del mare e a 1.000 km dalla costa, la temperatura era di 40°C più alta di quanto dovrebbe essere a marzo. In Artico la dinamica è stata simile, con un sistema di bassa pressione che è arrivato dalla costa orientale degli Stati Uniti e ha portato alle Isole Svalbard temperature addirittura ben sopra lo zero.

Diversi climatologi hanno paragonato questa ondata di calore a quella che all’inizio della scorsa estate colpì il Canada occidentale, con temperature che in quel caso arrivarono a sfiorare i 50°C e che è stata ufficialmente attribuita dalla comunità scientifica al riscaldamento globale, senza il quale sarebbe stata virtualmente impossibile. È l’effetto «loading the dice». Secondo il paragone proposto allora dal climatologo della Nasa Peter Kalmus, anche se non ogni singolo evento si può legare in un rapporto di causa effetto al cambiamento del clima, aumentare così tanto la concentrazione di gas serra nell’atmosfera è come caricare un dado di numeri alti: le probabilità che un evento secolare torni a pochi anni di distanza diventano sempre più elevate.

In più, ed è strano, in quel modo surreale come solo questo pianeta in questa fase della sua storia geologica, a Tromsø, sulla terraferma norvegese, sono sbocciati i fiori, ed era ancora inverno, al parallelo 70° Nord.

Un libro e uno speciale

Prima di salutarci vi consiglio una lettura, come dire, molto pertinente rispetto al contesto nel quale ci troviamo. Un libro che mantiene le promesse del titolo: Che cosa è l’energia rinnovabile oggi, un saggio (pubblicato da Edizioni Ambiente) di Gianni Silvestrini, direttore scientifico del Kyoto Club e della rivista QualEnergia. Contiene anche i contributi di Giuseppe Barbera, Tommaso Barbetti, David Chiaramonti, Giacomo Tallluri, G.B. Zorzoli. In duecento pagine si fa un viaggio rassegna longitudinale lungo tutti i temi chiave per conoscere il presente dell’energia. Una delle migliori divulgazioni che abbia letto sull’argomento.

In edicola invece c’è uno speciale di Domani, un DopoDomani allegato col giornale per una settimana, dal titolo: La guerra alla transizione ecologica. Racchiude gli articoli che ho scritto per Domani sui materiali critici per arrivare dall’altra parte (litio, terre rare, cobalto, silicio, alluminio, nichel), più un lungo articolo sugli effetti che sta avendo il conflitto sulla transizione. Se lo comprate sono contento, dentro c’è anche una mappa della nuova geografia della transizione che è bellissima. Poi fatemi sapere che effetto fanno quei pezzi tutti insieme.

Siamo davvero alla fine, vi auguro un buon fine settimana, raccontatemi come è andato per voi lo sciopero o quello che avete in mente sul momento storico (o quello che volete) a ferdinando.cotugno@gmail.com. Per comunicare con Domani, invece, lettori@editorialedomani.it

Noi ci sentiamo la settimana prossima!

Ferdinando Cotugno

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