Se le emissioni di gas serra continueranno al ritmo attuale, nel 2100 il livello del mare sulla Terra potrebbe aumentare anche fino a un metro rispetto al 1850, con danni sempre maggiori per mareggiate e fenomeni estremi.

La prospettiva arriva da uno studio pubblicato sulla rivista Earth System Science Data a cui hanno partecipato i professori Matteo Vacchi dell’università di Pisa e Alessio Rovere dell’università Ca’ Foscari di Venezia.
La ricerca ha messo insieme tutti i dati esistenti relativi al livello del mare durante l’ultimo periodo interglaciale (ossia quello tra la penultima e l’ultima glaciazione), avvenuto circa 125mila anni fa, quando le temperature erano più o meno simili a quelle attuali. Secondo l’atlante on line creato dai ricercatori, il livello dei mari all’epoca era tra i tre e i nove metri più alto di adesso. 

Le zone vulnerabili

A livello globale le zone più vulnerabili all’innalzamento del livello del mare sono gli atolli nel Pacifico e le gradi piane costiere del sud-est asiatico. Per quanto riguarda il Mediterraneo sono particolarmente vulnerabili la laguna di Venezia, l’alto Adriatico, e in generale le grandi piane costiere, per esempio il Volturno di Napoli, ma anche la piana pisana in Toscana, e per il nord Africa le zone costiere pianeggianti della Tunisia, del Marocco e il Delta del Nilo.

Prima responsabile dell’innalzamento dei mari sarebbe la fusione delle due grandi calotte polari del Pianeta, Groenlandia e Antartide. Da questo punto di vista i dati messi assieme dallo studio sono fondamentali per delineare dei modelli climatici futuri.

Se infatti si dovesse fondere tutta la calotta glaciale che copre attualmente la Groenlandia, il livello globale del mare salirebbe di circa sette metri. Se invece si dovesse fondere tutta la calotta antartica l’aumento sarebbe di ulteriori 58 metri. «Sulla Terra ci sono stati dei periodi in cui il livello del mare è salito al di sopra dell’attuale»,  conclude Vacchi, «ma quello che preoccupa oggi sono i tassi di risalita, ovvero l’accelerazione avvenuta negli ultimi 150 anni, in concomitanza con l’inizio della rivoluzione industriale che ha aumentato enormemente le emissioni di gas serra nell’atmosfera».

Inquinamento ed estrazione di metalli 

Secondo uno studio recentemente pubblicato, almeno 23 milioni di persone in tutto il mondo vivono in pianure alluvionali contaminate da concentrazioni di rifiuti tossici. Questi derivano dall’attività di estrazione dei metalli e risultano essere potenzialmente dannosi per la salute umana e la vita in genere.

La ricerca è stata condotta da ricercatori britannici i quali hanno mappato le 22.609 miniere di metalli attive e le 159.735 abbandonate del mondo di cui si ha conoscenza e hanno calcolato l’entità del loro inquinamento.

Le sostanze chimiche vengono prodotte dalle operazioni minerarie vere e proprie e poi si possono ritrovare nei corsi d’acqua sottostanti le miniere. I ricercatori affermano che la situazione è molto grave ed è assolutamente necessario che le future miniere siano pianificate “con molta attenzione”. «Ciò è diventato particolarmente critico perché negli ultimi anni è fortemente aumentata la domanda di metalli che supporteranno la tecnologia delle batterie e dell’elettrificazione, soprattutto per quanto riguarda il litio e il rame», afferma Mark Macklin dell’università di Lincoln, che ha guidato la ricerca.

«Lo sappiamo da molto tempo. Ciò che è allarmante per me è l’eredità lasciata dalle miniere abbandonate, i cui inquinanti colpiscono ancora milioni di persone». I risultati, pubblicati sulla rivista Science, si basano su studi precedenti rispetto al gruppo di lavoro di Macklin, dati che erano stati rilasciati da governi, compagnie minerarie e organizzazioni come l’US Geological Survey. 
Ciò includeva l’ubicazione di ciascuna miniera, quale metallo veniva estratto e se era attiva o abbandonata. Tali studi avevano raccolto dati su come esattamente l’inquinamento derivante dalle attività minerarie si muove e si accumula nell’ambiente. Macklin ha spiegato che la maggior parte dei metalli provenienti dall’estrazione dei metalli è finito nei sedimenti che attualmente compongono i suoli. «È questo materiale  – eroso dalle discariche minerarie o nel terreno contaminato – che finisce nei canali fluviali o può essere depositato sulle pianure alluvionali».

Il lavoro ha permesso agli scienziati di produrre un modello computerizzato in grado di calcolare l’estensione dei canali fluviali e delle pianure alluvionali in tutto il mondo che sono inquinati dai rifiuti minerari, sia dell’attività mineraria attuale che di quella storica.

«Abbiamo mappato l’area che probabilmente sarà colpita e, combinando questi dati con i dati sulla popolazione, si vede che 23 milioni di persone nel mondo vivono su un terreno che è o che potrebbe diventare “contaminato”», ha affermato Chris Thomas, dell’università di Lincoln.

«Se quelle persone saranno colpite realmente da tale contaminazione, non possiamo affermarlo al cento per cento con questa ricerca, ma va assolutamente sottolineato come in molte di quelle aree c’è agricoltura e irrigazione che trasporta acqua potenzialmente pericolosa. È stato dimostrato infatti, che le colture coltivate su terreni contaminati o irrigate con acqua contaminata dai rifiuti minerari contengono elevate concentrazioni di metalli. Gli animali che pascolano nelle pianure alluvionali possono mangiare materiale vegetale e sedimenti contaminati, soprattutto dopo un’inondazione, quando si depositano sedimenti freschi ricchi di metalli», hanno spiegato Thomas.

«Con il cambiamento climatico e le inondazioni più frequenti», ha aggiunto il professor Macklin, «l’inquinamento ereditato dal passato è destinato ad estendersi e ad espandersi». Jamie Woodward dell’università di Manchester, che non è stato coinvolto nello studio, ha affermato che la ricerca ha evidenziato un aspetto poco conosciuto o di cui volutamente se ne parla poco, ossia la minaccia rappresentata dall’inquinamento silenzioso immagazzinato nelle pianure alluvionali. «Una buona parte del monitoraggio dei fiumi si concentra sull’acqua, mentre i veri» elementi nocivi «sono spesso associati ai sedimenti che trasportano i fiumi. Dobbiamo capire meglio come i contaminanti vengono trasportati nell’ambiente e dove vengono immagazzinati. Ciò ci consente di valutare i rischi e di mitigarli. Le praterie delle pianure alluvionali fortemente contaminate non dovrebbero essere utilizzate per il pascolo del bestiame, ad esempio». I ricercatori sottolineano nel loro studio che l’estrazione dei metalli rappresenta «la prima e più persistente forma di contaminazione ambientale del genere umano, tant’è che i rifiuti dell’attività mineraria iniziarono a contaminare i sistemi fluviali già 7.000 anni fa».

Addio Stazione Spaziale Internazionale

In this photo provided by NASA, the International Space Station, backdropped against black space above Earth's horizon, is seen from the Space Shuttle Discovery on March 19, 2001, after a new crew comprised of cosmonaut Yury Usachev and astronauts James Voss and Susan Helms began several months aboard the station. In the early days of the station, it was a cramped and humid, with just three rooms. It's much larger now, with six sleeping compartments, three toilets, a domed lookout and three high-tech labs. (NASA via AP)

La Nasa ha messo a disposizione un miliardo di dollari per far precipitare la Stazione Spaziale Internazionale sulla Terra, facendola bruciare nell’atmosfera. Questo avverrà nel 2031 quando il laboratorio spaziale raggiungerà un’età tale da non essere più considerata sicura a causa delle sollecitazioni di vario tipo cui è stata sottoposta dal 1998 in poi, anno in cui si iniziò la costruzione. Quel miliardo di dollari dovrebbe servire per costruire un “rimorchiatore spaziale” che una qualunque società privata voglia costruire con tale finalità. Non sarà la Nasa stessa dunque, a costruire lo shuttle che porterà alla morte la Iss, ma una società che si prenderà l’incarico di realizzarlo. 

A partire dal 2026 la Nasa lascerà che, lentamente, la ISS scenda di quota (oggi avviene già regolarmente, ma la Nasa con altrettanta regolarità la riporta alla quota di stazionamento, che si aggira attorno ai 400 chilometri dalla superficie terrestre).

Nel 2030 dovrebbe trovarsi a circa 280 chilometri di quota e qual punto gli ultimi astronauti a bordo lasceranno definitivamente la stazione e riporteranno a Terra tutto il materiale recuperabile e gli esperimenti in corso. Subito dopo arriverà il rimorchiatore che la Nasa ha chiamato USDV, da US Deorbit Vehicle, il quale dovrà essere in grado di andare ad agganciarsi alla ISS e la dovrà portare fino a 100-120 chilometri dalla superficie terrestre. Sarà poi l’atmosfera ad entrare in gioco frenando la struttura fino a farla precipitare nell’oceano Pacifico. L’impatto con l’atmosfera avverrà ad una velocità di circa 28mila chilometri all’ora e l’attrito con l’atmosfera farà fondere l’intera struttura. Se tutto andrà per il meglio il rientro avverrà sopra il “Point Nemo”, una regione dell’oceano Pacifico tra la Nuova Zelanda e il Sud America, spesso utilizzata come cimitero di resti di veicoli spaziali che in fase di rientro non bruciano completamente nell’atmosfera. Lì vi sono almeno resti di 260 satelliti. Le proposte per il rimorchiatore dovranno essere presentate entro il 17 novembre 2023 e il piano di ritorno a Terra della ISS inizierà tra circa tre anni. Un’operazione di questo tipo venne già realizzata dai sovietici, quando fecero precipitare a Terra la loro stazione spaziale Mir. Sarà un’operazione complessa, ma già sperimentata, dunque. Una grande area dell’oceano Pacifico dovrà essere libera da navi e aerei in volo, un’operazione che, seppur in toni minori, avviene già almeno una volta al mese, allorché precipita verso Terra qualche satellite ormai fuori uso.

La vera difficoltà dell’operazione sta nel trainare la ISS dai 280 chilometri di quota ai 75, perché la massa della stazione è tale da subire numerosi movimenti inattesi che la possono portarla fuori rotta. Sarà come trainare una gigantesca roulotte in autostrada durante una giornata molto ventosa: bisogna che l’auto abbia forza a sufficienza per mantenere in linea retta la roulotte.

Se lo shuttle dovesse perdere il controllo e la ISS iniziasse a cadere senza riscontri, diverrebbe difficile se non impossibile definire l’area dove alcuni pezzi che non bruceranno nell’atmosfera potranno cadere al suolo. Per tutto questo è stato calcolato che ci vorrà un rimorchiatore in grado di trasportare e bruciare circa otto tonnellate di propellente.

Ma questa enormità di propellente dovrà bruciare nell’arco di 15 minuti, il tempo utile per abbassare di quota la ISS da 280 a 120 chilometri, in quanto se si usasse più tempo ci si troverebbe fuori rotta. È per questo che l’USDV dovrà essere grande per contenere molto propellente e avere un motore molto potente e al momento non c’è veicolo con tali caratteristiche.

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