Ogni anno ad inizio primavera la natura adorna di colori il Giappone. I primi fiori di ciliegio si aprono a Okinawa nel sud del paese a febbraio e lo spettacolo raggiunge Tokyo dopo poche settimane. Durante il breve periodo in cui fiori si mostrano in tutto il loro splendore i giapponesi si radunano attorno alle tettoie o alle mura su cui crescono per l’hanami, ossia per celebrare la tradizione che porta le persone a  osservare la bellezza di quei fiori. Questa festa si svolge dall’ottavo secolo, ma se si analizzano i racconti storici si scopre un fenomeno interessante. Per circa mille anni da quando iniziò la tradizione, l’hanami si è verificato in modo costante sia a Tokyo che a Kyoto durante la seconda settimana di aprile. Ma dal 1830 questa scadenza ha iniziato a cambiare, anticipandosi sempre più, finché l’anno scorso la prima fioritura è iniziata il 26 marzo. C’è voluto poco a capire che lo spostamento della fioritura è stato causato dal cambiamento climatico. I fiori di ciliegio infatti, sbocciano in risposta ai primi giorni consecutivi di calore primaverile che anno dopo anno arrivano sempre prima. E quanto succede in Giappone è ormai regola in molte altre aree del pianeta. «La cadenza temporale nel mondo vegetale è fondamentale per avere una certa armonia nell’ecosistema, se si altera in breve tempo le conseguenze possono essere pesanti», spiega Maarten Kappelle del programma delle Nazioni Unite per l’ambiente a Nairobi in Kenya. Sebbene questi fenomeni siano evidenti da anni, sostiene Kappelle, ora siamo arrivati a un punto in cui gli ecosistemi sono stati completamente alterati e questo sta compromettendo non solo certi spettacoli della natura, ma anche la sicurezza alimentare.

Gli storici della natura sono stati da sempre affascinati dai ritmi della vita. Nel XVIII secolo ad esempio, Carlo Linneo, il botanico che ha ideato il modo con cui classifichiamo le specie, compilò diari molto precisi nei quali raccontava quando vari alberi che teneva sotto osservazione aprivano le loro foglie, fiorivano e fruttificavano.

Tutto cambia

Nel 2003, il biologo Richard Primack della Boston University, Massachusetts, in collaborazione con Abraham Miller-Rushing presso il National Park Service degli Stati Uniti, ha confrontato i dati storici con quanto stava accadendo circa 20 anni fa e giunse alla conclusione che le piante fiorivano in media sette giorni prima rispetto a 150 anni fa.

Questo anticipo della fioritura è continuata nel tempo e non c’è dubbio che la situazione è da mettere in relazione con l’aumento della temperatura che attorno alla città di Concord è aumentata di 2,4 gradi centigradi rispetto ai tempi di Thoreau.

A febbraio l’Unep ha pubblicato un importante lavoro nelle quale si dimostra 200 specie di piante e animali hanno cambiato i tempi di una o più fasi della loro vita, dalla riproduzione all'impollinazione, alla migrazione fino alla muta e alle letargo.

Per quanto riguarda le piante vi è un significativo anticipo delle fioriture di 2,8 giorni per decennio. Tuttavia elenco delle specie colpite comprende uccelli, mammiferi, insetti, pesci, crostacei e molluschi. Ma non è solo l’aumento della temperatura a creare tale situazione, in quanto risulta importante concausa il cambiamento delle precipitazioni.

Il caso dell’uccello

I ricercatori riportano un esempio molto significativo di interconnessione tra le specie. È il caso che lega la catena alimentare composta dall’uccello balia nera (Ficedula hypoleuca), legato ai bruchi e alle querce. Ogni primavera gli uccelli producono grandi nidiate che mangiano grandi quantità di bruchi.

Ma questi ultimi si producono in concomitanza con l’emergere del fogliame di quercia. Gli uccelli si sono quindi evoluti per riprodursi in modo che le uova si schiudano dando vita ai loro pulcini durante la massima abbondanza di bruchi. 

L’elemento a cui tutti fanno riferimento è la temperatura, che dà vita anche allo spiegamento delle foglie e alla schiusa del bruco. Con l’aumento della temperatura le tre specie hanno risposto in modo diverso. In alcune parti d’Europa infatti le uova si schiudono troppo tardi rispetto alla nascita dei bruchi e questo porta ad una moria elevatissima di pulcini. 

«Abbiamo ormai la certezza che questa alterazione delle catene alimentari sono un problema diffuso che potrebbe presagire la rottura anche di interi ecosistemi», afferma Kappelle. I disallineamenti sono particolarmente evidenti nell’Artico, dove il tasso di riscaldamento è molto più veloce della media globale. 

Le migrazioni compromesse

In Groenlandia, la migrazione annuale dei caribù verso i luoghi di alimentazione e parto estivi è innescata dalla durata del giorno, ma quando arrivano, l’esplosione di germogli nutrienti su cui facevano affidamento una volta se ne è già andata perché la neve si fonde prima rispetto al passato. Di conseguenza, il loro successo riproduttivo è diminuito di circa il 75 per cento.

Nell’Artico canadese, nel frattempo, anche le oche di Ross e le piccole oche delle nevi perdono la vegetazione di punta, il che sta riducendo il loro successo riproduttivo. Per aggiungere la beffa al danno, le uova d’oca sono diventate un’importante fonte di cibo per gli orsi polari costretti a lasciare il ghiaccio che si fonde sempre prima dove agivano per la caccia alle foche.

«Vediamo un'enorme disadattamento ecologico», dice Amanda Gallinat dell’Università del Wisconsin-Milwaukee. «Sta succedendo che le specie interagenti si muovano a velocità diverse o in direzioni diverse. E questo sta mettendo in serio pericolo la biodiversità di molti ambienti».

Gallinat sostiene tra l’altro che ad oggi si conosce ancora molto poco su questi disallineamenti, perché non è semplice seguire l’intera catena alimentare e capirne le conseguenze. La ricercatrice sostiene che è necessario che si facciano scendere in campo tutti gli strumenti analitici e le fonti di dati da interconnettere tra loro, dal telerilevamento fino alla “scienza dei cittadini”.

«È possibile infatti che in certe parti del pianeta alcuni consumatori siano in gradi di assorbire i colpi dei disallineamenti spostando la propria dieta», dice Gallinat. Ma cosa fare di fronte al reale pericolo? «Bisognerà trovare soluzioni ad hoc», sottolinea.  C’è la speranza che l’evoluzione possa andare in soccorso. 

«La selezione naturale infatti può talvolta generare nuovi adattamenti nell’arco di poche generazioni. Le cinciallegre, ad esempio, hanno avuto un problema simile alla balia nera in quanto le loro uova negli ultimi anni si schiudono troppo presto per catturare il bruco di punta. Ma alcune popolazioni di cinciallegra nel Regno Unito, nella Repubblica Ceca e in Belgio hanno già reimpostato i tempi della loro covata per tornare in sincronia con il boom dei bruchi, probabilmente attraverso l'adattamento», spiega Visser. 

Ma ovviamente non si può fare affidamento unicamente sulla natura. I meccanismi di adattamento infatti, spesso coinvolgono più geni interagenti e tali sistemi sono lenti ad evolversi. Inoltre, il cambiamento climatico sta superando in velocità qualsiasi cosa l’evoluzione possa ottenere. Sta accadendo così velocemente che «molte specie vegetali e animali non sono in grado di adattarsi in modo tempestivo alle nuove situazioni», afferma Kappelle. 

Pozzi di carbonio

Gli oceani sono uno dei pozzi di carbonio più importanti del nostro pianeta, il quale, attualmente trattiene circa 39mila gigatonnellate di anidride carbonica, circa 50 volte di più di quanto sta circolando nell'atmosfera in questo momento.

Tuttavia, non è possibile fare affidamento su questa cattura e stoccaggio del carbonio per risolvere il nostro problema di crisi climatica. Un nuovo studio, tra l’altro, pubblicato su Global Biogeochemical Cycles, suggerisce che l’oceano profondo non è in grado di contenere tanto carbonio quanto si pensava in precedenza.

Lo studio è partito dall’osservazione del ciclo del carbonio mentre viene inglobato da piante microscopiche che vivono vicino alla superficie dell'acqua, le quali, poi alla loro morte, si depositano sul fondo del mare. Sulla base di nuovi modelli di tracciamento di tale materiale, risulta che questo processo trattiene meno carbonio a lungo termine rispetto alle stime precedenti.

«In questo studio, dimostriamo che la longevità dello stoccaggio del carbonio nelle profondità oceaniche può essere notevolmente inferiore a quanto si presume generalmente», dice Chelsey Baker , analista di modelli biogeochimici oceanici del National Oceanography Center nel Regno Unito.

Il carbonio deve essere rinchiuso per cento anni per essere su una scala temporale rilevante per il clima. Fino ad ora, si pensava che le vie di circolazione dell’oceano profondo avrebbero mantenuto ogni frammento di carbonio catturato che ha raggiunto una profondità di mille metri nascosto dal mondo per diversi millenni. Ma le simulazioni utilizzate dai ricercatori hanno scoperto che solo una media del 66 per cento del carbonio che raggiunge una profondità di mille metri nell’oceano Atlantico settentrionale verrebbe immagazzinato per un secolo o più.

Sebbene l’efficienza della cattura della CO2 variasse in base a fattori tra cui le correnti oceaniche e la temperatura, il carbonio doveva raggiungere una profondità di duemila metri per essere quasi certo di rimanere immagazzinato per più di centro anni: a quella profondità, il 94 percento di il carbonio rimane intrappolato per un secolo o più. «Questi risultati hanno implicazioni per le stime delle previsioni future del sequestro del carbonio da parte dei modelli biogeochimici globali, che potrebbero sopravvalutare le potenzialità del mare come sottrattore di carbonio dell’atmosfera».

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