I dati sono ormai noti a tutti: il 2023 è stato l’anno più caldo mai registrato sulla Terra da quando l’uomo annota le temperature. Ha battuto di gran lunga il precedente record del 2016. L’anno scorso è stato anche il primo in cui il mondo si è avvicinato di molto alla soglia del grado e mezzo in più rispetto alla media preindustriale (1850-1900). Abbiamo sfiorato quel limite che gli scienziati avevano esortato a non superare. Ma la situazione non è destinata a migliorare.

Anzi, secondo alcuni ricercatori, tra cui l’ex climatologo della Nasa James Hansen, proprio nel 2024 l’umanità varcherà per la prima volta quella soglia. Dato che questa prospettiva era stata dipinta dagli esperti come qualcosa di “terribile” e ora sta per diventare realtà condivisa, cosa dobbiamo aspettarci?

Un assaggio

Va subito detto che quando si supera il valore di 1,5°C in più rispetto al periodo di riferimento, anche per qualche mese, non lo si fa per forza in modo definitivo. Una serie di fattori, infatti, può riportare i valori al di sotto di quell’asticella per alcuni anni successivi. E quindi la situazione non va immediatamente fuori controllo.

Lo diventa se la temperatura dell’atmosfera terrestre rimane costantemente più calda di 1,5°C. Per il 2024 è probabile che, dopo aver raggiunto la temperatura fatidica, questa scenda nuovamente una volta che l’attuale El Niño (una fase calda in un ciclo naturale focalizzato sull’oceano Pacifico equatoriale) si sarà dissipato. Quello che vivremo quest’anno potrebbe però essere un assaggio di una situazione destinata a ripetersi ancora.

Le conseguenze

Ma cosa potrebbe succedere nel caso in cui la situazione diventasse permanente? Partiamo dalle barriere coralline tropicali. Si ritiene che le forme complesse che costruiscono in acque poco profonde attorno all’Equatore terrestre ospitino un insieme di specie tra i più numerosi rispetto ad altri ecosistemi.

«I coralli si sono adattati a vivere in un intervallo di temperature specifico, quindi, quando diventano troppo calde per un periodo prolungato, tendono a sbiancare, perdendo le alghe colorate che vivono nei loro tessuti e che si nutrono attraverso la fotosintesi. Alla fine potrebbero morire», dicono i biologi dei coralli Adele Dixon e Maria Beger (Università di Leeds) e i fisici Peter Kalmus (Nasa) e Scott F. Heron (James Cook University).

Il cambiamento climatico ha già aumentato la frequenza di queste ondate di caldo marino. In un mondo reso più caldo di 1,5°C, secondo la ricerca di Dixon, il 99 per cento delle barriere coralline verrà esposto a una temperatura intollerabile, mettendo a rischio il cibo e il reddito di circa un miliardo di persone, per non parlare della biodiversità.

Se il riscaldamento globale dovesse crescere ancora di più, la situazione potrebbe diventare devastante. Spiega il biologo dell’Ucl, ed esperto in biodiversità, Alex Pigot: «Abbiamo scoperto che limitare il riscaldamento globale a 1,5°C porterebbe comunque il 15 per cento delle specie al rischio di perdere improvvisamente almeno un terzo della loro attuale distribuzione geografica. Tuttavia, questo valore raddoppia fino al 30 per cento delle specie se dovessimo arrivare a 2,5°C di riscaldamento».

Ma non sarebbe solo la natura che ci circonda ad avere gravissimi problemi. Al di sopra di 1,5°C, infatti, potrebbero esserci ondate di calore così intense da sfidare la capacità del corpo umano di raffreddarsi. Se l’umidità fosse elevata e le temperature diurne toccassero o superassero i 35°C, si arriverebbe al punto in cui l’aria è troppo calda e umida perché la sudorazione possa rinfrescare l’uomo.

Sei anni

Tom Matthews (Università di Loughborough) e Colin Raymond (California Institute of Technology) hanno studiato i dati di singole stazioni meteorologiche presenti un po’ in tutto il mondo e hanno scoperto che molti siti si stanno già avvicinando molto rapidamente alla soglia letale di temperatura e umidità. «Il clima sta dirigendosi in un territorio dove la nostra fisiologia non può seguirlo».

L’estinzione delle specie attuali e il caldo mortale diventano più probabili dopo 1,5°C. Lo stesso vale per le tempeste catastrofiche e il collasso delle calotte glaciali. Per avere la possibilità di evitare questi orrori, dobbiamo eliminare le emissioni di gas serra che riscaldano la Terra, e ciò significa eliminare rapidamente carbone, petrolio e gas, che rappresentano l’ 80 per cento del consumo energetico in tutto il mondo. Quanto velocemente?

Secondo l’ultima stima, pubblicata in ottobre, davvero molto velocemente. «Se l’umanità vuole avere una probabilità del 50 per cento di limitare il riscaldamento globale a 1,5°C, possiamo emettere solo altre 250 gigatonnellate (miliardi di tonnellate) di CO2», afferma lo scienziato del clima e dell’atmosfera Chris Smith dell’Università di Leeds con Robin Lambol dell’Imperial College di Londra. «Questo dà effettivamente al mondo solo sei/sette anni per arrivare a non produrre più emissioni a effetto serra».

Una galassia senza stelle

È stato scoperto un enorme ammasso di “un qualcosa”, chiamato J0613+52, a circa 270 milioni di anni luce di distanza dalla Terra. Assomiglia a una galassia, ma sembra non avere stelle di sorta, almeno nessuna che possa essere osservata da Terra.

Quell’oggetto è solo una foschia composta da un tipo di gas che si trova tra le stelle delle galassie normali, un addensato che sembra vagare senza alcuna evoluzione. Per intenderci, se togliessimo le stelle a una galassia a spirale come la Via Lattea o Andromeda, quel che rimarrebbe sarebbe del tutto simile a J0613+52.

Secondo un gruppo di astronomi guidato dall’astrofisica Karen O’Neil dell’Osservatorio Green Bank, potrebbe trattarsi della prima scoperta di una galassia primordiale nell’Universo vicino, una galassia composta principalmente da gas formatosi all’inizio dei tempi. La scoperta è stata fatta per caso.

«L’antenna dell’Osservatorio è stata accidentalmente puntata verso coordinate sbagliate, e osservando in quel punto è venuto alla luce questo oggetto», spiega O’Neil. «È una galassia composta solo di gas e non ha stelle visibili. Non è escluso che le stelle possano essere lì, semplicemente non possiamo vederle».

I ricercatori hanno trovato la presenza del gas idrogeno, come ci si aspetterebbe di osservarlo in una galassia a spirale come la nostra. Ma nei dati radio di Green Bank non c’è alcun segno di stelle. L’oggetto sembra essere isolato e indisturbato, e sembra non aver sperimentato interazioni gravitazionali nel corso di 13,8 miliardi di anni che avrebbero potuto far sì che il gas si raggrumasse a formare una significativa popolazione stellare. Ciò rende J0613+52 un oggetto diverso da qualsiasi altro mai visto prima. «Quello che sappiamo è che si tratta di una galassia incredibilmente ricca di gas», ha detto l’astronoma. «Forse il gas presente è troppo diffuso e non riesce a raggrumarsi per dar vita a stelle ed è troppo lontano da altre galassie perché queste possano contribuire a innescare la formazione stellare attraverso eventuali incontri».

Microplastiche in bottiglia

Una singola bottiglia d’acqua da 1 litro potrebbe contenere 240mila microscopiche particelle di plastica. Le implicazioni sulla salute derivanti dall’ingestione di plastica con dimensioni estremamente piccole non sono chiare, ma le prime ricerche suggeriscono che queste particelle possano viaggiare in vari organi del corpo.

Milioni di tonnellate di plastica vengono prodotti ogni anno come risultato delle attività umane, dall’industria della pesca ai rifiuti domestici. La maggior parte di tutto ciò è plastica “invisibile” in quanto costituito da “microplastiche”, che misurano tra 1 micrometro e 5 millimetri di diametro.

«Precedenti ricerche avevano dimostrato che le microplastiche possono agire come “trasportatori”, ossia trasportano sostanze inquinanti e agenti patogeni», spiega Beizhan Yan della Columbia University di New York. I frammenti di plastica che misurano meno di 1 micrometro sono noti come nanoplastiche e potrebbero presentare una preoccupazione ancora maggiore rispetto alle microplastiche.

«Le loro dimensioni più piccole permettono loro di penetrare nel rivestimento intestinale del corpo, nella placenta e persino nella barriera emato-encefalica», dice Yan. Le dimensioni delle nanoplastiche le rendono oltremodo difficili da rilevare, ma ora Yan e i suoi colleghi hanno sviluppato una tecnica innovativa in grado di farlo.

I ricercatori hanno preso sei bottiglie da 1 litro di acqua da tre supermercati statunitensi e le hanno esposte a raggi laser che vibravano quando incontravano un frammento di plastica. Ebbene, con questo sistema hanno scoperto che, in media, ogni bottiglia conteneva circa 240mila particelle di plastica, fino a 100 volte di più rispetto a quanto rilevato da studi precedenti. L’entità delle vibrazioni dei laser permetteva di risalire alle dimensioni della plastica presente nell’acqua, e così si è potuto determinare che circa il 90 per cento erano nanoplastiche.

Di queste è stato possibile identificare la composizione chimica di solo il 10 per cento e tra gli elementi principali è emersa la presenza di polietilene tereftalato (Pet), di cui erano fatte le bottiglie.

In futuro, i ricercatori sperano di affinare la loro tecnica per identificare il maggior numero possibile di nanoplastiche nell’acqua in bottiglia. Sherri Mason della Pennsylvania State University, ha descritto la ricerca come «uno studio davvero impressionante e innovativo». Sottolinea: «Sappiamo che la plastica rilascia particelle in modo molto simile a quello con cui le persone perdono cellule della pelle, ma essere in grado di quantificare e identificare queste particelle di plastica fino alla gamma della nanoplastica è fondamentale per far avanzare la nostra comprensione circa le implicazioni sulla salute umana».

© Riproduzione riservata