Si chiama Enea-RegEsm, da Regional Earth system model, ed è in grado di simulare le dinamiche atmosfera-oceano in relazione con i processi fisici e biologici che avvengono sulla superficie terrestre e che riguarda nel modo specifico il nostro mar Mediterraneo. Spiega Gianmaria Sannino, responsabile del laboratorio di modellistica climatica e impatti dell’Enea: «Gli oceani e i mari giocano un ruolo fondamentale nel sistema climatico del nostro pianeta attraverso il sequestro di grandi quantità di anidride carbonica e di calore prodotto dall’effetto serra di origine antropica. Questi processi, a loro volta, hanno un notevole impatto sullo stato degli oceani e causano, rispettivamente, l’acidificazione delle acque e l’aumento della loro temperatura e del loro volume, con tutte le conseguenze che ne derivano sugli ecosistemi marini e le popolazioni che vivono lungo le coste». Da qui l’importanza di avere un modello che riesca a spiegare questi concatenamenti di elementi. Nello studio del clima e del cambiamento climatico, i ricercatori di tutto il mondo ricorrono agli Earth system model, ovvero a modelli che descrivono il comportamento delle diverse componenti del sistema climatico globale e delle loro interazioni. «Infatti è imprescindibile considerare la Terra come un unico complesso sistema dinamico – continua Sannino – dove superficie terrestre, oceani e atmosfera interagiscono tra loro attraverso molteplici forme di retroazioni».

I ricercatori dell’Enea hanno sviluppato un Earth system model regionale per il Mediterraneo che simula le dinamiche dell’atmosfera e del mare e i processi fisici e biologici che avvengono sulla superficie terrestre. Ma perché non funzionano i modelli già esistenti per il nostro Mediterraneo? «Il motivo è da ricercare nella complessità geomorfologica del bacino Mediterraneo, dove gli attuali modelli matematici globali non sono in grado di riprodurre correttamente i processi fisici e le dinamiche che avvengono in quest’area del nostro pianeta così densamente popolata», spiega Alessandro Anav, ricercatore del laboratorio di modellistica climatica e impatti dell’Enea. Questo nuovo modello, a differenza di altri già esistenti, può usare due differenti simulazioni delle dinamiche dell’atmosfera. Ciò consente di scegliere quale modello utilizzare in base alla complessità della simulazione e alle prestazioni del modello stesso, queste ultime intese sia in termini di velocità di calcolo sia di accuratezza degli output forniti.

E dunque si possono avere ricostruzioni più o meno definite in base alle finalità di uno studio che si vuol realizzare. Grazie al supercalcolatore Cresco6 dell’Enea, uno dei più potenti a disposizione in Italia per il calcolo scientifico, i ricercatori hanno già realizzato diverse simulazioni, riproducendo il clima della regione euro-mediterranea e la dinamica del mar Mediterraneo negli ultimi 30 anni. Vista l’affidabilità i ricercatori sono attualmente impegnati nella generazione delle proiezioni climatiche utilizzando i dati climatici provenienti dagli stessi modelli globali usati dall’Ipcc per simulare l’evoluzione del clima secondo differenti scenari socio-economici per il prossimo futuro.

Non c’è solo l’aria

La Fao (Food and agriculture organization of the United Nations) e l’Unep (United Nations environment programme) hanno rilasciato un importante lavoro dal titolo Global Assessment of Soil Pollution in cui si mette in evidenza il grave problema dell’inquinamento dei suoli.

Si legge chiaramente come il peggioramento dell’inquinamento del suolo e la crescita dei rifiuti minacciano il futuro della produzione alimentare globale, della salute umana e dell’ambiente, problematiche che richiedono una risposta globale urgente. L’inquinamento del suolo attraversa tutti i confini e compromette il cibo e l’acqua che arriva sulle nostre tavole e l’aria che respiriamo.

Le principali fonti di inquinamento sono le più diverse e vanno dalle attività industriali e minerarie ai rifiuti urbani e industriali, dall’estrazione e lavorazione dei combustibili fossili fino alle pratiche agricole e ai trasporti non sostenibili. La ricerca dimostra come tra il 2000 e il 2017, l’uso di pesticidi sia aumentato del 75 per cento e nel 2018 siano stati utilizzati circa 109 milioni di tonnellate di fertilizzanti a base di azoto, molto del quale finisce nel suolo senza essere utilizzato dalle colture e viene trasportato in mare dalle acque sotterranee e superficiali.

Dall’inizio dell’Undicesimo secolo, la produzione annua mondiale di prodotti chimici industriali è raddoppiata a circa 2,3 miliardi di tonnellate e si prevede che aumenterà dell’85 per cento entro il 2030. È in aumento anche la produzione di rifiuti: il mondo attualmente produce 2 miliardi di tonnellate di rifiuti all’anno e si prevede che, a causa della crescita della popolazione e dell’urbanizzazione, saliranno a 3,4 miliardi di tonnellate entro il 2050.

Deforestazione e oro

Se negli ultimi mesi si è comperato dell’oro originale (ossia non prodotto dal riciclo di quello già in circolazione) è possibile che la sua provenienza arrivi da operazioni minerarie illegali ai tropici, con l’oro che è emerso dal sottosuolo dopo che una parte di foresta pluviale è stata sacrificata. È quanto affermano i ricercatori dell’Università del Wisconsin-Madison. I ricercatori si sono concentrati in particolar modo sugli effetti della deforestazione che sta avvenendo in un’area particolarmente sensibile della foresta amazzonica peruviana, la riserva nazionale di Tambopata.

I risultati sono stati pubblicati su Environmental Research Letters. Lo studio si è concentrato su quel che è avvenuto tra il 2001 e il 2014. L’estrazione di oro è cresciuta di pari passo con la domanda portando le strade per l’accesso alle miniere sempre più nel cuore della foresta.

Che inevitabilmente ha portato a una deforestazione che in 13 anni circa è stata di oltre 400 chilometri quadrati, circa un ottavo della superficie della Valle d’Aosta. La deforestazione si rende “necessaria” perché in quella regione l’oro si trova nel suoli al di sotto delle radici delle piante.

Spiega Nora Álvarez-Berríos, dell’International Institute of Tropical Forestry tra le autrici dello studio: «Si tratta di operazioni molto distruttive, praticamente fatte al di fuori della legge e in modo “artigianale”. Per prima cosa è necessario che intervenga il governo per formalizzarne l’attività. Solo così si potrebbe gestire gli impatti di questa attività e proteggere le aree più sensibili a livello ecologico».

In realtà, sostengono i ricercatori, il governo peruviano ha rinunciato a fermare la corsa all’oro, perché la ritiene una strada per dare un minimo di risorse ai più poveri, ma non sembra che esistano lavori e ricerche per verificare quali saranno le ricadute ambientali.

L’uomo in America 30mila anni fa

I libri di storia insegnano che l’uomo arrivò nelle Americhe in un periodo compreso tra 18mila e 13mila anni fa, passando dall’Asia all’attuale Alaska attraverso lo stretto di Bering. Ma ora una nuova scoperta del tutto inaspettata da parte di ricercatori della Iowa State University suggerisce che i primi esseri umani potrebbero essere arrivati in Nord America più di 30mila anni fa, quasi 20mila anni prima della data ufficiale. Spiega lo studioso Andrew Somerville: «La scoperta è stata fatta mentre studiavamo le origini dell'agricoltura nella valle di Tehuacan, in Messico. Come parte di quel lavoro, volevamo stabilire una data per la prima occupazione umana della grotta di Coxcatlan che si trova nella valle».

Lo studio è partito dall’analisi al radiocarbonio di diverse ossa di coniglio e cervo che erano state raccolte dalla grotta negli anni Sessanta. I risultati hanno improvvisamente portato Somerville e i suoi colleghi a lasciare il progetto in atto per tuffarsi in una nuova direzione. I campioni di ossa presenti alla base della grotta infatti, hanno detto che quegli animali vennero uccisi tra 33.448 e 28.279 anni fa. È praticamente certo che quegli animali vennero portati nella grotta da uomini, perché difficilmente sarebbero potuti finire là dentro in così gran numero e morire all’interno della grotta stessa senza motivo apparente. E non ci sono segni di presenza di animali predatori.

I risultati sono pubblicati sulla rivista accademica Latin American Antiquity. Ovviamente gli stessi ricercatori vogliono avere la certezza assoluta che insieme a quei conigli e a quei cervi vi fossero anche uomini e per questo Somerville e Matthew Hill, collega nella ricerca, stanno esaminando più da vicino i campioni ossei per cercare prove di segni di taglio – che indicherebbero che le ossa furono macellate da uno strumento di pietra tenuto tra le mani di uomini – o “impronte termiche”, che suggerirebbero il fatto che le ossa vennero bollite o arrostite sul fuoco. C’è poi un’altra strada: quella dei reperti lapidei. «Determinare se i reperti in pietra che sono stati trovati lì attorno sono prodotti di fabbricazione umana o semplici pietre scheggiate naturalmente sarebbe un altro modo per arrivare a dare una risposta al problema», ha detto Somerville. «Se riuscissimo a trovare prove evidenti che gli esseri umani hanno effettivamente creato e utilizzato tali strumenti, non ci sarebbero più dubbi che insieme agli animali vi erano anche degli uomini». E si dovrebbero riscrivere i libri di storia.

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