La tempesta Vaia è stata il più esteso e traumatico evento causato dal cambiamento climatico sul territorio italiano. L’energia emotiva e mediatica del secondo anniversario, che cade oggi, è giustamente dedicata alle storie di recupero del legno e di rinascita delle valli sferzate dal vento a oltre 200 chilometri orari il 29 ottobre 2018.

Quella sera, in poche ore, furono abbattuti più di otto milioni di metri cubi di alberi, una superficie forestale di 42mila ettari, fu colpito tutto il nord-est, dalla Lombardia al Friuli-Venezia Giulia. In termini produttivi, i tronchi abbattuti avrebbero potuto riempire mezzo milione di tir, fu un colpo durissimo per l’economia forestale italiana.

I due anni che sono appena trascorsi corrispondevano alla finestra di tempo utile per raccogliere il legname da terra prima che iniziasse a marcire, quindi questo è innanzitutto il giorno per celebrare storie piccole o grandi di impegno e recupero effettuato in condizioni già naturalmente complesse, con l’ulteriore ostacolo del lockdown di primavera.

Medicazioni post traumatiche

Ci sono i produttori di tavole armoniche, come la Ciresa di Tesero (Trento), che hanno salvato uno a uno i rarissimi abeti di risonanza. Ci sono i ragazzi che hanno inventato Vaia Cube, l’amplificatore per smartphone prodotto col legno degli schianti, gli alberi caduti a terra.

C’è il progetto nato da uno spin off dell’Università di Padova, la piattaforma di crowdfunding chiamata Wow Nature, che ha permesso di adottare a distanza alberi da piantare nelle aree colpite.

C’è l’edificio in costruzione a Rovereto, nell’area ex Marangoni Meccanica, che sarà il più alto palazzo di legno in Italia, tutto fatto col materiale di Vaia. Sono medicazioni post-traumatiche, hanno un valore simbolico che va al di là dell’impatto reale.

Eventi senza precedenti

Poi però c’è la vera domanda che Vaia ci ha posto due anni fa: l’Italia è pronta al riscaldamento globale, a eventi che, come quella tempesta, sono senza precedenti? Perché era senza precedenti la forza dello scirocco che soffiava da sud verso il Triveneto, perché è senza precedenti la temperatura del Mediterraneo, che fa da serbatoio di energia per il vento.

Quelle raffiche erano qualcosa di cui non c’erano né memoria né conoscenza, perché eravamo abituati a vederle arrivare da nord, schermate dalle Alpi. Tempeste delle proporzioni di Vaia non sono un inedito in Europa, c’erano state Vivian (1990) e Lothar (1999), ma soffiavano da nord, erano causate da fronti atlantici e si erano fermate al di là delle montagne.

Il nostro futuro invece sarà fatto di turbolenze mediterranee, le abbiamo sperimentate anche quest’anno con le alluvioni di inizio ottobre. E ad accoglierle e subirle c’è un territorio sempre più forestale, un pezzo della questione ancora rimosso in Italia, nonostante l’emozione causata da Vaia.

Boschi in movimento

Secondo l’ultimo Inventario nazionale delle foreste, la superficie è arrivata a 11,4 milioni di ettari, ormai ben più di un terzo di quella nazionale. I boschi sono dinamici, in movimento, la loro crescita è stata di 320mila ettari solo negli ultimi cinque anni. «La tempesta ha riportato la discussione su questi temi», mi aveva detto Giovanni Giovannini, dirigente del Servizio foreste e fauna della provincia di Trento accompagnandomi sui luoghi del disastro. «A chi non li conosce bene, i boschi paiono fortissimi, eterni, sembra che siano lì da sempre, ma il vento ci ha mostrato quanto sono effimeri». Non sono lì da sempre, né saranno per sempre nelle forme che siamo abituati a conoscere.

La grande riforestazione italiana è un patrimonio che si è creato senza programmazione, non è figlia di un piano ecologico ma dell’abbandono del territorio e della fine della civiltà agricola. In Italia il tema ha i problemi e le discontinuità di tutte le materie regionali, solo dal 2018 abbiamo un Testo unico per le foreste, mentre la Strategia nazionale è ancora impelagata in una lentissima fase di scrittura e riscrittura. Intorno c’è un ritardo culturale nell’accettare che in Italia non ci sono foreste primarie, ma sono tutte plasmate dall’uomo e dalla storia, hanno bisogno di gestione e protezione, sono una responsabilità da assumersi.

Oggi solo il 9 per cento della superficie nazionale è tutelata da una certificazione di gestione sostenibile, secondo i protocolli internazionali Pefc (Programme for the Endorsement of Forest Certification) e Fsc (Forest Stewardship Council).

Far ricrescere gli alberi

Cambiamento climatico e gestione forestale incidono direttamente anche sul futuro delle aree colpite da Vaia. «La prima cosa da capire è che nessun bosco è stato distrutto dalla tempesta», spiega Mario Pividori, docente di Ecologia forestale all’Università di Padova. «Un bosco viene distrutto quando si mettono un’autostrada o un campo al suo posto. I boschi sono ancora lì e Vaia fa parte della loro storia naturale». Ora che buona parte (circa il 60 per cento) del legname che si poteva recuperare è stato raccolto, il tema del presente e del futuro, dal punto di vista forestale, è come far ricrescere gli alberi.

È una questione di tempi, investimenti ed economia, che sembrano tutti spingere ad accelerare il processo. È una scelta che comporta il rischio di creare boschi artificiali, come quelli abbattuti da Vaia, che erano stati in gran parte piantati dopo la distruzione della Grande guerra. «Il problema dei boschi artificiali, monocolturali, con alberi della stessa età e della stessa altezza, è che sono meno resilienti e resistenti», spiega Pividori.

È una questione che diventa cruciale con la consapevolezza che di tempeste Vaia ne arriveranno ancora. «Un ecosistema di questo tipo provocherà senza dubbio altri problemi, nei primi anni sarà facile vedere i vantaggi dei rimboschimenti artificiali, che ci fanno riavere le foreste di prima come erano prima, ma su un orizzonte temporale lungo lasciar fare alla natura e ai suoi tempi porterà più stabilità. Con la rinnovazione naturale il bosco mette le piante giuste al posto giusto, con quella artificiale mettiamo solo quelle che servono a noi».

Intanto c’è un’altra minaccia legata al cambiamento del clima. La paura più immediata del dopo Vaia è lunga cinque millimetri e si chiama bostrico. È un insetto che secca gli alberi deponendo decine di uova sotto la corteccia, spostandosi di pianta in pianta come un contagio. Il bostrico attacca gli alberi stressati, se al trauma dovuto a una devastazione naturale come quella del vento si uniscono annate particolarmente calde, l’effetto rischia di essere peggiore di quello di Vaia stessa.

«Nelle aree colpite dalle grandi tempeste europee il bostrico nel lungo termine ha ucciso più alberi del vento stesso», ricorda Davide Pettenella, esperto di Politiche ed economia forestale dell’Università di Padova. In questi due anni non ci sono stati problemi sostanziali, ma di solito il picco arriva tra il secondo e il terzo anno e quest’autunno il bostrico è comparso in numeri preoccupanti in diverse aree colpite dalla tempesta, dal Friuli al Trentino. L’augurio che oggi si fanno tutti quelli che conoscono le foreste, nel Triveneto, è che questo sia un inverno particolarmente freddo.

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