Il 32 per cento dei giovani italiani sotto i 45 anni ha paura di fare figli a causa della crisi climatica. Il 69 per cento pensa che il destino dell'umanità sia “inevitabilmente compromesso”. Il 60 per cento non riesce a controllare le preoccupazioni ambientali che invadono i pensieri quotidiani. Il 61 per cento prova sensi di colpa quando non riesce ad agire in modo sostenibile, nonostante senta già una forte responsabilità personale nell'essere sostenibile.

Eppure, mentre questa generazione vive un'ansia esistenziale senza precedenti, la Commissione europea certifica che oltre il 50 per cento delle dichiarazioni ecologiche delle aziende sono “prive di fondamento o ingannevoli”.

E' il paradosso di un'epoca in cui le promesse verdi sono diventate l'arma che ferisce chi dovrebbe essere il motore del cambiamento. Chi ascolta davvero questa generazione? E cosa succede quando il marketing sostenibile diventa il principale ostacolo alla sostenibilità?

L'anatomia di un disagio generazionale

«L'ecoansia è una manifestazione di un problema più profondo: la disconnessione dalla natura», spiega Giuseppe Barbiero, docente di biologia ed ecopsicologia all’università della Valle d'Aosta. «Oltre il 72 per cento dei bambini e adolescenti in Italia vive in ambienti urbanizzati, ma anche il restante 28 per cento, che abita in ambienti rurali, ha un contatto sporadico con la natura».

Secondo l'ultimo sondaggio Unicef in collaborazione con Youtrend, solo il 24 per cento degli italiani ha sentito parlare del termine “ecoansia”, ma il 22 per cento presenta sintomi compatibili una volta spiegato il concetto. Una parte significativa della popolazione riporta segnali psicosomatici e pensieri ossessivi su disastri ambientali, con percentuali in crescita tra gli under 35.

«L'ecoansia ti paralizza quando sei da solo, vedi davanti a te questi problemi giganteschi e non ti senti in grado di influire minimamente su queste dinamiche», racconta Luca Sardo, attivista di Fridays for future ed ex portavoce nazionale del movimento nel 2022. «È stato quello che mi ha spinto a impegnarmi così tanto. Il messaggio di Greta Thunberg mi aveva scosso nel profondo».

Molti giovani modificano i propri stili di vita: dalla raccolta differenziata alla riduzione di carne, trasporti e acquisti secondhand. Ma l’impegno individuale non basta a placare l’ansia: anzi, amplifica la frustrazione per l’inazione altrui.

Il grande inganno verde

Mentre le nuove generazioni sviluppano quella che gli psicologi chiamano “impotenza appresa” (la convinzione di non poter influire sui grandi processi), il mercato risponde con una strategia tanto sofisticata quanto cinica: il greenwashing su scala industriale.

I dati della Commissione europea rivelano che nel 37 per cento dei casi, le dichiarazioni sui siti web europei contengono formulazioni vaghe e generiche (“sostenibile”, “naturale”, “eco-friendly”) senza alcuna prova. «È difficilissimo capire quali aziende sono impegnate davvero nella transizione ecologica e quali invece fanno finta», conferma Sardo. «I claim sostenibili di società petrolifere come Eni o Shell sono chiaramente identificabili come greenwashing perché queste multinazionali investono frazioni del loro capitale nella transizione ecologica e gran parte nella continua estrazione di combustibili fossili. In altri casi la differenza è più sottile».

I casi emblematici non mancano e rivelano un pattern sistemico. Eni è stata sanzionata dall’Agcm per pubblicità ingannevole sul diesel “a basso impatto ambientale”, Shein ha promosso collezioni circolari con dati parziali.

«Più aumenta la consapevolezza più aumenta l'ansia, e sapere che stiamo andando in una direzione sbagliata e non si stanno portando avanti delle politiche adeguate all'urgenza fa crescere l'ecoansia», analizza Giacomo Zattini, co-portavoce nazionale di FFF nel 2023 e osservatore delegato a Cop26 e 27.

L'antidoto dell'azione collettiva

Il danno maggiore del greenwashing è psicologico: alimenta sfiducia anche verso le aziende realmente sostenibili. Il report Greenwashing 2025 mostra come solo una minoranza reagisca attivamente agli inganni, mentre molti interiorizzano il fallimento e sviluppano rassegnazione.

Eppure, «l'attivismo è fondamentale per affrontare l'ecoansia», sostiene Sardo. «Far parte di un movimento ti permette di non sentirti più solo, di sentire che ci sono altre persone che hanno la tua stessa paura e si impegnano con te per cambiare il mondo partendo dal tuo contesto locale».

Zattini conferma l'effetto terapeutico dell'azione: «Uno dei modi per mitigare l'ansia può essere quello di sentirsi che si sta agendo in qualche modo e la propria azione, anche se piccola, sta facendo muovere le cose».

Giuseppe Barbiero propone un’altra via: l’ecologia affettiva, che riavvicina alla natura sul piano cognitivo ed emotivo. L'approccio non è solo intellettuale: «L'ecologia affettiva cerca di favorire la riconnessione con la natura, agendo sia sul piano cognitivo, per comprendere il funzionamento degli ecosistemi, che sul piano affettivo, per ristabilire la connessione che è andata perduta». In Valle d'Aosta, Barbiero ha sviluppato un metodo concreto: «All'università abbiamo un insegnamento di Ecopsicologia che si svolge quasi interamente in natura».

Il paradosso della comunicazione climatica

Come si comunica allora l'urgenza senza alimentare l'ansia? Zattini riflette: «Una comunicazione climatica deve informare le persone sulla realtà; uno degli slogan dei movimenti per il clima è “dite la verità” ai media e alla politica, ma bisogna anche dare delle soluzioni, creare consapevolezza non solo dei problemi».

Anche fenomeni negativi come greenwashing e negazionismo possono essere reinterpretati in chiave positiva. «Comunicare la gravità può anche essere un effetto positivo, sintomo di un cambiamento in corso. Vuol dire che le aziende trovano necessario dire che stanno agendo per il clima, che non stanno ignorando il problema. Per adesso fanno finta, ma è un passo».

Una nuova alleanza per il futuro

L'ecoansia non è un problema psicologico individuale. È sintomo di una crisi di fiducia sistemica che attraversa il rapporto tra cittadini e istituzioni, tra consumatori e aziende. La stessa direttiva Green Claims dell'Unione europea, che prevedeva sanzioni fino al 4 per cento del fatturato per dichiarazioni ambientali ingannevoli, rischia di essere ritirata.

Lo scorso giovedì 20 giugno, il portavoce della Commissione europea per l'Ambiente ha dichiarato l'intenzione di ritirare la direttiva. Ed è proprio l’Italia ad aver cambiato posizione, impedendo il raggiungimento della maggioranza sul mandato. La decisione arriva proprio nella fase finale, sintomo di pressioni politiche e lobbistiche che stanno influenzando le politiche ambientali dell'Ue.

Anche la recente proposta “Stop-the-Clock” ha posticipato di due anni alcuni obblighi di rendicontazione, creando più spazi per il greenwashing proprio quando servirebbe maggiore trasparenza.

La sfida non è solo normativa, ma culturale e psicologica. La generazione che dovrebbe guidare la transizione ecologica si trova intrappolata tra l'urgenza di agire e la percezione di essere stata tradita da chi detiene il potere decisionale e comunicativo.

© Riproduzione riservata