Le fibre ottiche sono nate per trasmettere dati ad alta velocità e in grandi quantità, ma da un po’ di anni a questa parte si è iniziato ad utilizzarle per raccogliere informazioni, ossia per ottenere dati, oltre che trasmetterli. Ed è quello che sta facendo l’Ingv (Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia). Analizzando le registrazioni in bassa frequenza delle deformazioni dinamiche acquisite mediante la tecnologia nota come Das (Distributed acoustic sensing) sull’isola di Vulcano, un gruppo di ricercatori dell’Istituto, con collaboratori del GeoForschungsZentrum di Potsdam (Gfz) e dell’Università di Catania (UniCT) hanno dimostrato che i cavi di telecomunicazione in fibra ottica, in associazione con algoritmi innovativi di intelligenza artificiale, possono contribuire alla  comprensione e al monitoraggio di aree vulcaniche, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Scientific Reports.

Il metodo Das è concettualmente semplice: uno strumento apposito invia una serie di impulsi nella fibra e registra il ritorno del segnale nel tempo. Se vi è un evento sismico tali segnali vengono alterati e interpretando tali alterazioni si ottengono informazioni geofisiche importanti. I segnali sismici di natura vulcanica sono utili alla comprensione dello stato del vulcano e quindi possono fornire informazioni preziose per la stima della pericolosità del vulcano stesso. Interrogando tramite un cavo per le telecomunicazioni in fibra ottica on-shore e off-shore che collega l’isola di Vulcano alla Sicilia, i ricercatori sono riusciti a rilevare automaticamente un gran numero di eventi sismo-vulcanici.

Durante l’acquisizione, durata un mese, i ricercatori hanno rilevato 1488 eventi con una grande varietà di forme d’onda composte da due bande di frequenza principali (da 0,1 a 0,2 Hz e da 3 a 5 Hz) con varie ampiezze relative. La valutazione del rischio vulcanico richiede informazioni geofisiche, geochimiche e geologiche che vengono acquisite attraverso strumentazione scientifica installata sui fianchi e sulla sommità dei vulcani. Fino ad oggi i sismometri sono stati gli strumenti principali per studiare i processi di origine dei segnali nei vulcani e, di solito, sono installati sull’edificio vulcanico per catturare gli eventi e stimarne la sorgente. Tuttavia, nelle piccole isole vulcaniche, l’ambiente sottomarino richiede l’installazione di strumentazione particolarmente costosa e difficile da gestire e mantenere. Grazie alla capacità di interrogare cavi sottomarini anche a lunghe distanze, fino a decine di chilometri, i dispositivi Das trasformano la fibra in una densa serie di sensori più facili da gestire rispetto a quelli tradizionali. Questa capacità permette di intervenire facilmente e velocemente per acquisire segnali utili a dare risposte rapide alle crisi vulcaniche. L’acquisizione di segnali Das produce un’enorme quantità di dati e costituisce una sfida dal punto di vista informatico per la loro archiviazione, accesso ed elaborazione. Durante l’esperimento a Vulcano sono stati acquisiti con continuità circa 20 terabyte di dati. Pertanto, il team ha sviluppato nuove soluzioni informatiche per raccogliere, gestire e analizzare gli enormi volumi di dati avvalendosi dei recenti avanzamenti tecnologici nell’high performance computing e nell’intelligenza artificiale.

Megatsunami a Tonga

AP

C’è voluto più di un anno di analisi per scoprire che gli eventi successivi alla imponente eruzione del 2022 di un vulcano sottomarino di Tonga, ha causato uno spaventoso tsunami, con onde più alte dei potentissimi terremoti del Giappone o dell’Indonesia che causarono decine di migliaia di vittime. Lo studio ha ricostruito in una simulazione lo tsunami risultante che si è diffuso in tutta la regione. La ricerca, pubblicata su Science Advances, mostra che l’esplosione portò onde alte più di 40 metri ad impattare con alcune delle coste di Tonga.

I risultati potrebbero offrire spunti per aiutare a migliorare le future valutazioni dei pericoli di simili eventi e la preparazione al disastro. «L’evento dello scorso anno ha offerto ai ricercatori la migliore opportunità per comprendere i comportamenti degli tsunami vulcanici», afferma Annie Lau, geomorfologa costiera presso l’università del Queensland a Brisbane, in Australia.

Il vulcano Hunga Tonga-Hunga Haʻapai che si trova nell’Oceano Pacifico meridionale esplose il 15 gennaio 2022, generando onde d’urto che hanno provocato onde insolitamente alte che sono arrivate fino ai Caraibi. Gli tsunami innescati in questo modo sono difficili da monitorare, perché si muovono più velocemente di quelli causati da terremoti o frane, afferma Linlin Li, uno scienziato che studia tsunami presso la Sun Yat-sen University di Guangzhou, in Cina. «Le esplosioni vulcaniche sottomarine sono uno dei meccanismi che innescano tsunami meno compresi». Per indagare come si è svolto quello legato al Tonga, i ricercatori hanno costruito una simulazione digitale dell’evento utilizzando immagini satellitari scattate prima e dopo l’eruzione, insieme a dati raccolti da droni e altre osservazioni sul campo.

Hanno mappato 118 siti in dieci isole di Tonga per tracciare il movimento delle onde generate da tre esplosioni chiave. L’ultima delle tre esplosioni ha prodotto tanta energia quanto 15 megatonnellate di tritolo, rendendola centinaia di volte più potente della bomba atomica sganciata su Hiroshima durante la seconda guerra mondiale. Sul lato settentrionale di Hunga Tonga-Hunga Ha’apai, le onde sono cresciute fino ad 85 metri di altezza dopo un minuto dall’eruzione, mentre le onde all’estremità meridionale hanno raggiunto un’altezza di 65 metri. Circa 20 minuti dopo l’esplosione, onde alte 40 metri hanno colpito e inondato la costa dell’isola di Tofua, situata a 90 chilometri a nord del vulcano. A sud, Tongapatu, l’isola più popolata delle Tonga, si è vista arrivare onde alte 17 metri. «Questo è stato molto simile ad un megatsunami», afferma il coautore dello studio Sam Purkis, un geoscienziato marino dell’università di Miami in Florida. Altre località sono fortunatamente sfuggite alla forza bruta dello tsunami. Le onde che colpivano la costa orientale dell’isola di ’Eua, a circa 25 chilometri da Tongatapu, erano alte in media cinque metri, quindi relativamente modeste.

Le vaste e poco profonde piattaforme coralline dell’arcipelago di Tonga hanno probabilmente modellato l’altezza e il flusso delle onde dello tsunami in tutta la regione. «Sono state contemporaneamente una benedizione e una maledizione», spiega Purkis. Queste scogliere poco profonde fungevano da barriera che smorzava alcune delle onde più grandi che arrivavano dall’oceano aperto. Ma le barriere coralline sono diventate anche una trappola per le onde generate da eruzioni più deboli che si erano verificate all’inizio della giornata. Di conseguenza, le piccole onde, sommandosi tra loro, sono diventate più grandi e più imprevedibili, rimbalzando intorno alle isole di Tonga per più di un’ora. 

Lo studio è «probabilmente l’analisi più completa realizzata fino ad oggi» di un megatsunami, afferma Matthew Hornbach, geofisico marino della Southern Methodist University di Dallas, in Texas. Vista la presenza di vulcani attivi nel Mediterraneo questa ricerca può essere di grande aiuto per prevedere, nel caso di un’eruzione nel mare che ci circonda, cosa potrebbe accadere.

Buco nero in fuga

ASSOCIATED PRESS

Un gigantesco buco nero sembra essere sfuggito alla sua galassia natale trascinando con sé un gran numero di stelle. È questo quanto appare analizzando una nuova immagine del telescopio spaziale Hubble, la quale mostra una scia di stelle che si allontana da una galassia a circa 11 miliardi di anni luce di distanza da noi. La spiegazione data dagli astronomi che l’hanno studiata vuole che il fenomeno sia il risultato di un buco nero supermassiccio che è stato scagliato via dalla sua posizione iniziale e che sta lasciando sulla sua scia un gran numero di giovani stelle, che la compressione del gas prodotta dal buco nero stesso ha dato origine.

«C’è questa strana linea retta che punta al cuore di una piccola galassia, e non abbiamo mai visto qualcosa di simile prima», spiega Pieter van Dokkum della Yale University, che ha notato questa stranezza e lo ha descritto con altri colleghi su Astrophysical Journal Letters. «A prima vista sembra che qualcosa sia uscito da quella galassia, qualcosa di molto massiccio che sta sfrecciando nello spazio a velocità incredibile».

È molto probabile che l’oggetto massiccio sia un buco nero supermassiccio che un tempo risiedeva al centro della galassia stessa che fuoriuscito da essa ha dato origine, durante la fuga, alle stelle che si osservano. Si può affermare ciò perché di fronte al buco nero che si allontana ad una velocità di circa 1.600 chilometri al secondo si osserva una nube di gas che potrebbe dare origine ad ulteriori stelle. La linea di astri già formati è lunga più di 200mila anni luce, il che – fatti i debiti conti – significa che il buco nero lasciò la sua galassia circa 40 milioni di anni fa. La causa più probabile del suo esodo sono le interazioni tra diverse galassie, un processo comune che è stato teorizzato decenni fa e che può dare origine “buchi neri supermassicci canaglia”, ossia buchi neri solitari che vagano nell’universo, una previsione che potrebbe finalmente essere confermata. 

Quando due galassie si fondono, infatti, si pensa che i loro buchi neri supermassicci affondino al centro della nuova galassia più grande e inizino ad orbitare l’uno intorno all’altro fino a fondersi. Ma se prima di quest’ultimo atto una terza galassia entrasse in scena, potrebbe interrompere quell’orbitare e scagliare un buco nero, o anche tutti e due nello spazio intergalattico. Questi buchi neri, praticamente invisibili, potrebbero causare non poche catastrofi astronomiche nel caso entrassero in un’altra galassia.

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