Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del “Processo alla Sicilia”, il libro che raccoglie trentacinque inchieste di Pippo Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania


Mangano ora è vicequestore di Palermo, incaricato della coordinazione delle attività antimafia. Ha un ufficio che sporge su un ballatoio lungo il quale si aprono gli altri uffici del nucleo anticriminale. Sono quasi tutti giovani, eleganti, con la cravatta, ma in maniche di camicia, il grosso fodero della pistola sotto l’ascella.

Mangano ha la giacca, la cravatta, il fazzoletto al taschino, le scarpe lucidissime, la camicia candida, anche la barba grigia gli sta esattamente attorno al volto, nemmeno un pelo superfluo, folta, compatta, come una barba di marmo. È abbronzato, ha delle mani gigantesche, con un anello di ferro, gli occhi azzurri, non ride mai. Ha catturato di persona almeno una ventina di ras della mafia, ha messo loro le manette.

Quando fu completato l’accerchiamento della casa dov’era nascosto Luciano Liggio, ci fu un momento di silenzio «Ebbene!» disse semplicemente Mangano. Trasse la pistola dal fodero e con un calcio spalancò la porta. Stava per crollare anche il muro.

Racconta Mangano: «Liggio si muoveva, curava personalmente i suoi affari, non stava mai rintanato in un posto. Si sentiva sicuro. Quando viaggiava la sua auto era scortata da due staffette, cioè altre due auto, una avanti ed una dietro, a bordo delle quali erano uomini di grande censo, rispettabili.

Incontravano i blocchi di polizia e gli agenti salutavano con deferenza, essi si fermavano a chiacchierare affabilmente. Intanto Liggio era già avvertito e la sua auto svicolava altrove, si intanava. Fra i suoi amici c’era il medico La Mattia, il commerciante Marino, persino il sindaco di un paese. Un giorno si era saputo che Liggio era ricoverato in una clinica e si organizzò con estrema segretezza un’operazione in grande stile per catturarlo.

Cento uomini furono mobilitati per circondare la villa. Ma Liggio se ne era già andato. Qualcuno gli aveva dato l’allarme, qualcuno che naturalmente sapeva dell’operazione. Egli aveva tessuto un’ immensa ragnatela. La sua bava era di oro e di sangue, con la corruzione e la paura egli aveva imprigionato migliaia di coscienze, si pagava le cure di medici illustri, si pagava le donne più belle, gli uccisori più abili nell’uccidere».

Nel fascicolo istruttorio a carico di Luciano Liggio si erano affastellate quindici denunce per omicidio, ma quel piccolo contadino zoppo, cresciuto in una zona dove l’infelicità e la solitudine dell’uomo sono come le pareti di una tomba, per centottanta mesi era riuscito a sfuggire alla giustizia. Quell’uomo gracile, con il torace imprigionato da un busto di legno, era il criminale più astuto ed implacabile di tutto il dopoguerra.

Giuliano era forte come un toro, era bello, spavaldo, si cuciva sulla manica i gradi di generale, cavalcava con il cannocchiale a tracolla come un ufficiale degli ussari, le donne svedesi partivano da Stoccolma per farsi amare da lui; scriveva epitaffi, memoriali, scannava i contadini che facevano lunedì di Pasqua e piangeva come un vitello dinnanzi ai mendicanti, abitava nelle caverne, e fu ucciso nel sonno dal suo migliore amico.

Luciano Liggio era debole, deforme, non sapeva scrivere, viaggiava nelle auto di lusso, non aveva pietà di nessuno, aveva il senso dell’ironia, si camuffava da prete, da agente di polizia, da donna, da americano vacanza, da paralitico, viveva nelle cliniche più attrezzate o negli alberghi alla moda.

Nella sua cattura c’è un fatto marginale, quasi allucinante, e che tuttavia definisce la potenza del personaggio, quello che egli era diventato. Egli fu catturato infatti nella casa di Leoluchina Sorisi. Costei era stata la fidanzata di Placido Rizzotto, il sindacalista che Luciano Liggio avrebbe fatto assassinare martirizzandolo, legandolo cioè con una catena al fondo di una spelonca e lasciandolo morire di fame, divorato dalle bestie selvatiche della campagna.

Nessuno avrebbe mai potuto sospettare che il bandito si nascondesse nella casa di colei che avrebbe dovuto odiarlo più di qualsiasi altra persona al mondo, della persona che, dopo l’assassinio del fidanzato, aveva teatralmente detto: «Chi ti uccise, io gli spaccherò il petto e gli mangerò il cuore!».

Invece Luciano Liggio venne trovato nella sua casa, nutrito con il cibo che lei per settimane gli aveva dovuto cucinare, coricato nel letto di cui lei gli aveva probabilmente rimboccato le coperte. Ma Giuliano, ucciso a tradimento dal migliore amico, era solo un romantico, feroce bandito; e Liggio invece era un mafioso. Anche nell’attimo in cui, alle spalle del tenente dei carabinieri che aveva spalancato la porta, il commissario Mangano gli apparve dinnanzi, nel momento in cui tutta l’allucinante avventura di quindici anni finiva, Luciano Liggio ha cercato di volgere in ironia il soprassalto di panico.

Non ha fatto nemmeno il gesto di afferrare la pistola che aveva sul comodino: «Buongiorno - ha detto - Non sparate, sono un povero paralitico!». Poco dopo, mentre lo prendevano in consegna all’Ucciardone, ribadiva: «Vorrei tre cose. Anzitutto un letto molto morbido e delle coperte di buona lana. Poi ho bisogno di mangiare carne, uova e latte. Infine se volete che sopravviva dovete darmi sole e aria di mare. Almeno tre o quattro mesi l’anno...».

Sembra la frase di un miliardario in convalescenza. È anche una magnifica battuta per uscire dalla scena al calar del sipario. La ribalta ora potrebbe sembrare deserta poiché i personaggi della commedia sono scomparsi, Luciano Liggio, Genco Russo patriarcale e sinistro, l’opimo don Vincenzo Rimi detto il «cardinale», Pietro Torretta aquilino e triste, conosciuto come il «padreterno dei Ciaculli», e cento altri come loro; sulla ribalta sono rimasti solo i morti, centinaia di morti straziati in ogni modo, una montagna sanguinosa, e banconote sparse ogni dove che svolazzano ancora come coriandoli.

Ma dietro questa ribalta, dietro le quinte, sono rimasti i palazzi costruiti senza licenze edilizie, le migliaia di testimoni che giurarono il falso dinnanzi alle Corti di Assise e di nuovo giureranno il falso, i miliardi depositati nelle banche sotto nomi fittizi, gli uomini politici che rappresentano il popolo con i voti della mafia, i funzionari che concessero le licenze e gli appalti, le terre depredate a prezzi di terrore, le industrie che non si costruirono poiché chi voleva costruirle ebbe paura, le dighe che non sono state costruite per non seppellire alcuni ettari di aranceto, i posti che furono dati con l’imbroglio.

E laggiù, nel fondo della Sicilia oscura, dove le strade non arrivano, dove le scuole sono povere e poche, dove l’acqua non irriga i campi, dove gli ospedali sono squallidi, la causa della mafia è intatta: la miseria dell’uomo, la sua anima cupa e disposta ad un facile prezzo. In cento paesi ci sono ancora uomini disposti ad uccidere un altro uomo pur di cambiare la propria condizione umana. La storia esemplare di Corleone, un paese nobile, antico e infelice, può essere la storia di qualsiasi altro paese.

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