Lo scrivere lento è un privilegio che raramente mi è stato concesso. Ma non me ne sono mai lamentato, perché l’ha deciso il lavoro che ho scelto, mestiere che ha segnato i miei tempi e mi ha trascinato in una lunghissima avventura. Dopo quasi mezzo secolo di articoli confezionati all’interno di rigidi confini – orari di chiusura delle pagine in tipografia da rispettare, righe o battute da trasmettere con ossessiva precisione in redazione (nella seconda metà degli anni Settanta, quando ho iniziato come cronista all’Ora, i “pezzi” si dettavano ancora per telefono agli stenografi) – ho capito che lo scrivere lento, al contrario di quanto si possa immaginare, a volte può togliere e non dare a chi, come me, fa o ha fatto il giornalista.
C’è sempre una tensione che monta improvvisa, un’ansia molto speciale che si agita e agita quando fuori è già buio, quando ancora ci sono appunti da rimettere a posto, quando i minuti passano e sei sempre più esitante davanti a una schermata bianca in un fetido
café nei vicoli del porto di Sfax, nella penombra di una stanzetta dove si stampa uno sconosciuto foglio della piana di Gioia Tauro o dentro un viaggio che sembra non finire mai.

È in quel momento che c’è lo scarto, che c’è qualcosa che prende forma, le dita che battono sui tasti per aggiungere o eliminare un aggettivo, per un incastro adeguato al capoverso successivo, per lasciare un graffio che sarà poi la tua impronta digitale.

La strada controvento

Mi tornano in mente questi istanti che hanno preceduto migliaia di volte la spedizione di una corrispondenza, mentre cerco un ordine nella selezione di cronache e racconti che testimoniano la mia attività pubblicistica in Sicilia e lontano dalla Sicilia, temi e storie assai distanti fra loro ma tutti accomunati da quel lusso negato, lo scrivere lento.
Non ho avuto grandi difficoltà a individuare i reportage o le interviste da scegliere, direi che si sono scelti da soli, con naturalezza. Anno dopo anno, argomento per argomento, di luogo in luogo. È la strada che ho fatto, controvento in più di un’occasione.

C’è Palermo, dove da giovanissimo ho vissuto nella sua stagione più spaventosa. Quando finisce Palermo, così scrivo in uno dei miei articoli, comincia la Sicilia, che ho sempre considerato diversa rispetto alla capitale di un’isola che solo in apparenza comanda sui paesi, paesi che conservano radici ben più profonde e che quelle radici sanno farle valere su una città troppo immodesta per accorgersi della sua sottomissione.
E poi il sud che ho esplorato nei suoi incarognimenti, la Puglia e la Calabria, terre attraversate o raggiunte sopra «il corpo del reato più lungo del mondo», i 443 chilometri dell’autostrada Salerno-Reggio. Nella raccolta c’è mafia e c’è anche un po’ di Afghanistan dopo le Torri gemelle, c’è una Baghdad devastata dalle bombe, qualche cronaca dai Balcani.
Non sono e non sono mai stato un giornalista esperto di “esteri”, in quei territori sono capitato quasi per caso per raccontare ciò che vedevano i miei occhi. Ho sempre pensato che non ci siano tanti modi di fare giornalismo, ma uno solo, nel cortile davanti casa o a migliaia chilometri di distanza. Oltretutto non mi è mai piaciuta neanche la qualifica di “inviato di guerra” che talvolta viene frettolosamente appiccicata a quei giornalisti che si sono ritrovati su qualche fronte, per quanto mi riguarda non mi sono mai sentito “in guerra” se non da ragazzo, a Palermo, quando stato e mafia si tenevano per mano per governare insieme una città infetta.

Latitanti

Lontano dal mio ambiente, lontano dall’Italia, in alcune circostanze ho avvertito un certo disagio per il provincialismo, i limiti del mio giornalismo. Sicuramente è successo in Iraq, alla fine del 2003, quando ci fu il clamoroso arresto di Saddam Hussein. Ero lì.

Dietro alla cattura di ogni grande latitante – non importa se si chiami Totò Riina o Pablo Escobar, se l’operazione di polizia o militare avvenga a Corleone o nel deserto di Tikrit – c’è sempre qualcosa di indicibile. Tirarono fuori Saddam da un buco nella terra, una fossa malamente coperta da detriti, lui respirava a fatica grazie a un rudimentale impianto di ventilazione, sotto il ventre aveva due fucili mitragliatori e 750mila dollari in biglietti da cento. Sono stato costretto ad accettare la versione ufficiale (alquanto traballante) del suo ritrovamento. In simili frangenti, in Italia ho rappresentato vicende simili assai diversamente, ricordando i tanti segreti intorno al covo di Totò Riina mai perquisito o la facile resa di Matteo Messina Denaro trasformato da un’informazione remissiva in un patetico personaggio da reality show.
Nei miei archivi ho ritrovato il Mediterraneo con i suoi
passeurs, la dolce vita dei contrabbandieri italiani in Montenegro, gli zingari amici di Vito Ciancimino che difendono a Bucarest la pattumiera più grande d’Europa, i ristoranti “Mafia” sparsi per la Spagna. E c’è anche la spericolata resistenza dei reporteros messicani sulle rive del Rio Bravo o Rio Grande, il Tamaulipas e il Texas, l’inferno e il paradiso, su una sponda la morte e la paura e sull’altra le ville dei sindaci della frontera chica, di giorno amministratori nel loro Messico e di notte residenti nella contea di Starr a godersi i frutti della corruzione in una piccola città che per perfida coincidenza si chiama Roma.
Poi ci sono le interviste a Giovanni Falcone e a Paolo Borsellino, accompagnate da una sorta di backstage che svela cosa è accaduto prima e dopo quegli incontri. Voglio chiudere l’elenco con un paio di articoli firmati con gli amici di una vita, Giuseppe D’Avanzo e Franco Viviano.

Gli amici di una vita

Con Giuseppe ci siamo appassionati alla saga mafiosa di Corleone e poi alle amicizie palermitane di Giulio Andreotti e di Silvio Berlusconi, le nostre cronache cominciano all’inizio degli anni Novanta e finiscono quando Peppe, troppo presto, se n’è andato.
L’articolo che ho inserito è del 20 marzo 1994 e dà conto della prima indagine dei rapporti del Cavaliere di Arcore con i boss della Cupola.

Per quell’articolo sono stato convocato come testimone, ventotto anni dopo, dai magistrati che indagano sulle stragi del 1992. Nel 2022 erano ancora a caccia della talpa. Con Franco, a doppia firma, c’è invece l’articolo sull’indagine per mafia a carico del Padrino dell’Antimafia, il vicepresidente di Confindustria Antonello Montante che aveva ammaliato tantissimi magistrati, procuratori che pur avendo fama di grandi esperti di cose di mafia evidentemente sono in grado di riconoscere il malaffare solo quando ha addosso i pantaloncini a pinocchietto dei Casamonica o mostra le facce truci dei soliti macellai delle periferie meridionali. Imbarazzante.

Quando ogni tanto li sento dibattere su vecchie e nuove mafie, mi sfugge sempre un sorriso ripensando alle loro strusciatine con quel Montante. La maggior parte degli scritti che leggerete provengono da Repubblica dove ho lavorato felicemente per quasi quarant’anni, prima con Eugenio Scalfari e poi direttore Ezio Mauro. Sono cresciuto in quella comunità giornalistica e da lì ho visto il mondo diventare un altro mondo.

E alla fine gli articoli e i commenti su Domani, giornale dove sono approdato e dove ho trovato nuovi amici. Forse devo una spiegazione per la foto di Tony Gentile in copertina del libro, con quel cane a prima vista sperduto nelle campagne di Gibellina in una strada che sembra uscire dal Cretto di Burri. Di cani e giornalismo un giorno mi ha parlato Diego Enrique Osorno, collega che ho conosciuto in Messico, un talento del nuevo periodismo latino-americano.

Con Diego c’eravamo inoltrati in territori proibiti fra Ciudad Mier e Matamoros, e al ritorno a Monterrey, la sua città, mi ha invitato all’università di San Pedro dove una volta la settimana conduceva un programma radiofonico. Gli ho chiesto perché avesse chiamato la sua rubrica Los perros romanticos, i cani romantici. Mi ha detto che i giornalisti non dovrebbero mai mollare la presa, proprio come certi cani. Ma, mi ha assicurato Diego, denti e mascelle non bastano. Ci vuole anche il cuore. Cani romantici.

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